sabato 15 dicembre 2012

Brutti ma buoni (& Tetrospettive): Quella casa nel bosco

E rieccoci qui, pronti a inaugurare la nuova rubrica “Brutti ma buoni”. Film d'elezione il tetro(spettivo) horror “Quella casa nel bosco” ("The cabin in the woods"), diretto da Drew Goddard e sceneggiato (nonché prodotto) da quel buontempone di Joss Whedon, che già ci aveva fatto divertire con "The Avengers".
L'opera in questione, indiscutibilmente, si colloca tra gli entertainment riusciti, dunque non meriterebbe di stare in questo blog. Però, altrettanto indiscutibilmente, è brutta, o per meglio dire: piena di cose brutte. Del resto in quale altro modo definireste una storia che vanta, tra i suoi personaggi, un'intera mandria di zombie d'antan, un invadente tritone, ballerine bambine con varie file di denti al posto del volto, draghi ingestibili, unicorni omicidi, il redivivo Pinhead e soprattutto “gli Antichi”? Ah, gli Antichi.
La premessa non è diversa da tante altre imprese di genere: cumpa di cinque giovani (due coppie, una reale e una potenziale, con full di un amico fumato) che va a spassarsela per il weekend in uno sperduto casolare boschivo, scenario buono per killer alla Jason Voorhees (c'è anche il laghetto), senza minimamente subodorare che una catastrofe sta per abbattersi sulle loro innocenti vite.
Da tempo gli horror si sono ripensati, in mancanza di idee fresche: hanno iniziato a prendere in giro i propri stessi meccanismi, si sono fatti cerebrali, al punto tale che è sempre più difficile mettere insieme delle trame che risultino ad un tempo paurose e originali. Qui il gioco è a carte scoperte, perché in realtà contro i malcapitati non si staglia il villain di turno, spettro o meno che sia, bensì un'intera organizzazione segreta, che ne controlla e orienta le mosse da un centro di comando, tramite telecamere nascoste e vari marchingegni installati nella casupola.
L'effetto Truman show è immediato, il senso del tutto un po' meno: la finalità principale dei crudeli guardoni non è registico-estetica, ma addirittura salvifica: vogliono dare i gitanti suddetti, quale ex voto annuale per un'eterna pace sulla Terra, in pasto a una congrega di mostri, allo scopo di riservare il loro sangue a delle divinità immortali, perennemente affamate (i lovecraftiani Antichi di cui sopra), affinché restino buone nei meandri geologici, e non riemergano con effetti apocalittici sul pianeta.
Il risultato è uno strano pastiche di oscurantismo e tecnologia, fra l'altro non limitato al suolo americano, ma esteso a tutto l'orbe terracqueo. Con sapida citazione da "The ring", per esempio, a Kyoto delle piccole alunne evocano il classico spirito della bambina bagnata, ma con disdoro dei grandi capi della corporation riescono a debellarla: per il sangue rivolgersi al bosco del titolo, anche perché nel resto del mondo le cose non funzionano meglio.
Naturalmente, come sempre accade in queste vicende metafilmiche, la perversione la fa da padrone, così scopriamo che, all'interno della sede centrale, al rinnovarsi del sacrificio, tutti gli impiegati scommettono dei soldi su quale sarà il demone evocato dalle vittime. Sì, perché – ed è questo l'aspetto più divertente della faccenda – il menu prevede che i sicari dell'altro mondo non siano predeterminati, ma rinchiusi in un reticolo di celle sotterranee, dalle quali verranno liberati all'uopo a seconda delle scelte che gli ospiti della casa decideranno, inconsapevolmente, di compiere.
Luogo fatidico per l'evocazione è una sudicia cantina, adeguatamente ingombra di bambole agghiaccianti e formulari necronomici, in cui i protagonisti, per malsana curiosità, finiranno per addentrarsi, rendendosi artefici del loro triste destino. Naturalmente, siccome siamo al cinema, deve scattare l'elemento conflittuale, in questo caso rappresentato dal tossico succitato, che, avvezzo alla marijuana come ad un secondo ossigeno, ha il contravveleno agli effluvi malefici scatenati nelle stanze della casa per stordirne gli abitanti e indurli a mettersi alla mercé dei cattivi.
Gli effetti saranno terribili: messosi in salvo contro ogni previsione, prima sgominerà gli zombie risvegliati per l'occasione, poi trascinerà con sé l'amica superstite fino alle prigioni, disattivando il sistema di sicurezza e scatenando il greatest hits delle brutture contro i loro stessi carcerieri, compreso lo staff della stanza dei bottoni e la mastermind dell'intera operazione, una torva Direttrice (interpretata, insospettabilmente, da Sigourney Weaver). Così facendo, avrà salva (temporaneamente) la vita, ma lascerà gli Antichi a bocca asciutta, dando così origine al loro devastante ritorno e alla conseguente fine del genere umano.
Tanto detto, i complimenti – è pur sempre una rubrica di servizio – sono finiti, e meritano di essere segnalate alcune indiscusse perle che, con un filo di noia in più, avrebbero direttamente spedito il film in orbita Kevin. Di seguito:

  • Assolutamente ridicolo lo stratagemma per far entrare i ragazzi in cantina. Nel pieno della prima serata nel casolare, si apre di botto un botolone in soggiorno, a occhio pesante come un macigno. Uno degli ignari, con ammirevole logica, ipotizza: “l'avrà spalancata il vento”, meritandosi così di soccombere;

  • Indimenticabile la famiglia zombie scelta per gli assassinii rituali: i Buckner, sorta di quintessenza del bigottismo americano del secolo scorso, completi di bimba senza un braccio e altri elementi poco raccomandabili. Tra questi, menzione d'onore per il generosissimo Judah Buckner, smembrato a colpi di cazzuola ma ancora straordinariamente coriaceo;
  • Pregevole, dal punto di vista balistico, la fine di uno dei protagonisti, interpretato da Chris Hemsworth, già noto per "Thor". Con fiducia inusitata, si lancia con la propria moto oltre un dirupo, ma si schianta desolatamente contro una barriera elettrica invisibile, eretta subito dopo l'arrivo degli “agnelli” (così sono definiti i sacrificabili dal guardiano invasato alle dipendenze del bureau) nella località del massacro. Fra l'altro, era appena scampato all'assalto dei Buckner in un anfratto del bosco, attiratovi con amica vogliosa (lei, purtroppo, fatta a pezzi) da improbabili geyser ormonali attivati dalla centrale. Peccato;

  • Quantomeno rivedibili i criteri per la scelta delle vittime. La compagnia dovrebbe impersonare, secondo codici simili ai tarocchi, le figure dell'Atleta (il motociclista di cui sopra), della Puttana (la relativa morosa), del Folle (il fattone immune), dello Studioso (un inutile, e ugualmente muscolare, individuo, ucciso mentre teorizza l'uscita da un tunnel in macchina) e infine della Vergine (l'altra superstite, che vergine non è, ma pazienza: si fa con quel che si ha, dice Sigourney cadendo di tono). Per ragioni non chiare, solo quest'ultima è risparmiabile, ma vista la grancassa conclusiva non è proprio il caso di sottilizzare.

martedì 11 settembre 2012

Parliamone Malick - Post recensione a To the wonder

Adesso che la Mostra è finita, e il Leone d'oro è stato – meritatamente, a nostro avviso – consegnato a Kim-Ki-Duk, possiamo chiudere il cerchio delle recensioni, e dire due parole su Terrence Malick. Perché non farlo prima?, chiederete. Beh, perché il suo ultimo "To the wonder", in concorso, è un film, al di là di ogni altra considerazione, mortalmente noioso, a tal punto pretenzioso e sconnesso da indurre a soprassedere perfino su una stroncatura. Il clima da liquidazione, tuttavia, consiglia comunque di occuparsene, a patto che si consideri quanto segue una sorta di review con lo sconto, di quelle che servono solo a svuotare gli scaffali. Dopotutto, è pur sempre una rubrica di servizio.

Ordunque, procediamo. Malick, sia detto per onestà intellettuale, non è esattamente il nostro regista preferito. Ne conosciamo la cinematografia a spot, avendo visto soltanto "Badlands" (storia abbacinante, quasi autistica su un fuorilegge risalente agli anni '70) e "La sottile linea rossa" (ben più recente, e insopportabilmente colmo di sofisticherie in un contesto bellico). Non ci ha mai invogliato, temendo obiettivamente un polpettone, il premiatissimo "The tree of life", né, a maggior ragione, il succitato "To the wonder", ritenuto da alcuni un seguito del primo. Ma era in lizza per il Leone, e quindi.

Il film si apre (ma non si chiuderà mai) su una storia d'amore tra un americano (il mascelluto Ben Affleck) e una francese (Olga Kurylenko, non sottilizziamo sulle origini ben più a est dell'attrice), con tanto di bambina al seguito. Inizialmente a Parigi, la coppia decide di trasferirsi in America, per agevolare il lavoro di lui (sonda terreni in cerca d'inquinamento dalle parti dell'Oklahoma). Qui, però, il clima idilliaco degli esordi si guasta, e lei fugge via con la figlia, mentre il partner riallaccia – temporaneamente – i rapporti con una vecchia fiamma locale (Rachel McAdams, scritturata per una parte sostanzialmente muta). Anche l'Olga di cui sopra avrà un incontro con un altro uomo, poi ritornerà sui propri passi, però non sarà più la stessa cosa, e in mezzo a questa vicenda, che non è esattamente originale, assistiamo ai tormenti di un prete (Javier Bardem, l'unico credibile), perennemente alla ricerca di Dio come gli altri protagonisti dell'amore, ma destinato ai medesimi insuccessi.

Fin qui la scarna trama, perché per il resto l'opera è una ripetuta e devastante interiezione di campi a perdita d'occhio, lame di luce, Kurylenko che balla e ruota su se stessa, corre in lontananza, e in voce off ci racconta a mezze frasi della sua felicità irraggiungibile. I paesaggi si moltiplicano, sommergono, collegati – si fa per dire – da una veduta iniziale di Mont Saint Michel (dove, dopo solo dieci minuti, si arriva alla meraviglia del titolo) senza la marea, per chiudersi con la stessa cartolina con l'acqua in risalita. C'è tempo per scene bizzarre, al limite della casualità: terrificante la comparsata, con calata romanesca (!), di Romina Mondello, che incrocia la Kurylenko in una delle sue tante elucubrazioni e spara a propria volta insensatezze a raffica; imbarazzante, del pari, lo sgomento della McAdams, che in varie scene non sa letteralmente dove guardare, cosa interpretare, come comunicare. Fuori campo si alterna pure la voce del prete suddetto, ovviamente in spagnolo, perché l'intemerata sia universale, mentre ad Affleck è affidata una parte da tubero del set, funzionale ad esemplificare il concetto di amore, di rapporto, di gelosia, e via categorizzando.

