sabato 30 marzo 2013

The host - Andiamo a mietere il grano

Ritorna, inesorabile, la rubrica “Stai seria con la faccia ma però”. Ospite del giorno (è proprio il caso di dirlo) “The host” di Andrew Niccol, dalla pluricelebrata (per “Twilight”) Stephanie Meyer. Trattasi di ennesima rivisitazione del sempiterno tema della convivenza tra uomini e alieni, in genere scongiurata a colpi di battaglie apocalittiche quando non risolta dalla colonizzazione in pectore del nostro pianeta (chi si ricorda del mitico “Essi vivono” di Carpenter?). Qui si sceglie la seconda strada, con l'addizione dell'apparente vocazione pacifistico-ecumenica degli ospiti, che una volta giunti sulla Terra pensano bene di bonificarla occupando i corpi dei selvaggi umani di turno.
La prassi è presto detta: stordito che sia il neanderthaliano nostro simile, i raffinatissimi conquistatori, di forma vagamente spermatozoica, vengono inoculati da appositi Guaritori (sic) nelle membra dell'incivile autoctono, invadendone la mente prima che il corpo e lasciando, quale unico segno visibile della loro (com)presenza, un cerchio di luce attorno alle iridi. Nella maggior parte dei casi, l'Anima in transito non trova resistenze nell'umano precedente e lo atrofizza al punto da annullarlo. Ma in alcune, sfortunate, evenienze, capita che il cervello originario continui a funzionare e poco tolleri, come si comprenderà, la convivenza con il nuovo arrivo.
Eccoci quindi al film. Catturata dagli alieni dopo un fallito tentativo di fuga, Melanie (Saoirse Ronan, già nel recensito “Amabili resti”) subisce il trapianto nei propri visceri di tale Viandante (un'Anima di circa mille anni, già stata in svariati pianeti, secondo cui c'è vita anche lì ma, a quanto pare, non così interessante come da noi – saranno le disco) e ingaggia subito una battaglia senza esclusione di colpi con lei. Vuole evitare, in particolare, che la sgradita inquilina, che ha accesso ai suoi segreti, sveli dove si trovano tutti i suoi affetti rimasti (il fratellino Jason e il drudo Jared) alla bieca Cercatrice (un'algida, e piuttosto insopportabile, Diane Kruger).
Ne esce un singolare ritratto della schizofrenia. La nostra combatte coi propri ricordi (amplessi col drudo, per lo più) e trova parecchie difficoltà ad eterodirigere l'Anima in affitto, che comprende la situazione e sviluppa una sorprendente empatia con la padrona di casa. Entrambe, in qualche modo, si coalizzano contro la Cercatrice predetta, che con fare teutonico già medita di spedire l'inefficiente Viandante in qualche altro corpo e insinuarsi lei nel corpo di Melanie. Fiutato il pericolo, e non senza resistenze della timida aliena (sorvoliamo sui dialoghi/monologhi fuori campo della Ronan, pericolosamente sulla linea di confine del ridicolo), la/e protagonista/e trova/no il modo di evadere e scappare verso il deserto.
Qui si rende necessaria una digressione: per riuscire nell'impresa, Melanie/Viandante ruba un'auto a un vecchietto colonizzato, approfittando della sua sincerità e cortesia - “non diciamo mai bugie” – così da ricordarci, inevitabilmente, l'atmosfera fintamente idilliaca del ben più divertente “Demolition man” di quasi vent'anni prima. In quel caso, la San Angeles del futuro non era abitata da extraterrestri, bensì da una nuova classe dirigente, anch'essa ispirata a una new age di pace e prosperità, e a tal punto ingenua da aver sostituito il rock coi jingle pubblicitari. Dietro la facciata immacolata – ogni funzionario andava in giro con uniformi bianche, proprio come gli ospiti elegantoni di cui sopra – covava però una durissima e insopprimibile resistenza di esseri umani vecchio stile, costretti a consumare topoburger nelle fogne pur di sottrarsi all'ipocrisia dominante. Nel film di Niccol, invece, la retroguardia ha scelto una via bucolica: i pochi superstiti si sono infatti radunati sotto il comando di Jeb, zio di Melanie, impersonato da un irresistibile William Hurt versione agreste con cappellaccio, fucile a canne mozze e codino, che per tutta la durata dell'opera elargisce perle filosofiche, ironia non richiesta e pugno duro coi dissidenti. Fiero della propria assurdità, si è anzi rintanato in una grotta sotterranea nel deserto (“non sono io che ho trovato lei, è lei che ha trovato me”) e ne ha fatto un avamposto lealista agli assalti dei conquistatori. Ci coltiva anche il grano, sfruttando il sole attraverso un complicato sistema di specchi girevoli, all'occorrenza oscurabili per sfuggire ai raid aerei degli invasori. Un genio, e un attore finito.
Tanto divagato, ritorniamo alla storia. La fuga ha infine buon esito. Era appunto lo zio l'obiettivo della protagonista. Quando lo ritrova, si innesca tuttavia una spirale di sospetti tra gli accoliti del guru, che non vedono esattamente di buon occhio la reunion, visto che la nipote, con le sue iridi cerchiate, appare un'aliena, e viene subito ritenuta una spia. La situazione si complica ulteriormente perché del gruppo fanno parte anche il fratellino e il drudo di cui sopra, che vive un terrificante conflitto psicologico/ormonale su come approcciare la nuova/vecchia compagna. Perfino il suo sodale Ian – qui la Meyer esagera – si innamora di Viandante (o in realtà di Melanie: beh, del corpo dell'una e della mente dell'altra, se ci credete) e ne ha, ricambiato, un bacio, tra le proteste silenziose dell'originale.
La trama, ad ogni modo, svolta non appena Wanda (il modo in cui l'ineffabile Hart ha ribattezzato l'Anima in prestito) si accorge del segreto scopo degli esseri umani: rapire propri simili ed estrarre gli alieni dai loro corpi, nella speranza di farli tornare come prima. Peccato che il delicato intervento sia messo nelle mani dell'imperito Doc, un onesto maniscalco del bisturi che strappa via le Anime come se mettesse in moto un gommone, sacrificando, con loro, anche i corpi ospitanti. Sarà l'aliena, smaltito il naturale raccapriccio per un simile modus operandi, a spiegare la procedura corretta, rubando agli invasori gli accessori all'uopo (e intascandosi, con l'occasione, una medicina miracolosa che salverà Jason da una ferita in setticemia e le conquisterà, definitivamente, la fiducia del gruppo).
Il resto è fiera dell'ottimismo. La Cercatrice, impazzita di rabbia, usa ogni mezzo per scovare la/e fuggitiva/e, compreso l'accidentale omicidio di un suo sottopancia (nero, come tutti i sottopancia della Kruger, bianca e ariana – ognuno tragga le proprie conseguenze), che gli inimica tutto l'irenico apparato centrale. Quando, disperata, giunge alla meta, Jeb la ferisce e la imprigiona. La sua Anima verrà estratta e spedita nell'aere siderale, a rendere più spiacevoli altri pianeti, mentre Wanda sarà instillata in un corpo diverso da Melanie, così da far contento Jared, che riavrà la sua ragazza, e Ian, che ne troverà finalmente una (la scusa per motivare il tutto è che il nuovo corpo in prestito è di una persona che, precedentemente liberata da un'altra Anima, “sarebbe sicuramente morta” senza un nuovo innesto – mah).
Tanto basterebbe. Ma nel finale ci si racconta insospettabilmente che alcuni alieni, occupati gli esseri umani, stanno iniziando a schierarsi con la resistenza. Le ragioni sono sconosciute: forse un inno alla convivenza, forse, più probabilmente, un tentativo di superare i disturbi bipolari.