Poteva essere un videoclip sull'inquietudine, una riflessione sull'angoscia, perfino – benché fuori tempo massimo – un'assenza all'Antonioni. Non è niente, se non il fallitissimo tentativo di fare narrazione per immagini, che è tecnica buona, al più, per i documentari, giacché al cinema e non solo la poesia non si contenta del panorama ma lo giustifica con le parole. Malick, invece, non fa che svuotare di significato proprio i campi lunghi che profonde in abbondanza, dilavando la trama in inspiegabili esaltazioni naturalistiche. Non fosse il santone che si era ritirato dal cinema per decadi, che pure il talento visivo l'avrebbe (e ci mancherebbe: ormai non dirige altro), che è stato, appunto, insignito del palmizio di Cannes, si direbbe soltanto che è un regista presuntuoso. Invece, c'è ancora qualcuno che s'interroga sulle sue imprese, non rese certo più intriganti dal contegno salingeriano, che lascia la scena della kermesse alle attrici, costrette a commentare a braccio le sue indecifrabili sceneggiature. Poiché Takeshi Kitano, che ha concorso con "Outrage Beyond", ci ha mortalmente deluso con un film del tutto privo della tradizionale spregiudicatezza visiva, saremmo quasi tentati di dire che la riserva di immagini del Beat se l'è depredata Malick, facendone un uso sacrilego. Ma non metteremo mai sullo stesso piano i due, e non tanto per lo stile, bensì perché uno – Kitano – è un artista, l'altro uno scommettitore.

lunedì 10 settembre 2012

PASSION (OF CHI?) - BRIAN DePANZA E LA NON-ARTE DI RICICLARE

Prima impressione: DePalma cammina male, incerto, quasi zoppica. Il suo film non procede meglio. La prima, in sé, non è una colpa, chiaramente (piuttoto forse conseguenza di un tremendo ingrassamento – peraltro, non ben celato dal guardaroba). La seconda direi che lo sia, e meriti d'essere denunciata.

Senza troppo dilungarci (mento, sia chiaro), mettiamola così: ci son due donne in carriera, circa colleghe ma una sottoposta dell'altra. Lavorano assieme ad alto livello in una multinazionale di marketing, sede europea (forse), e progettano pubblicità di telefonini fichi. Che poi forse c'è pure della tensione sexy, ma anche no, è tutto un gioco di quella cattiva, quell'altra buonina e timida scappa persino via quando arriva il moroso della prima. E quella, la prima, che poi è la capa, si frega le idee dell'altra che le condivide in buona volontà e con passione da lavoratrice indefessa (dev'essere tedesca, giusto? Ma anche no, dato che a domanda “da dove vieni?” non risponde: mah). Si frega le idee, proprio, la stronza. Solo che l'altra, la buona, la sottoposta onesta, nel frattempo si scopa il fidanzato della capa in trasferta a Londra, con tanto di filmino con lo smartfono – e allora, come la mettiamo? La mettiamo in un'escalation di tensioni, ripicche, tentativi di avvicinamento e seduzione. E nel mezzo il moroso (un barbudo forse tedesco, tale Dirk, però con accento a tratti oxfordiano – con fedina penale non proprio immacolata e tendenza ragguardevole all'alcolismo) e la segretaria della seconda, cioé la sottoposta, cioé la buona – forse. Che è iperefficiente e lavoratrice e fedele e scopre gli inghippi della capa (o del moroso? Che poi sarebbe l'amante della seconda, o forse era tutto un complotto della prima?) coi soldi, e scopre i lavori fatti male dai colleghi di Niuiòrk, e convince la sua, di capa (cioé la sottoposta, la seconda) a fare una cosa un po' scorretta ma tanto, già che l'aveva presa nel didietro prima, oramai è legittimata. Anche secondo voi seduti in platea (e non esattamente annoiati, a questo punto, però perplessi un po' lo siete), sì, è legittimata a restituire la porcata. Ma non tutti son d'accordo, anzi non tutte, anzi la capa s'incazza (beh, pure lei ci ha i suoi motivi, a ben vedere) e medita anzi agisce vendetta – ed in fretta. In troppa fretta? Mah. Pare che riesca, pare anche troppo a dire il vero. Nel senso che dopo un'ora banalotta ma non poi orribile (con qualche inquadratura buona e qualche bel movimento di macchina – eggrazie, direte voi; epprego, diciamo noi) sembra di stare su dei binari tremendamente convenzionali; poi, forzato, arriva il cambiamento, lo spiazzamento: per un quarto d'ora (forse più) ci si trova a vedere tutto buio ed inquadrato in modo sbilenco, una realtà filtrata dalla luce delle tapparelle, dagli incubi, insomma un prontuario di trucchi da B-movie per far precipitare la protagonista nella paranoia, nell'allucinazione, nel delirio.
Dunque ha vinto quell'altra, la “nostra” è sbarellata, è impillolata, è destinata alla sconfitta? Pare di sì, anche se poi si suggerisce l'indizio contrario (più o meno con la raffinatezza e la comunicazione indiretta con cui in tangenziale ti dicono “amore, vuoi fare sesso?”), e poi ancora si ritorna allo split screen (caro vecchio amico, quanto tempo! dove sei stato?) per dare gli alibi e incasinare le prospettive e farvi vedere una bella donna seminuda (che non fa mai male) e poi sgozzata (ahi!) e soprattutto per costringervi a 5 minuti di balletto in primo piano, che non ci andate mai, ignorantoni! Si sveglia la sopravvissuta in crisi di sudore (tantissimo, madonna quanto traspira questa) e respirazione e panico, ed ancora non ha visto il meglio della giornata: è mezzogiorno e ha gli sbirri (tedeschi, poi) alla porta che la vogliono portare al gabbio nientemeno che per l'omicidio dell'amica. Hai detto niente. Solo che lei, l'arrestata, è sballata parecchio, e non ce la fa a rispondere, a razionalizzare, a dire il vero nemmanco a tenere dritto lo sguardo (e la telecamera fa venire il mal di male pure a noi: adesso smettiamola, Brian, grazie). E finisce per confessare, perché “devo averlo fatto io” (devo?), e va in galera, perché sì (mica ve lo devo spiegare) – ed intanto le inquadrature sono diagonalissime, e l'illuminazione scarseggia - epperò i conti non tornano bene, e la giustizia in Germania è una cosa seria (altro che da noi), e gli investigatori investigano, gli ispettori ispettorano, le amiche cercano di salvarla (ok, l'amica, una sola). E ci riescono, e va tutto bene, e pare sia finita e forse sapete chi è stato o forse no. Varrebbe la pena chiuderla qui e dire che non si è fatto 'sto granché, ma almeno per oggi non ci tirano i pomidoro. Epperò Brian ha ambizioni della stessa taglia della propria epa, ed insiste, vuole aggiungere altri 10, 15 minuti: atti a sbrogliare tutto, a svelare l'inganno, a mostrartelo pure filmato tramite smartfono (eddaje) e poi uploadato su altro fonino a poco prezzo, usa e getta, sinistramente simile ad un Nokia per dirla tutta. E svelato appunto l'inganno si sfalda la cosa, ma proprio del tutto, ma proprio male: perché chi lo svela ha coperto il culo a chi l'aveva intessuto, ed in cambio ne vuole amore amore bello amore passion-ale – e fosse tutto qui – però mica ci son solo loro, c'è l'altro incomodo, che ne va di mezzo e mi sa pure al gabbio per la vita (cazzi suoi, a guidare ubriachi si finisce male, campagna pubblicità progresso pagata dal ministero). E ci sarebbe la gemella dell'uccisa – ma non era una balla raccontata per ispirare pietà, com-passion-e e debolezza? Forse, boh. E poi c'è l'ispettore sfigato (e mica tanto sveglio, se posso dire, rispettosamente) che ha un debole per la non-colpevole che poi è colpevole (lo è? Dice di sì), e la vuole andare a trovare di notte a casa sua con due dozzine di rose rosse (mai sentito parlare di stalking, ispettore?). E allora patatrac!, la cattiva (ma è cattiva? Cioé, era cattiva? O è/era buona? Vai a sapere!) vede l'occasione, anzi la sente, la sente squillante come non mai – e prova a fare il duplice colpaccio. Finisce per strangolare l'amante, mentre la gemella della vittima l'attende alla porta per strangolare lei, e l'ispettore (che nel frattempo ha lasciato le rose sull'uscio, però con un biglietto nel caso si volesse sapere chi denunciare) riceve il filmato compromettente. Insomma tutte morte, tutte colpevoli. O forse era un sogno, ma qualcuna è morta lo stesso.

Viene propagandato un thriller erotico con protagoniste due belle e brave attrici, canonicamente accoppiate come bionda (McAdams) e mora (Rapace) – Antonio Ricci ha fatto scuola. Di erotico c'è assai poco (il nudo ed i gemiti son quasi tutti già nel trailer, per dire), nonostante l'impegno profuso da Rachel nel farsi credere una spietata cagna da mondo degli affari – riuscita parziale. La performance di Noomi va meglio, non fosse che il personaggio è proprio poco credibile.
Vi sto annoiando per bene? Ottimo. Il film, infatti, non tratta meglio i suoi spettatori. Ma, a dire il vero, per un'oretta ero pure incline ad una scarsa sufficienza, non priva di simpatia per un regista dal grande passato o di apprezzamento per la scelta delle interpreti. Perché pareva un Basic Instinct moscio (in tutti i sensi, sì), con meno coraggio e sesso esibito, con meno tensione – molta molta meno. La mezz'ora seguente fa venire il mal di mare per l'impatto visivo, e tanta nostalgia per gli anni '80 a causa della sceneggiatura e di alcune scelte stilistiche – almeno all'epoca erano novità. Gli ultimi 10 minuti sono indegni persino di certa televisione a basso budget. 5 minuti di applausi conclusivi in Sala Grande, tutti a dire sottovoce “che porcata”. Non te la prendere, Brian, la Passion-e se la fingi tu la possiamo fingere pure noi – a 50 euro al biglietto, poi, figurarsi.

venerdì 7 settembre 2012

Sinapupunan - Film in concorso (?)

"E adesso come facciamo? Usiamo i remi?"
"Credo di sì"
"Come stai?"
"Sono un po' stanco"
"Non abbiamo pescato nulla"
Come volevasi recensire (almeno da parte nostra, l'autore del preview si è pavidamente ritirato, addirittura plaudendo a fine proiezione), "Sinapupunan" non delude le attese. Trattasi infatti di onesto documentario su usi e costumi filippini, con profluvio di scenari palafitticoli, paglia bollita, piedi nudi, pesca in alto mare e matrimoni colorati, accompagnati da un discreto melting pot linguistico (sentiamo parlare spagnolo e inglese, oltre ai vocalizzi autoctoni) e religioso (tra i tetti in lamiera, spuntano rudimentali chiese e moschee). In mezzo, ci sarebbe anche una storia: una donna che, per dare un figlio al proprio marito, non potendo riuscirci per vie naturali, accetta che questi sposi un'indigena (è ammessa la poligamia) al solo scopo di concepirne uno. L'unico problema è che la dote costa, e servono espedienti d'ogni sorta per rimpinguare lo scarno patrimonio e raggranellare i pesos necessari. Nel frattempo, la quotidianità dello scenografico villaggio anfibio è tutt'altro che garantita: durante una battuta di pesca, il protagonista finisce, suo malgrado, nel bel mezzo di una sparatoria tra pirati (venendo colpito e poi curato con foglione officinale), e a intervalli irregolari torme di militari irrompono, per motivi sconosciuti, nel precario mercatino del paese, ribaltando banchetti e sporte colme di prodotti tipici (la manioca va alla grande). Thy Womb, il titolo, rimanda al ventre da cui tutto parte (il film si apre con un primo piano vaginale su un parto cefalico) e a cui tutto ritorna (nella scena conclusiva la protagonista, una levatrice, porge il neonato alla ragazza sposata ad hoc dal marito). C'è tuttavia - spoiler - un triste retroscena: per clausola matrimoniale, taciuta alla prima moglie, l'uomo dovrà abbandonarla per accasarsi con la giovane madre del figlio. Il conflitto seguente è solo immaginato, suggerito da un malinconico volo di gabbiani. La storia, comunque, non dura più di un quarto d'ora: il resto è un pregevole corso accelerato di etnologia che ricorda, per sguardo e andamento, i vecchi film di Flaherty. E' piaciuto ai più - pare - per i suoi esotismi assortiti, e in effetti come Lonely Planet è efficace. Sarebbe però interessante capire cosa ci facesse in concorso.

LA CINQUIEME SAISON – UNA STRUZZATA BELGA (FIAMMINGA)

Non avendo parlato del film filippino (per ragioni di onestà: non l'ho odiato tanto), potreste pensare che io voglia infamare questa produzione fiamminga per motivi di mero interesse, insomma per un tornaconto personale. Bravi! Mi conoscete, dunque! Epperò nella fattispecie anche d'altro si tratta: il film è una grossa grossa presa per i fondelli, e ci tengo a mettervi in guardia. S'inizia con un tale a tavola di fronte ad un gallo – vivo, pennuto e non immobilizzato. Il tizio sorseggia caffé, fumante, e produce dei versi atti a far cantare l'uccelletto. Il quale a sua volta produce sulla tovaglia del guano, parimenti fumante, e si guarda bene dal vocalizzare. Orsù, partiamo, dunque – e statemi dietro.

La cosa in questione è il prodotto di tal Peter Brosens (già segnalatosi come paraculo di livello agonistico narrandoci, nei ruggenti anni '90, le ultime ore di vita o forse gli ultimi istanti di un cane, ed il suo trapasso nell'aldilà, in soggettiva – facile previsione, capite, che tuttora sia avvezzo allo spaccio di fave) e si presenta come la chiusura odierna della giornata al Lido. Il tema, pare possibile decifrare dai vaghi accenni sui pamphlet locali, è quello di una comunità nelle Fiandre (ok, ok, abbiamo capito) che si trova a testimoniare un finomino inesplicabile: il normale scorrere delle stagioni, per meglio dire il ciclo di morte e rinascita che la Natura affronta ogni anno, s'è d'improvviso interrotto un inverno, e nulla pare tornare alla normalità. Vedete già che, in calce al docu-film filippino di due ore sulla nutrice che non può avere figli, costituisce doppietta di peso specifico notevole. Nondimeno ci rechiamo in sala, forti del supporto dei lettori e di qualche birretta extra. E testimoniamo l'evento: un grosso clisterone (a base intellettualoide) come se ne son sperimentati raramente. Sintetizzerò le mie sensazioni citando (a memoria, metto le mani avanti) l'immortale Jack Nicholson di Qualcosa è cambiato “coloro che si esprimono tramite metafore debbono farmi uno sciampo allo scroto”. Ecco, qualcosa del genere ha attraversato a più riprese la mia mente, rivolta al Brosio del nord. Un'ora e mezza di film (deo gratias deve aver terminato i fondi anzitempo) non contengono altro che una gigantesca metafora, o allusione, o parafrasi – insomma non succede una mazza, a dire il vero, e soprattutto non si capisce perché si dicano, vedano, vivano certe cose. Quasi tutte le cose rappresentate, a ben vedere. L'elenco, potenzialmente, è assai lungo. Chiaramente non si possono perdonare le smisurate ambizioni mal messe in scena (se non stai allo stesso livello di Ingmar Bergman le elucubrazioni filosofiche sull'infinito le lasci anche sul diario di quando eri ragazzino, grazie), né si può convincersi che aver visto (parte de) la filmografia di Kubrick & Co. (citati a piene mani e senza ritegno) e saperne replicare un paio di inquadrature trasformi automaticamente in un regista “vero”. Tutt'altro, è ovvio. E però qui nessuno l'ha fatto presente, desumiamo, e le due tre inquadrature che varrebbe la pena tenere vengono immediatamente abusate, spogliate. Rimane la storia, poca e mal venduta: in un paesiello fiammingo ci si accinge a bruciare “la vecchia” per scacciare ritualmente l'inverno. Si affida, improvvidamente, il compito ad un neo 18enne guardacaso poco sensibile verso le sofferenze di un quasi coetaneo costretto in sedia a rotelle. Per motivi sovrannaturali non si accende la pira, non bruciano le effigi mostruose dell'inverno, non s'innesca (si è tentati di credere ad un nesso causale, noi poveri logico-pensanti spettatori che ci aspetteremmo una storia, una narrazione, perlomeno un qualche cosa da dire) il meccanismo di rinascita e rinnovamento delle stagioni. Di lì in poi è una strage, a base di api che non tornano ad impollinare, mucche che non offrono latte, terra gravida di semi che non germogliano, e via dicendo. Una stagione morta nel senso totale, eppure la vita umana prosegue – senza ben chiarire se la cosa sia localizzata o coinvolga tutto il Belgio, tutto il mondo magari (abbondano i segnali equivoci in tal senso); l'escalation è inevitabile e rapida. Secondo la scansione imposta dalle canoniche 4 stagioni (sublimate nell'innaturale quinta in cui ci si trova, nostro malgrado, intrappolati), dapprima si perdono raccolti ed allevamenti (le bestie vengono infine asportate dai militari), poi ci si impoverisce regredendo a stili di vita semiselvaggi. Infine si scende nel caos. L'amorevole padrone che, in apertura di film, incitava il gallo a tirar fuori la voce (per una specie di gara canora tra gallinacei, ci vien dato intendere nel seguito: per inciso, l'inquadratura nella quale il pollo abbassa il capo umiliato dalla propria afonia è antologica, in senso comico), finisce al termine della terza stagione per decapitare con colpo d'ascia la bestia, ed ammirarne le morte membra sul tavolo di cucina, in silenzio. Conclude mettendosi una maschera, tipo Bauta veneziana – la citazione Kubrickiana sfonda gli argini, il film finisce definitivamente rubricato come esercizio di meretricio. L'ultima stagione è di violenza inusitata in ogni senso: quello che vi deve preoccupare è l'aggressione perpetrata allo spettatore (senziente, perlomeno). Si sparano di quelle grosse, e non ci si risparmia nulla. Il fulcro sarebbero gli abitanti del villaggio che, trasformati dalla disperazione in un ku klux klan fai-da-te, indossano tutti il mascherone nasuto d'ordinanza (le han fatte, operosi nordici, per l'occasione - oppure le avevano sempre tenute in cantina che non si sa mai?) e si gettano alla ricerca del padre (filosofo sedicente, per giunta) del ragazzo invalido di cui sopra, onde metterlo letteralmente al rogo (in vece dei pupazzi raffiguranti l'inverno, chiaramente inefficaci). Fallito un primo tentativo essi persistono, salvo nulla ottenere (a parte il filosofo fatto alla brace nella propria stessa roulotte, beninteso): ma intanto la lezione di umanità è passata. In sottofondo, la ragazza canonicamente positiva ed innocente nella propria esplosiva sessualità che è tassa da pagare in ogni produzione francofona (qui con il massimo topos fenotipico transalpino: gli occhi da rana) è mutata, nell'arco di sei mesi, in una battona tisica che si vende a tutti in cambio di zucchero e shampoo di sottomarca (e meno male che il ragazzetto buono, di lei innamorato, fa di tutto per proteggerla). Gli adulti si sono rincoglioniti dalla disperazione, compiono atti insani di diversa matrice senza combinare alcunché. Il bimbo bravo non trova di meglio che accollarsi, letteramente, il paraplegico e scomparire all'orizzonte tra neve e ghiacciate imminenti. Non s'hanno segni di rinascita, la prostituta junior viene impiccata a testa in giù, solo uno (un paio, via) dei paesani è stato tanto astuto da tentare di migrare. Se non fosse abbastanza, tacerei comunque degli interminabili silenzi, delle inquadrature sbieche, del simbolismo andato a male. Giammai potrei omettere, però, il finale: dopo aver inquadrato il destino dei protagonisti, la macchina da presa si fa nera per un istante, salvo poi mostrarci un branco di struzzi che invade un giardino del paese. Profondità mica da ridere. Chissà chi pulisce il guano, però.

In conclusione: che ti succede, Pietro Bros? Non ti piace il Belgio, non ti piace vivere in Belgio, non ti piace vivere e basta? Mi dispiace, lo dico sinceramente. Però sono fattacci tuoi. Perché devi venire a sfrantoiare me? Hai fatto un film abbastanza stupido, e passi. Un film brutto, perché ti è sfuggito di mano, e si può pur dire che non sia l'unico alla mostra, anche se comunque ciò non ti assolve. Un'opera sfacciatamente, intollerabilmente ambiziosa senza averne mezzi o diritto, e già sei da condannare. Soprattutto, hai fatto un film cattivo, e non va bene per nulla.

PS: non vi preoccupate, fedeli lettori. Del film filippino vi sparlerà Egon, che in questi giorni ha taciuto e deve sfogare per bene la malvagità che cova.

giovedì 6 settembre 2012

P-REVIEW (RECENSIONE PREVENTIVA): SINAPUPUNAN – THY WOMB

(Avvertenza: non significa "il Vombato", cari lettori zoofili, bensì "il Ventre", tipo nell'Ave Maria)

Stasera, Palabiennale ore 20:00, inizia una double epocale. Si chiuderanno le fatiche con La Quinta Stagione, di un non ancora ben noto paraculo belga a nome Brosens (sinistre assonanze con altrettanto sinistri personaggi di un quasi recente passato televisivo italico), ma è l'esordio, la prima serata a promettere faville: Sinapupunan. Che? Pupunanny? No, Sinapupunan. Sì, ok, ma: che? Eh, lo so. Sinapupunan. Dice che la protagonista sia la stella del cinema filippino. Tanto dovrebbe bastare, ed infatti ci è partita la salivazione preventiva e ci siamo fiondati in biglietteria: stranamente, non v'era il tutto esaurito, e così ci siamo procurati buoni posti a sedere. Essendo dei professionisti esemplari, apriamo un file (un fascicolo, direi) a tema con 3 ore di anticipo sulla proiezione. Bella forza, direte, si scrive da sola 'sta cosa – poca voglia di lavorare avete. Vero, chiaramente. Eppure facciamo professione e sforzo d'onestà, e promettiamo di riportare sinceramente le nostre impressioni. Nel caso sia bella, la sinappuppunata, lo diremo così, chiaro e tondo in facci a tutti. Ma, in confidenza, vi aspettiamo per una nuova recensione nel nostro stile, tra qualche ora.

O GEBO E A SOMBRA – UN VECCHIO E UN'OMBRA DE VIN BON (MAGARI)

Manoel de Oliveira ha 104 anni, e notoriamente è il più antico (vecchio non rende, ne converrete) regista al mondo. Ha diretto uno sproposito di film e documentari, nelle pause ha figliato quattro volte, è stato insignito di innumerevoli onoreficenze tra cui una Palma d'Oro e due Leoni (sempre d'Oro) alla carriera – sul serio, premiato doppiamente alla carriera nello stesso festival. Le virtù di sopravvivenza vanno riconosciute, anche su questo possiamo tutti esser d'accordo. Sventuratamente non pago di tanto successo, il buon vecchio Manuelo insiste, e produce ancora cinema. Peggio di lui siamo noi, che paghiamo il biglietto (relativamente caro) e ci addentriamo in Sala Grande per vederne l'ultima produzione: O Gebo e a Sombra (per i poliglotti lettori non diamo traduzione, ci limitiamo a dire che Gebo è il nome proprio di un protagonista consunto quasi come il regista, ed interpretato con notevole mancanza di mobilità da Michael Lonsdale, al secolo – scorso – il volto dell'abate ne Il Nome della Rosa). Un'ora e mezza di pièce teatrale sbattuta su schermo senza nemmeno un abbozzo di adattamento, modifica o qualsivoglia revisione. La cinepresa non si muove, e basta (va bene la vecchiaia del Manuelo, però via un aiuto regista lo si poteva prendere allo scopo!). Ci sono tre inquadrature, forse quattro contando un paio di scene “di raccordo”, dalle quali i quattro attori principali e due o tre altri rompipalle entrano ed escono a (scarso) piacimento. Un action, insomma. Il ritmo è dettato, dunque, dai dialoghi. Eccone un campione:

Gebo (vetusto protagonista con taglio di capelli tipo Jefferson Airplane, tendenza alla gobba e culo incastrato sulla sedia): “Ah, il nostro dovere è vivere in povertà. Dobbiamo tutti fare il nostro dovere. 7 più 8 15, riporto l'1 [fa il cassiere e passa i giorni sommando introiti altrui, NdRay]”
Sofia (di lui figlia adottiva, data in sposa al delinquente figlio naturale [giuro, NdR], rimasta in casa facente funzioni di vedova) “Ma un'altra vita non è possibile, padre? Forse è nostro dovere essere infelici? E fuori piove”
Gebo “No, possiamo solo vivere la nostra vita, e non parliamo di certe cose, fa freddo ma forse farà caldo. E poi la senti? Piange. 7 più 6 15, anzi no 13 più 8 21, riporto il 2”
Sofia “Sì, lei piange sempre. [lei che piange è la Cardinale, nella parte della moglie di Gebo, arteriosclerotica terminale e parecchio spaccaballe, NdR] Ma forse dicendole la verità?”
Gebo “No, la verità non la deve sapere mai, di lui non dobbiamo parlare mai, le debbo mentire tutta la vita inventandole balle su balle pur di non darle un grande dolore, già è impazzita ma così la ucciderei. E poi io sono un uomo onesto, anzitutto. 8 più 4 fa dodici, più 10 22, ma la regola del 9 la devo usare? Forse no”

E via di divertimento. Interrompono di quando in quando un paio di vecchi inutili, una beghina che ricama per spasimanti inesistenti ed un sedicente musicista che millanta conquiste di 50 anni prima mimando, malissimo peraltro, di suonare il flauto (fine metafora? Artrite galoppante?). Unico momento concitato quello in cui il rientrante (dopo 8 anni? Dopo 0? dopo 16? è un flashback, un sogno, il futuro? È tutto inutile, a parer nostro, ma non sapremmo bene, forse abbiamo riportato male l'1) figlio naturale decide di essersi infine rotto er ca' di questo andazzo da mortuorio (come dargli torto?) e si dedica all'attività che meglio gli riesce: il furto con scasso, degno figlio di tanto padre integerrimo. Abbandona quindi la famiglia (intesa sia come i genitori sia come la semi-incestuosa partner) dopo aver messo k.o. la moglie ed essersi imbertato una cassa contenente una quantità spropositata di Reais, d'altrui appartenenza. Male ne consegue per i nostri eroi, che ligi al dovere di un'esistenza magrissima si consegnano alla pula; meglio, si consegna il vecchiardo, protagonista di un momento epico proprio nel finale: si alza dalla sedia nonostante il parere contrario della figlia, e praticamente senza aiuto. Con la stessa scioltezza ci alziamo noi, sopravvissuti a malapena alla visione. Se non proibiscono ai portoghesi di produrre altri film in futuro, qui all'età di DeOliveira non ci si arriva di certo.
Rimane l'emozione, quella sì, di esser stati vicini a Claudia Cardinale. Lonsdale, per la cronaca, è stato condotto in sala a passo lento e poi fatto sparire con la complicità delle tenebre prima della fine: non se ne hanno notizie. Mancava Manuelo: tragicamente, pare stia macchinando altri film.

mercoledì 5 settembre 2012

LE LINEE DI WELLINGTON – BEEFING JOHN MALKOVICH

Terrificante mazzata portoghese antinapoleonica, parlata in 4 o 5 lingue (ci siamo stufati di contare), innaffiata di attori più o meno famosi – su tutti il John Malkovich eponimo nella parte di uno scazzato duca di Wellington che, alla fin della fiera, porta a casa le sole glorie di aver associato il proprio nome alla ricetta di un manzo al forno e di aver schiavizzato i lusitani per costruire un muro atto a rispedire al mittente le preponderanti forze francesi – e tesa a sostenere che, beh, la guerra è male, la gente muore, le donne sono suore o puttane, gli uomini stupidi e/o assassini. Ah, e c'è un vago senso di onore, popolo, appartenenza – perlomeno dalle parti di Lisbona. I francesi sono (per la verità si dovrebbe dire che erano, al tempo dell'Imperatore primo, ma insomma fa poca differenza) stupidi gretti e destinati alla sodomia non richiesta, i portoghesi eroici ma paesanotti, gli inglesi se la tirano a vuoto. Storia corale, ma alla fine storia di nessuno. Diverse e non poche scene buffe, non sempre volute – su tutto una discreta tensione sessuale, la voglia di non combattere ed invece dedicarsi ad altro (ok, non solo scopare, magari anche semplicemente coltivare la terra). Spettacolo zero, comunque, e pure poco sangue e merda. Ripassare per le emozioni, per capirsi, e pure per le idee. L'unica linea di Wellington che si noti davvero è quella, persa, del girovita di Malkovich – il quale trova il tempo di preoccuparsi di come un pittore francese (scarso, evidentemente, altrimenti sarebbe in forza all'impeto napoleonico) gli ritragga il naso. Di ben altro dovrebbe esser conscio. Le comparsate di altre ed altri più o meno famosi chiaramente non emendano dei peccati le due ore e mezza di inutilità assortite. Piuttosto fatevi due risate sul cornutone lettore compulsivo e sull'annesso ragazzetto muto (parrebbe), stolido e pure vittima di pestilenza: egli viene dapprima preso letteralmente a pietrate da un venditore ambulante (sciacallo di guerra, ovviamente con un cuore) che poi gli regalerà (sempre tramite lancio sul corpo, beninteso) delle scarpe salvo riprendersele in ospedale – infine pare essere un miracolato sopravvissuto alla bubbonica ed ormai inossidabilmente associato all'ex signorotto, a sua volta terminato privo di moglie (passata alle attenzioni non poi tanto convinte di un soldato), beni, coltivazioni e libri. Forse per sopperire alla carenza di letture, il giovane nella scena finale si agita sullo sfondo come un novello Repetto (riverdersi i video degli anni gloriosi degli 883, per chi fosse di scarsa memoria). Ecco, il consiglio è di non vederlo: soprattutto, non a stomaco vuoto. E per stanotte è tutto, dalla mostra del cine.

PS: dimenticavo il grande interrogativo finale - chi cazzo è Zanaga? S'era intravisto nelle dubbie vesti dell'infermiere menagramo Eusebio all'inizio, s'è capito essere una spia doppiogiochista (padre portoghese madre francese, o viceversa, ma comunque uno stronzo) e come tale viene malamente fucilato sulle linee, d'accordo. Ma, sul serio, Zanaga è un nome che non si era mai sentito prima degli ultimi 5 minuti, almeno tra il pubblico. Tra i partecipanti alla tediosissima guerra, invece, scatena un putiferio. Mah.

domenica 12 agosto 2012

COSMOTOPONI - UNA LETTERA RECENSIONE (che avevo in canna da un po', ma le imprese di Josefona Idem mi distraggono sempre)

Premessa: avevo intrattenuto uno scambio e-pistolare riguardo a questo film. Ho deciso, come sempre per ragioni di (dis)servizio pubblico e di privatissimi onanismi, di farne recensione. Sfaticato come di consueto (è un credo, sia chiaro) opto per un riciclo parziale di cose già scritte. Per rispetto di punti di vista e diritti altrui non includerò l'intero carteggio: mi limiterò a dar voce alla mia insoddisfazione sotto forma di letterina a D. Cronenberg. Risentita, come si conviene.

Caro David,

posso chiamarti David, vero? Dopo tanti tuoi film visti mi sento quasi di conoscerti. Perlomeno, questo pensavo finché non ho avuto la terribile idea di recarmi con amici a vedere l'ultima tua opera. Premetto subito la sola scusante possibile: dato che vivo, disgraziatamente, in Italia, mi son visto costretto alla versione doppiata di Cosmopolis. Può darsi che, nel processo, si siano persi poesia, profondità, efficacia e senso del ridicolo presenti nell'originale. Se così fosse, mi dovrei onestamente lamentare un po' meno. Avrei comunque voglia di prenderti sotto con la macchina, ma con minor rancore; non so se mi spiego. Ciò detto, permettimi di rubarti un po' di tempo con una sincera disamina del tuo ultimo prodotto. Ho visto il tuo film, dicevo, in compagnia di due amici (uno dei quali, indovina?, è il coautore del blog: avrebbe due parole da dirti pure lui). Ho rischiato il linciaggio a metà proiezione, stante che la proposta era venuta da me. Poi le opinioni divergevano, come giusto: c'è chi pensa che si sia parzialmente riscattato nel finale, ma non abbastanza per salvarsi. Per me, invece, il finale è intollerabile. Mi risulta banale in modo agghiacciante. Rewind.

Avevo sopportato la prima metà (abbondante) nonostante un macroscopico difetto: c'è chi lo ha definito "irto di parole" ma, ammettiamolo, è verboso oltre la decenza.
Capisco bene che additare altri per questo crimine essendo io stesso uno che, non a torto peraltro, è stato accusato più volte di essere orrendamente prolisso possa suonare perlomeno ipocrita. Però io non faccio cinema. Avevo detto, prima di vedere Cosmopolis, che “di Cronenberg temo le ossessioni nei contenuti e non nella forma” (vedi? Parlo di te con rispetto e con la sensazione di conoscerti, perlomeno attraverso le tue creazioni).
Perché c'erano contenuti (almeno, a mio modo di vedere), espressi tramite una forma estremizzata. Qui francamente mi sembra che la forma sia la sola cosa, o quasi. E, laddove di solito tu metti in scena violenza, mutilazione, mostruosità, qui stai perpetrando una violenza sullo spettatore. Non gradisco così tanto, per essere sincero. Borges sosteneva che fosse ridicolo e stupido spendere 500 pagine per una storia che si poteva ben accomodare in 20 righe, e perciò non scriveva romanzi. Estremismo, chiaro, e probabilmente ce lo si può permettere solo se si è Jorge Luis Borges (io so bene di non stare a quell'altezza, credimi lo so e non è per la presunzione folle di esser migliore di te che ti dico quel che ti sto dicendo: è per vero affetto, è per la speranza che non ti capiti più di mettere il bel faccione - senza naso, ma bello, lo ammetto - di Pattinson su locandina e perennemente su schermo e pensare che tanto basti a fare un film).

Estremismi o meno, i pipponi al cine mi risultano indigeribili. Quando poi sono vomitati in modo del tutto atono e privo di passione (ancora: magari in inglese, però mah) per oltre un'ora, si raggiunge un limite pericoloso. Detto ciò, cercavo di farmi portare, di scovare angolature, di trovare una via mia a questo film, a questo libro che non ho letto ma oramai ho ascoltato per intero (domanda: ti piacciono gli audiolibri? A me: no, per niente. Ed allora perché ne ho dovuto sorbire uno al cinema?). Mi rendevo conto che, normalmente, le scelte estetico/stilistiche col marchio Cronenberg risultano fastidiose a molta utenza ed invece per me sono in primo luogo interessanti, stimolanti. Qui ero infastidito io: e passi, può far parte di un processo, di un modo di comunicare – ed anzi era una sensazione nuova e per questo in qualche modo mi intrigava. Il problema è che, stavolta, mi annoiavo abbastanza.
E non bastano due scene di sesso con non-tanto-giovani e parecchio sbaldraccanti attrici (ma la Binoche, quella che si mette a saltare sulle cosce dell'ex vampiro con finto entusiasmo e urlacchiando malamente, non era un'attrice? E poi, su, “sono una donna di 41 anni”? Davvero?) per destarmi; tantopiù che sono pura noia del protagonista (si vorrebbe fottere l'unica giovane del film, peccato che sia tinta, frigida e – soprattutto – sua moglie). Ah, già, c'è poi la scena dell'invasione anale da parte del manone guantato del dottore. Grazie, David: non ero abbastanza preoccupato all'idea di un esame della prostata. Sgradevole, la scena, ma passi. Il delitto non è nell'inquadratura sudaticcia (a proposito: tutte con telecamera fissa o quasi, queste scene di sesso: ti annoi, David? Non ti ecciti più? E se è così: perché lo vuoi far scontare ai tuoi affezionatissimi spettatori?), è nello scambio di battute. Il 28enne bello e ricco, nudo e con la mano di un estraneo su per il culo, ansima, contorce il viso, suda. A 10 centimetri 10 dalla faccia di una giovane in tuta, pre-sudata (stava facendo jogging nella sua unica giornata libera del decennio), che riprende a traspirare ed accartoccia senza pietà a più riprese la bottiglia d'acqua stretta tra le cosce possenti. Abbastanza chiaro il messaggio? Evidentemente no, dato che ci tocca sentire il Pattinson in versione delucidatore “E' tensione sessuale, stai stropicciando la bottiglia perché blablabla”. Eccheccazzo. Avrei dovuto capirlo qui, dove si andava a finire. Ed invece quasi ti credevo, ero propenso a darti altre chance: la prima parte mi aveva, tutto sommato, fatto sorridere con almeno un paio di boutade talmente risibili da non poter essere prese sul serio (almeno per me, altri dissentivano in modo anche marcato, ed assai incazzato: non voglio fare la spia, David, ma c'è chi proprio ti ha insultato ed accusato di prenderti orrendamente sul serio, anche di fronte ai totem di rattoni agitati dalla folla che assalta limousine, ai giovani miliardari che videogiocano tutto il tempo, a quelli che vogliono attraversare New York – lo sappiamo tutti che è NY, si può dire, vero? - intasata dalla visita del Presidente e sotto assedio rivoluzionario per farsi rifare i capelli). Il mostro del mondo moderno, tutto sommato, si può ben rappresentare così (rimango del parere che si dovrebbe usare circa un decimo delle parole, ma sorvoliamo). Però il finale, il finale con l'alternanza tra la (finta, stupida e non credibile) mattana di Suor Giamatti ("se anche ci fosse solo un fungo tra le mie dita dei piedi che mi dice di ucciderti io lo dovrei fare" - ma scherziamo?) e le rivelazioni; l'apologo del cazzo col poveraccio, il proletario che vuole vendetta contro l'onnipotente che ha distrutto il mondo e però si sente rispondere (legittimamente) "ma se fino a ieri non ti interessava niente dei tuoi simili?" - e poi ancora lo spiegone della prostata asimmetrica come metafora del mondo asimmetrico, dell'imprevedibilità come parte del sistema, ecco tutto questo ho trovato pedante ed insopportabile. Perché è banale, scontato, non interessante. La prima metà mi può aver dato fastidio, ma almeno non mi ha trattato come un infante ("patronize", vorrei usare il verbo inglese). Il finale l'ho, semplicemente, odiato. Se devi fare 1h40m di parole parole parole per smembrare il mostro della modernità non puoi, semplicemente non puoi in chiusura venirmi a fare il riassuntino, la spiegazione, il consolante finale. Packer, alla fine, si sarebbe dovuto sparare in bocca, altro che in mano. Avrebbe risparmiato al tuo affezionatissimo (ed a se stesso, "quanto odio dover ragionare") dieci minuti conclusivi di incazzatura, e magari sarei tornato a casa col dubbio che lo sfacelo della prima metà, il disfacimento del mondo dei ricchi, i toponi giganti, le prostate invase e le mogli frigide rimpiazzate per una sveltina avessero un senso. Come provocazione, come descrizione (inevitabilmente) malata di una malattia, come ossessione e come resa al fatto che, secondo categorie classiche ed inadeguate al tempo che viviamo, nulla ha più coesione o struttura.
Dopo lo spiegone, mi sento francamente insultato.

Ah, quasi dimenticavo, ho un'ultima perplessità: ma il fatidico barbiere (infine raggiunto, oh gioia!) è cecato o solo rincoglionito? No, perché, a parte il fatto che non s'accorge di nulla, totalmente impermeabile al mondo esterno, al disgraziato riccone dal muso piatto (dopo averlo anestetizzato con bordata di melanzane ripiene dirette dal frigo) infligge un taglio di capelli luttuoso. Va bene che il cliente se ne va a metà dell'opera, ma quella metà (aridaje coll'asimmetria) è giusto un filo meno orrenda di quello che si otterrebbe con una sana spruzzata di napalm. Va di moda nel Bronx, dice.

Scusa la prolissità mia, mi son sfogato.

Tuo,

Ray

ps: forse il fatto che diversi spettatori dissentano (anche profondamente) su dove stia il problema è segnale che, comunque, questo film in qualche modo riesce a smuovere, a scomodare. Non so, forse ci ripenserò. Ma dubito che cambierò idea. Nel dubbio: vaffanculo, David, non mi chiamare più.

LA FRASE: quella del fungo tra le dita dei piedi che dice alla suora barbuda di sparare al ricco, dai, è ovvio, staremo mica a discutere?
SCONSIGLIATISSIMO: a chiunque non soffra di insonnia terminale, e non abbia un feticcio per le invasioni anali.
 GIUDIZIO: KKKK

domenica 10 giugno 2012

Cosmopolis - Viaggio al termine della noia

“L'importante è che ci sia lui”
“Il sughero?”
“Il sughero”

È incredibile pensare che David Cronenberg, il regista delle teste che esplodono ("Scanners"), dei joypad organici ("eXistenZ"), dei bisturi arcuati ("Inseparabili") abbia scritto dei dialoghi simili, e ci abbia imbastito sopra un film. Incredibile constatare che chi ha fatto delle mutazioni corporee il proprio veicolo comunicativo ed estetico, lasciando alla psiche la primogenitura del disturbo, forse l'unica risposta cinematografica possibile a Francis Bacon, sia naufragato in un orrendo polpettone di fumisterie pseudo-filosofiche, vacuo e inconcludente come il peggior Wenders, insensato come un cattivo Antonioni, perfino vagamente necrofilo.

"Cosmopolis", tratto da un romanzo di Don De Lillo (che non leggeremo almeno per le prossime due decadi), altro non è che un tetro viaggio nella noia, nell'incapacità di emozionarsi, nella morte cerebrale. Interpretato dal diafano Robert Pattinson (inspiegabilmente perfetto nella parte), è la controstoria di un tycoon finanziario ventottenne, che passa le sue giornate a bordo di una lunghissima, interminabile limousine, contemplando distrattamente il magmatico traffico metropolitano e intrattenendosi, in chiave semiseria, con un tristo carosello di dipendenti/discepoli.

Salgono e scendono, con la stessa intelaiatura di un'opera a episodi (ai sedili, e al frontal di Pattinson, bisogna purtroppo abituarsi subito) varie figure dimenticabili, spesso involontariamente caricaturali: il genio dagli occhi a mandorla che gioca le fortune del principale sulle oscillazioni dello yuan, le concubine che se lo scopano (compresa una grottesca Juliette Binoche), gli insopportabili esemplari di amiche/confidenti/collaboratrici, che pur di strappare un'opinione (?) al semidio deragliano in un pretenzioso profluvio di pensieri sconnessi. C'è anche un gigantesco rapper, col consueto corredo gestuale, che consola il commosso milionario quando tra i finestrini scorre il funerale del Tupac di turno, suo muzak personale in uno degli ascensori di palazzo.

L'eroe, a propria volta, dà ampio sfoggio di sé, trastullandosi con ogni sorta di agi portatili (computer ultimo grido, cesso estraibile, pareti insonorizzate – il sughero di cui sopra) e ammorbando gli interlocutori con richieste terminali, tipo dove vengono parcheggiate le sue limousine di notte o come attraversare l'ingorgo per farsi regolare i capelli dal barbiere di fiducia.

Tutto ciò, se mai non si fosse intuito, già basterebbe a farci odiare Cronenberg e la senilità, ma purtroppo lo sfondo è, se possibile, ancora peggiore: tra un delirio e l'altro, viene a più riprese rilanciata la bizzarra idea (mutuata dal libro, supponiamo) di un mondo dominato, anziché dal denaro, dai topi. E, per rendere più chiara l'antifona, il regista ci ammannisce perfino l'imbarazzante pagliacciata di uomini in costume da ratto che precipitano, nel corso di un tumulto urbano, sui tetti delle auto in coda. Altri topi - veri, stavolta - vengono lanciati, sempre a scopo di protesta (forse nei confronti del copione), tra i tavolini di un bar, nel corso di una delle scene che rompono l'unità di luogo (e non solo) per consentire a Pattinson di muovere il culo, ed elargire le sue pillole astruse anche fuori dal lussuoso abitacolo.

Sua vittima preferita, in queste sortite periferiche, è una bionda imbambolata, anch'ella devota all'eloquio decerebrato, che oltre ad essere ricca sfondata è altresì promessa sposa dell'intellettuale, e dichiara ripetutamente di voler fare sesso con lui, senza tuttavia dar mai corso al proposito. Staziona invece ovunque la stolida guardia del corpo del giovane prodigio, mai doma nel segnalare, a intervalli regolari, un pericolo incombente per la sua incolumità.

Dopo un primo tempo di questa risma, Cronenberg, ormai sul cornicione del cupio dissolvi, decide all'improvviso di andare per le spicce, e scioglie i pochi interrogativi lasciati a mezz'aria facendo finalmente abbandonare a Pattinson l'utero veicolare. Lo vediamo dunque scendere, liberarsi in modo risibile del bodyguard (“mi dici come funziona la tua pistola?”) ed entrare nella bottega del tonsore d'infanzia, che riesce tuttavia a completare solo metà del lavoro, prima che l'irrequieto si risolva ad uscire, per scoprire chi vorrebbe ucciderlo. Due passi nella suburbia e s'imbatte, previo barbone sulle scale, nel suo aspirante killer: un disastroso Paul Giamatti, con asciugamano in testa stile suffumigi e arma da forze speciali in pugno, sommerso dalla sozzura e pronto a rifargli i connotati.

Ne segue indecisa sparatoria e, a bocce ferme, banalissimo pistolotto (in quanto tale, la cosa più vera del film) del tipico ex dipendente licenziato per scarsa produttività, ora nella merda, che se l'è legata al dito – anzi all'asciugamano – e vorrebbe vendicarsi, radendo al suolo tutto il capitalismo e i suoi più fulgidi interpreti. Pattinson, che è in rottura prolungata da un tempo e mezzo, ha esaurito le strade per provare qualsiasi forma di piacere e non vede l'ora che qualcuno gli faccia saltare una volta per tutte il cranio, riesce soltanto a creare un pre-finale sparandosi volontariamente alla mano, per poi attendere, con vena pulsante sulla fronte, che il suo giustiziere chiuda la scena. E noi con lui. Ma lì, a tradimento, ecco lo stacco sul nero. Povero Cronenberg.

Note a margine:

  • Decisiva (soprattutto per i nervi) la sequenza dell'indagine prostatica a bordo della limousine. Per alcuni (troppi) minuti, assistiamo nostro malgrado all'ennesimo monologo di Pattinson, reso via via sempre più faticoso dall'avanzare della mano del medico personale all'interno dei suoi visceri, fino ad appunto raggiungere la prostata. “Asimmetrica”, decreterà il luminare. Donde metafora sulla disarmonia all'origine del progressivo declino del protagonista. Vi accennerà anche Giamatti, ma con maggiore trasporto. Non viene voglia di fare verifiche sulla propria;
  • Di pura tappezzeria l'atmosfera da attentato politico che aleggia nella prima parte del film: il traffico, già malmostoso, è reso impenetrabile dalla “visita del Presidente” in città. Il consequenziale caos fa da volano ai timori per la vita del magnate, esposto a una non chiara minaccia: per rendere il tutto più semplice, Cronenberg, via guardia del corpo, ci propina un video di repertorio di un agguato a un politico coreano nel corso di un talk show. La scena è tanto brutale (varie coltellate al volto) quanto ridicola, soprattutto per le leggerissime falle nel sistema di sicurezza della vittima;
  • Lunghissima, e noiosissima, la sequenza della torta in faccia a Pattinson al momento di uscire definitivamente dalla vettura. Il relativo disobbediente è impersonato, purtroppo, da Mathieu Amalric, che pure indulge nell'intemerata prima di essere allontanato dalla storia e, si confida, dal set;
  • Incredibile la disinvoltura con la quale il vecchio barbiere del protagonista inizia a tagliargli i capelli, senza accorgersi che il suo cliente ha mezza parte del viso incrostata di torta di panna.

Margine alle note:

Di questo film non abbiamo capito nulla. Era una storia sul crollo del sistema capitalistico? Sul tramonto dell'occidente? Sulla perdita di valori? Sul sesso in limousine? Sui topi? Non sapremmo dire, ma conserviamo una certezza: l'importante è che ci sia il sughero.

Giudizio: KKKKk

lunedì 30 aprile 2012

Knockout - Guarda, senza mani!

L'ha fatto anche Gualtiero Marchesi. L'altr'anno, in un patto faustiano con McDonald's, ha proposto per alcuni mesi due panini e un dolcetto di sua creazione, in foggia di fast food. Come a dire: il commercio può essere autoriale, basta volerlo. Beh, no: il commercio se ne sbatte degli autori, cerca solo il profitto, e se azzecca la combinazione di originalità e successo è solo un caso. Questo lo sa benissimo, versante cinema, anche Steven Soderbergh, che pur avendo nel curriculum vari titoli off (sin dai tempi di "Schizopolis") col business ci si è sempre trovato bene, basti pensare alla serie degli Ocean o, da ultimo, al pandemico "Contagion". Per questo, da parte sua, ci si aspetterebbe un minimo di onestà intellettuale: non c'è nulla di male nel passare dall'esperimento estremo al mainstream alimentare, basta non vergognarsene. Ma ecco, con l'ultima impresa, "Knockout" – titolo assurdo affibbiato dalla distribuzione italiana, evidentemente stanca di maltradurre l'originale (qui, "Haywire") – succede proprio l'opposto. Forse perché ispirato dal recente maledettismo chic, che l'ha indotto a intonarsi il de profundis registico per il prossimo anno, Soderbergh mette insieme un'opera trita e ritrita, nella quale tuttavia infila pretenziosi giochi di macchina al solo, cafonissimo, scopo di esibire i muscoli intellettuali. 

In realtà, ci si sarebbe accontentati del plafond: un banale action spionistico infarcito di sganassoni, inseguimenti e doppiezze, funzionale ai popcorn. Poiché però l'autore (?) non resiste alla tentazione di risultare eclatante (!), decide inopinatamente di affidare la parte di protagonista alla fighter di professione Gina Carano, una sorta di incrocio popputo tra Steven Seagal e Britney Spears. Mal, ovviamente, gliene incoglie, perché con qual certo sadismo le rovescia addosso insistiti primissimi piani, durante i quali l'esordiente, che pensava bastasse il repertorio marziale, si passa nervosa la lingua sulle labbra in attesa della fine della tortura. Idem, com'è intuibile, nelle scene di raccordo. Eterni campi lunghi di passeggiate che dovrebbero costituire parentesi meditative nel plot adrenalinico: in realtà l'ennesimo, snobistico, sfoggio di “guarda, senza mani!”.

La trama, se non altro, è davvero intricata: quasi tutte le presenze maschili del cast non hanno di meglio da fare che tentare di uccidere la forzuta, agente di una compagnia di mercenari al soldo del governo USA, di cui il relativo capoccia (nonché ex) vuole sbarazzarsi. Segue ogni genere di vani trappoloni, ivi compreso un giro per l'Europa (altro esotismo non richiesto dell'americanissimo regista) con canonico balletto di finti incarichi e connivenze. Non siamo, sia chiaro, nemmeno lontanamente dalle parti di Jason Bourne, anche perché Soderbergh, più che alla cura dei personaggi, è interessato a dare spazio al consueto attorume di fama, reclutato per l'occasione.

Nella ridda di evitabili comparsate, menzione d'onore per Michael Fassbender, che privo del mentore Steve Mcqueen limita l'esposizione delle nudità al torso muscolare, venendo per tutta risposta gonfiato di calci e pugni dall'eroina ed essendone infine - e sacrosantamente - eliminato. Non va meglio, peraltro, ad Antonio Banderas, avvilito da barbaccia incolta e abbigliamento hobo, oltre che spesso ripreso dal basso, con effetto-pigmeo: pur fuoricampo, nell'unica scena in cui è riuscito a radersi, sta per essere a propria volta malmenato. Quanto a Ewan McGregor, mastermind del complotto, gli viene riservata una rissa in riva al mare, naturalmente senza sottofondo musicale, per rendere l'ovvietà maggiormente metafisica.

Sul fronte collaborazionista, troneggiano invece Michael Douglas versione funzionario navigato, buono al più come silhouette aeroportuale negli assolati meeting tipici del genere, e il redimorto Bill Paxton, nel ruolo di padre della forzuta, che regge un'intera sequenza da autistico, al solo scopo di non far sapere ai nemici che la figlia si è rintanata in casa sua. Il culmine dell'imbarazzo lo si raggiunge però con Channing Tatum, prima potenziale giustiziere, poi partner sentimentale della nostra, che recita in uno stato di catatonia permanente, e regala all'attonito spettatore l'indimenticabile scena d'apertura: interno giorno, tavolino di un bar a NY, Tatum che guarda Carano fissamente, Carano che guarda Tatum fissamente, entrambi fissamente a disagio fino a quando, per fortuna, qualcuno dal set impartisce l'istruzione salvifica: ok, picchiatevi. Spiace pure che lo ammazzino, alla fine. In tutto questo, una nota: o a Dublino hanno i corpi speciali più imbranati del mondo, o Soderbergh, nel farli disastrosamente colluttare con la protagonista, ha perso di vista la credibilità. Urge piano sequenza di almeno un quarto d'ora, per redimersi.

LA SCHEDA
Knockout - Resa dei conti
La frase: "Ma quanto dura 'sta scena?"
Sconsigliatissimo: a chi, pur conoscendo Soderbergh, pensa ci sia un limite alla sua vanità registica.
Giudizio: KKKk

giovedì 22 marzo 2012

SOTTO L'ABITO TALARE NIENTE (L'ALTRA FACCIA DEL DIAVOLO)

Facciamo in fretta, una recensio brevis (nuova categoria?), ché avrei daffare – e poi il film in questione non è così tanto brutto. O forse lo è, però non riesce a farsi odiare, ad indignarmi a dovere: perché si tratta di una cosa a basso budget, raffazzonata il giusto, finto documentaristica non perché si credano fighi ma perché proprio i soldi per un dolly non ce li avevano, chiaramente.

Eppoi diciamocelo: quando nella locandina infilano le suore con occhi indiavolati che poi nel film non ci sono (trattasi di una Sorella vecchiarda cieca che compare sì e no un secondo), i titoli di coda sono infarciti di manovalanza est-europea (che a Hollywood non li toccherebbero nemmeno coi guanti da giardinaggio) e nel film si presentano multiple inquadrature di carabinieri in servizio (sì, vabé) avete già capito tutto: siamo poco oltre un cazzo di reality nostrano, per qualità realizzativa.

Il tutto è, fortunatamente, a supporto di una sceneggiatura tipo ore 10 calma piattissima: non c'è una sorpresa che sia una, si segue un canovaccio très canonico, alla fine muoiono tutti ripresi da telecamera fissa con immagine che va e viene. Tipo Blair Witch sulla Tiburtina, insomma; già, perché si sta a Roma, per la maggior parte della cosa. Che, in sintesi, va come segue: una bella poco più che sbarbi (dichiara 29 anni ma ne ha di meno, o ne dimostra di meno: sì insomma è abbastanza gnocca con tendenza latina nei lineamenti, come si conviene) americana a nome Isabella Rossi (molto yankee) decide di girare un documentario “per la sua mamma”. La quale mamma (Maria Rossi, la fantasia al potere) ha, in una tranquilla (pallosissima) cittadina americana massacrato tre persone che cercavano di esorcizzarla, venti anni or sono, ed è stata in seguito rinchiusa in un ospedale psichiatrico in quel di Roma. Mah. La semisbarbi apprende del fatto dal padre, che le rivela il tutto quando compie 25 anni, salvo morire (lui) tre giorni dopo: ella non coglie il lievissimo presagio di sventura e si reca quindi, con al seguito un operatore (Michael, un rompicoglioni di raro talento – non cinematografico), nel Belpaese. Ivi si intrufola a lezioni di esorcismo, seduce con la propria determinazione un paio de preti poco propensi a rispettare le regole (e che vivono in un ménage di quelli che poco piacciono a Papa Ratzy, solo che non si può dire apertamente) e con essi si imbarca nell'impresa di determinare se mammeta sia realmente posseduta dal diavolo oppure sia solo per niente sana di mente. Indovinate come va a finire? Bravi.

La cosa bella è che, nel tutto, si vedono (o si intuisce come vanno a finire) tre esorcismi: in due dei quali schiantano tutti. Nel terzo una innocente ragazzetta assai invasata fornisce le uniche mosse spettacolari in senso classico del termine (camminata sui muri tipo ragno, fontana di sangue dai genitali, arti slogati in svariate direzioni etc, come insegna l'Esorcista – quello vero, ostia!) eppure viene, pare, liberata. In 7 minuti netti. Roba che pareva che i due pretini sapessero il mestiere loro. Invece. Non è stato poi così breve. Il film, per fortuna, un'ora e un quarto più dei lentissimi titoli di coda.

Ps: ah, sì, dimenticavo: strepitoso il momento in cui il prete cicciozzo, dopo aver tentato di liberare Mariarossi-non-pregare-per-noi da una pletora di demonii, si reca ligio ad officiare un battesimo. Paciosissimo, si mette ad annegare l'infante. La famiglia, pare, non lo richiamerà per la comunione.

martedì 21 febbraio 2012

Un été brulant - Recensione piena d'entusiasmo

Avvertenza preliminare: questo è un film mancato. Mancato, s’intende, dal suo recensore, che è arrivato in ritardo alla proiezione, ne conserva ricordi vaghissimi (e non proprio entusiasmanti) e non ha nessuna voglia di tappare le falle filologiche con fonti d’accatto.
Perché scriverne, allora? Perché si tratta pur sempre di una rubrica di servizio, dunque non si tace nulla, nemmeno quel poco che resta di un’esperienza trascurabile.

"Un été brulant", opera di uno degli epigoni (?) della Nouvelle vague, Philippe Garrel, è stato presentato in anteprima a critica e pubblico all’ultima Mostra del cinema di Venezia. Non disponendo del fatidico accredito per godercelo in Sala Grande (l’accredito essendo un tesserino magico che consente l’accesso ai palchi più ambiti della kermesse, elargito a chiunque lavori/sia implicato/stringa mani nel mondo del cinema, purché in via ufficiale), ci siamo accontentati della contemporanea visione al Palabiennale, variante popolare che permette di fruire, con unico biglietto, delle due prime della serata. Per capirci, un po’ come assistere al torneo di Wimbledon dalla collinetta dei backpackers, col megaschermo installato fuori dallo stadio.

Nell’occasione, l’impresa in questione ne seguiva un’altra, decisamente più invitante (forse quella di Cronenberg, ma non ci giureremmo), che ci aveva alfine indotto ad accettare il rischio del grindhouse – perché, siamo onesti, chi firmerebbe in bianco per una storia che ha come interprete principale Monica Bellucci? Appunto, nemmeno noi.
Mal, tuttavia, ce n’è incolto. Perché, forse a causa della prolungata transumanza al bar nell’intermezzo degli spettacoli, forse per via di un increscioso errore di valutazione sui tempi tecnici di consumazione decorosa di un panino, la cinematografia intellettuale di Garrel è iniziata in nostra assenza.

Per carità, si può sopravvivere. Ma ci si gioca subito l’unico motivo d’interesse del tutto – il nudo della suddetta Bellucci nelle sequenze iniziali, tanto decantato dalla stampa quanto non esattamente inedito – e lo svelamento del finale – la morte del protagonista, schiantatosi in macchina contro un albero, da cui si dipana l’integrale flashback successivo.
Quel che resta è un film francese su un doppio legame amoroso. È quindi garantito che si apprezzeranno, in serie, atmosfere languide, sguardi d’abbandono, discorsi poco convinti, altrettanto poco convinte reazioni, urla estemporanee, pianti, sceneggiatura dilavata, ovatta, silenzio. Ed eterni pomeriggi, preferibilmente in terrazza.

Tra l’altro non siamo nemmeno a Parigi, ma a Roma, in un quartiere residenziale di lusso, alle prese con un menage formato da un giovane pittore francese (Louis Garrel, figlio del regista) e una matura attrice italiana (la succitata signora Cassell). Essi si cornificano vicendevoli – vuoi con sconosciuti, vuoi con puttane – rinfacciandoselo. Ma si amano, o almeno così dicono. Benché poco convinti.
Ad un certo punto ospitano nella loro casa, spaziosa, terrazzata e costosissima, uno spiantato amico di lui con annessa fidanzata (altra attrice, ma meno matura, famosa e nuda della prima). Ne seguono nuovi sguardi d’abbandono, nuove atmosfere languide, ma nessuna cornificazione vicendevole (per dare maggiore verve al racconto, la seconda coppia ha dei gusti diversi dalla prima in fatto di divertissement). E non c’è nemmeno, come avremmo auspicato, alcuno scambio dei rispettivi partner – al massimo si mangiano due spaghi insieme.

In tutto questo aleggiano, non richieste, fastidiose velleità ideologiche: perché, ahinoi, il pittore ricco sfondato (che ha l’aria del classico figlio d’arte senza il talento del genitore ma con le relative entrature) favoleggia dai suoi ozi l’importanza di non cedere al conformismo borghese, di essere sempre e sufficientemente progressista, purché non tocchi a lui fare la rivoluzione. L’ospite, invece, che strillona tra le strade di Francia le ultime edizioni di una specie di “Lotta comunista” locale, sembra ancora duro e puro (per non cedere al didascalismo, l’autore ci mostra una scena a caso di immigrati malmenati con successivo insulto a Sarkozy) e coltiva a più riprese l’incomprensibile ambizione di tessere un dialogo sul tema con lo scazzatissimo amico.

Per fortuna, Monica Bellucci riempie la scena. Una volta urla estemporanea perché ha visto un topo, un'altra balla con uno sconosciuto per circa mezz’ora al solo scopo di ingelosire il pariolino, un’altra ancora, al termine di una poco convinta discussione in francese, esala spossata un italianissimo “basta”. E noi con lei.
Alla fine, se non altro, molla l’intollerabile individuo, ne viene seguita sul set di un film in cui sta recitando (vabè, si fa per dire), fugge con altro urlo estemporaneo, sparisce definitivamente.
Egli, per disperazione, si schianta appunto in auto. E, in quello che ci era sembrato il finale, deve pure sorbirsi nel letto d’ospedale il monologo punitivo, senza capo né coda, di un vecchio rintronato (interpretato, suo malgrado, da Maurice Garrel, nonno dell’attore e padre del regista).

A questo punto, i pochi spettatori rimasti tra le file del Palabiennale – alcuni si erano eclissati già dopo i primi venti minuti, altri erano caduti per la noia, altri ancora, con ogni probabilità, si erano trattenuti al bar – hanno iniziato un lamentoso mugugno, ottimo per svegliarsi e scoprire (essendo entrati in ritardo) che il protagonista muore, chiudendo così la tragica operazione.
In conclusione: quale sia lo scopo del film non è dato sapere. Quali i criteri che l’hanno ammesso a concorrere per il Leone, idem. Sulle ragioni per cui non ha vinto invece, beh, forse avremmo un paio di idee.

LA SCHEDA
Un été brulant
La frase: "Ma questo è in concorso?"
Sconsigliatissimo: a chi, sentendo parlare di Nouvelle vague, pensa all'implacabile Rohmer o al monello Truffaut. Scordateveli.
Giudizio: KKK (ne merita di più, ma è troppo noioso)

domenica 19 febbraio 2012

Il bello del 2011 - Drive, e chi sennò?

Ne hanno parlato in tanti, forse tutti.

Ne hanno parlato molto, diffusamente.

Non ne hanno parlato abbastanza, per me.

Una porta di ascensore si apre tra i due protagonisti, un uomo ed una donna. E' un momento di grande tensione emotiva, di impossibilità comunicativa tra loro, e l'impasse viene spezzata dall'arrivo di un ascensore, il ding! che accompagna l'apertura delle porte crea un nuovo ritmo narrativo, la luce vagamente attenuata all'interno e la presenza di un altro uomo ci portano in un altro ambiente. Il protagonista si rende immediatamente conto di dover proteggere la donna, di cui è innamorato, da un pericolo immediato ed enorme. Ma deve anche comunicare con lei, prima (assolutamente prima) di precipitarla in una realtà violenta che finora, benché le abbia segnato e sconvolto la vita, ella non ha mai dovuto guardare in faccia direttamente. Dunque, la scosta con un braccio, allontanandola dall'altro individuo, gira su se stesso e la bacia con decisione e tenerezza al contempo. Quando ciò accade, si innesca un ralenti (ma lieve, a non spezzare il ritmo bensì ad adeguarlo) e cambiano totalmente le luci del piccolo ambiente in cui la scena si svolge. Ed è sinestesia. Un film può solo parlare a due dei nostri sensi ma, e qui è dimostrato ai massimi livelli, può innescare in noi ogni tipo di sensazione. Se avete conosciuto lo sconfinato impatto psicofisico che su ciascuno di noi ha la vicinanza della persona amata e l'intensità di determinati momenti – se, insomma, siete mai stati innamorati – allora risulta impossibile non sentire caldo vedendo questa scena; meglio, vivendola. Vi sono momenti in cui, nella vita reale, le luci non si abbassano, l'inquadratura non si stringe su di noi, la musica non diventa essenziale e memorabile al contempo e lo scorrere del tempo non viene alterato – eppure sentiamo tutto ciò e molto altro. Le nostre percezioni della realtà divengono alterate, la nostra vita si fa finzione per meglio servire le emozioni. Qui, in questo bacio in un ascensore in Drive, è dimostrato (con uno stile degno dei classici) come il cinema sia capace di innescare lo stesso meccanismo, mettendo in scena la finzione che i nostri sentimenti producono: in sostanza si bypassa la vita per farsi vita. Per regalarci quella finzione che parla il linguaggio delle emozioni meglio del realismo.

Immediatamente dopo veniamo catapultati in un altro mondo: il tempo torna a scorrere, le luci vengono ripristinate e la scena prosegue in modo atroce, inondata di grande violenza fisica, di rabbia terribile. E poi si conclude con lo sguardo spaventato della protagonista, con il suo allontanarsi, quando si riaprono le porte, da chi l'ha amata e difesa e persa in quel breve tragitto.

Non ci sono parole, nel mentre, e poca musica. Da che si entra nell'ascensore al momento in cui la scena cambia di nuovo son passati poco più di 3 minuti. Stupefacenti.


In mille hanno parlato di Drive e della scena di cui sopra. Non sarà mai troppo, e forse davvero nemmeno abbastanza. E' l'apice di uno splendido film, e un grande momento di cinema – un manifesto di Cinema nel senso più vero e profondo, nel senso che definisce quest'arte rispetto a tutte le altre praticate dall'uomo, e ne esplicita il rapporto con l'uomo stesso, con la nostra logica ed i nostri sentimenti.

Il film, nella totalità, è assai riuscito. La sceneggiatura è capace di spiazzare e conquistare (memento: a volte bastano pochi tratti a scolpire indelebilmente i personaggi), la regia è eccellente, essenziale eppur mai banale, a volte sorprendente ma mai fuori posto. La scelta della colona sonora è sublime, a tratti, per la capacità di integrarla con la narrazione, con lo sviluppo delle personalità, con il processo di identificazione dello spettatore. Il cast è di grande livello, a partire dai ruoli di contorno (volti noti ed affidabilissimi come Perlman e Cranston accanto agli emergenti/neofamosi come Oscar Isaac e Christina Hendricks – su tutti bravissimo Albert Brooks nel non facile ruolo di un riluttante “cattivo”); i protagonisti sono perfetti, Gosling dotato di un magnetismo che gli permette di scolpire la propria figura per silenzi (uno dei temi dominanti di questa narrazione) e la Mulligan bellissima nelle mille fragilità che sa incarnare con credibilità totale.

I dettagli, infine, sono curatissimi. Si parte coi titoli di testa anni '80 e si continua con innumerevoli chicche, dagli abiti alle auto passando per degli stuzzicadenti destinati a rimanere nella memoria.

E' un film che va necessariamente visto, e che verosimilmente non ci stancheremo di tornare più volte a visitare. Peccato che, è probabile, non sempre accadrà in un cinema: certe emozioni sono troppo grandi per lo schermo di una televisione.

Al plurale (per farci perdonare il ritardo): film belli degli anni 2010 e (quasi) 2009

Rapida e ovvia spiegazione del titolo: vi dobbiamo dei suggerimenti per dei bei film, qualcosa che abbiamo amato al cinema negli anni passati. Per il 2010 il ritardo è già abissale, e cerchiamo di emendare in parte le nostre colpe proponendovi non uno, non due ma 3 diconsi 3 film. Alé! Il terzo, che forse non tutti conoscono, fu presentato ad innumerevoli festival a partire dai primi mesi del 2009 salvo poi trovare distribuzione americana nel novembre dello stesso anno, ed internazionale nel 2010. Ergo, entra in gioco – e al contempo ci regala un plurale anche per le date. Tre film non perfetti, sia chiaro. Ma se ne avete perso qualcuno, siamo qui per provocarvi alla visione.


  1. INCEPTION

Ovvero come essere scontati. Noi, nella scelta. Un film di enorme successo, ed era prevedibile visto il cast (a partire dalle star americane - Di Caprio – o europee – Cotillard -, proseguendo coi grandi vecchi Caine, Postlethwaite e Berenger e condendo il tutto con gli emergenti Gordon-Levitt, Hardy, Page e Murphy) e soprattutto visto il moviemaker dietro l'operazione: Nolan sa fare cinema a tutto tondo, dirige e scrive, sceneggiatura e regia vengono dalla stessa mente e si vede eccome. Nello specifico, pare, ha passato anni a creare e limare un meccanismo di mirabile precisione e discreta complessità – salvo poi, forse il punto debole del tutto, eccedere nello spiegare la struttura dei suoi sogni dentro ai sogni, fornendo ogni dettaglio minuziosamente, avendo cura di non lasciare nulla di oscuro. Lo spettacolo visivo è impressionante (e non solo per l'abbondanza di effetti speciali, l'immaginazione qui la fa davvero da padrona, soprattutto nelle fasi preliminari), l'ammirazione che una tale struttura narrativa desta è sincera ma si perde un po' del mistero, dell'esercizio di deduzione, della sorpresa. Ed il senso di vertigine di una trottola che non vuole saperne di cadere prima della dissolvenza in nero è un po' poco per restituirci tutto. E', insomma, un esercizio di stile di alto livello e sicuramente fa venir voglia di cinema. Per essere un capolavoro, forse, mancano un po' di emozioni realmente viscerali (ci prova, ma si sente l'artifizio).

  1. HOW TO TRAIN YOUR DRAGON (DRAGON TRAINER, IN ITALIANO...)

Ovvero come fare un cartoon digitale che è anche un gran film tout court. Perché, sì, è un cartone animato. E, per gli affezionati di Biancaneve ed i suoi nani animati a mano, ha la colpa imperdonabile di essere generato dal computer. Ma è un gran bel pezzo di cinema. La sceneggiatura è solida e la regia (rassegnarsi, tale è pure in questi casi) di prim'ordine – se lo stesso identico racconto fosse stato girato con attori e, per dire, cani invece che con bimbi e draghi in CGI sarebbero in molti di più a dire di un grande film, con echi di Jack London e chi più ne ha.

Anni fa, ricordo, lessi su uno dei maggiori quotidiani nazionali una recensione di Monsters, INC. (Monsters & Co in italiano, mah...) nella quale si sottolineava come la storia del legame, dell'affetto profondo che veniva a crearsi tra la bimba ed il mostro (d'aspetto, ma di cuore assai tenero e generoso) protagonisti del tutto fosse assai più profonda, intensa e reale di tanti cartoni giapponesi “con metafisica annessa” (Evangelion, anyone?). Basta poco, per avere il coraggio di dire che un cartoon, anche se non avete sette anni, può essere un gran bel film. Questo ha una trama semplice, e non poi tanto innovativa. Ma è molto ben fatto, un sacco divertente, e soprattutto vero. E se lo vedete, magari scoprite che in questi decenni siamo andati pure un po' oltre Bambi.

  1. PRECIOUS

Ovvero agli antipodi di Inception. Qui non c'è magniloquenza, nemmeno l'ombra: cast di stelle e sceneggiatura complessa e ricca di colpi di scena, effetti visivi poderosi e lancio in pompa magna, tutto questo ed altro potete scordarvelo. La storia è semplice, è il pezzo di una vita purtroppo comune. Gli attori principali sono per noi sconosciuti (su tutti si stagliano la protagonista Gabourey Sidibe e Mo'Nique), con poche celebrità rinchiuse in parti secondarie o camei (Mariah Carey e Lenny Kravitz, per gradire). La regia tende quasi al documentaristico (ed è tremendamente efficace), il parlato è quello di strada (e a momenti si fatica a seguire). Però non si potrebbero chiedere più emozioni reali e scuotimento di coscienze e di viscere. Il ritratto abbozzato (ma, ribadiamo, incisivo) di un'esistenza tra le molte che, tipicamente, scegliamo di ignorare – questo sguardo sulla vita cattiva, sui dolori (fisici e psicologici, in abbondanza) di una delle figlie abbandonate degli opulenti Stati Uniti (abbandonate a famiglia e quartiere, agli estranei come a se stesse, alle violenze sessuali con istigazione all'aborto come all'allontanamento dagli studi e del sogno di una vita migliore), e contestualmente sulle vite di chi la circonda – questo schiaffo che forse vorrebbe far aprire qualche occhio o forse solo essere onesto non si può, in ogni caso, ignorare. Fa male, e qualche volta si sospetta ci sia il ricatto morale dietro l'angolo. Ma non c'è buonismo (pregio non da poco) né metafisica fine a se stessa: a chi parla del nostro mondo, di noi in modo così diretto vale la pena prestare orecchio.

Hanno rotto Albert Nobbs

Avendo letto con estrema attenzione l'emendamento testé reso pubblico (aka il post precendente, via!), già ben saprete la scabrosa verità: questo film non è brutto. Per quale ragione, dunque, vi sfrantoio un po' anche oggi senza dimostrare un minimo di coscienza? Ma allora non avete letto bene lo spiegone! Non brutto non significa mica (non sempre) che non ci sia da ghignare. O criticare. Sfottere. Sì, insomma, di che scrivere in questo blog. Su il sipario.

Glenn Close è incartapecorita il giusto (kudos a Egon per la definizione) per portare su schermo, dopo 30 anni di prove teatrali (così dicono: hai studiato tanto, Glenn!), il ruolo che ogni fanciulla sogna: l'eponimo Albert Nobbs, uomo di mezz'età un po' cessetto, con lavoro semiumile (cameriere in albergo con pretese ma cadente) e vita privata inesistente. Wow.

Onestamente, il pensiero dei suoi ruoli scabrosetti di qualche anno fa (ok, fine anni '80...), da Relazioni Pericolose ad Attrazione Fatale, causa degli scompensi anche al più ormonale di noi, spettatori mascolini. La performance, sia chiaro, è valida – forse non epocale, ma ben recitata. Attorno a GlenNobbs, e sullo sfondo di una Dublino fine '800, si muovono i personaggi di contorno i quali poi, come si conviene, muoveranno la vicenda – e la piatta vita di Albert verso una spiacevole conclusione. Tra essi si stagliano:

  • la bionda cameriera puttanella (ah, il politically correct!) di bell'aspetto e poco intelletto che si fa sedurre ed impregnare da

  • il manzo di turno, imbroglioncello da due soldi incline a lavorare male e spacciarsi per quel che non è – nonché all'alcolismo, però per predisposizione genetica (ah, allora...);

  • il dottore dell'albergo (tipo resident DJ), cicciozzo barbuto anch'egli appassionato di liquori e sesso orale (lo vediamo praticare un veemente cunnilingus alla sua amante, altra cameriera), incapace per anni di capire che Nobbs è una donna (chi lo ha laureato??);

  • la padrona della baracca, vecchia babbiona sedicente baronessa intenta a desiderare maschi giovani, non lavorare mai e lamentarsi di ogni cosa con toni insopportabilmente aulici;

  • su tutti, un'altra travestitona di livello, tale Hubert Page chiamata/o a ridipingere le stanze della bettola in questione, ed interpretato/a da un donnone di 1 e 90, e che ci regala un flash (in purissimo stile Colpo Grosso) sulle proprie giunoniche mammelle (con annessa crisi respiratoria di Nobbs). Ah, sì, vive con la propria anima gemella, donna. Sposati. Altro che giovanardismi varii (certo, tutto illegale e nell'ombra, ma stai a guardare il capello).

Ci vengono, fortunatamente, risparmiati dettagli sull'insopportabile clientela (ricconi e nobili di diversa estrazione, dediti a fancazzismo estremo e sesso scambistico: beati loro, con la crisi che c'è), e lungaggini varie. C'è della buona regia e la sceneggiatura, di forte impianto teatrale (presenti un paio di brevi soliloqui da parte di Albert/a, in caso aveste la penetrante capacità di analisi di un lamantino e non ci foste arrivati da soli, a capire che di teatro si tratta), non eccede né pesa. Si rischia, a momenti, ma ci si mantiene credibili e, tutto sommato, godibili. Azzeccato il cast, con alcune prove di recitazione di buon livello. C'è un po' di prevedibilità, è vero: ben in anticipo si capisce donde scaturirà la perdizione della Albert, però intanto ci si è fatti portare, un po' coinvolgere, ed il rumore secco che fa la testa della Close sbattendo sulla parete fa esclamare “ahi! l'han rotto!” con un certo dispiacere. Vengono dette un po' di cose, sia sull'individuo che sulla società, in modo non troppo banale. Si sarebbe potuto far meglio, magari, ma ad aspettare altri 20 anni la Glenn, invece dell'omino un po' grinzoso, sarebbe finita per essere una mummia vera e propria. Va bene così, insomma. Soltanto, sappiate che vi scapperà un po' da ridere.

PS: il lamantino, giacché lo so che non siete ferratissimi coi Trichechidi, è questo tizio qui

www.manatees.net

Si notino la figura slanciata ed il profondo acume emanante dal volto.