domenica 10 marzo 2013

Recensioni d'antan - Greed (1924)

Capita di recente, nella bulimica perversione cinefila, che i vostri recensori si accostino, con esiti alterni, al cinema d'antan. Non lo si fa per intellettualismo occhiuto, né per sofferenza coatta, ma per bieca, torva, curiosità. Può infatti succedere di estrarre perle dall'oblio della celluloide (e.g. "L'uomo con la macchina da presa" del profetico Dziga Vertov), oppure monografarsi un attore più leggendario che reale (i.e. Lon Chaney, che, salva l'esilarante scena della maschera strappata nel "Fantasma dell'opera", è un mago di travestimenti e contrazioni drammatiche), o ancora entusiasmarsi per la modernità di certa produzione svedese di un secolo fa (per informazioni, rivolgersi al "Carretto fantasma").
Ma può pure accadere, lo si dice per onestà, di dormirsi interi brani di comiche, restare in balia di sequenze dagli attori tutti uguali (d'altronde, le immagini sfuocate), fissare con sguardi ebeti improbabili rimandi da una didascalia all'altra (il muto è cosparso di inesorabili ellissi). E, sempre, di restare stralunati ma consapevoli, ché ogni storia percorsa al contrario richiede un po' di tempo per sedimentarsi. Quanto accaduto l'ultima volta, tuttavia, merita un capitolo a parte. E una recensione a parte. 
"Greed", di Erich von Stroheim, classe 1924, è unanimemente ritenuto, dagli aedi della cinefilia, l'esempio epocale di come Hollywood, in omaggio agli altari del commercio, abbia crudelmente castrato gli ideali registici, sforbiciando un capolavoro assoluto della storia del cinema - originariamente lungo 7 o 9 ore, a seconda della pellicola in uso - fino a renderlo una pallida controfigura dell'arte che fu. Oggi, tuttavia, dopo un misterioso ritrovamento di una copia più lunga del film in un centro di igiene mentale, è possibile visionare, oltre alle 2 ore standard rimaste, una ridda di fotogrammi/didascalie della stessa durata con le scene tagliate e distrutte.
Immaginerete, quindi, la sfida. Non solo il muto, anche la paresi fotografica. Roba che neanche un Bazin dei tempi nostri. Ci si è dunque armati per la tenzone e in sole tre sessioni non consecutive, tutte parecchio ostiche, se ne è venuti a capo. Tacendo, naturalmente, dei dettagli (tardi svenimenti, malanimi, commenti rabbuiati quando finivano le sequenze filmate e riprendeva la solfa delle diapo), l'esperienza si è conclusa con un giudizio plebiscitario: "Greed" è un film ampolloso, trito, di sconcertante banalità e ottuso perbenismo, gravato, come non bastasse, da una regia totalmente priva di guizzi, e scandita, forse per risolvere dalla noia imperante, da un ricorso smaccato e protervo alla simbologia.
Vi è stato sempre raccontato, sin dalla traduzione italiana del titolo (Rapacità), che si tratta di un'opera sull'avidità umana, le grinfie, la bassezza a cui il nostro simile si abbandona quando perde la testa per il denaro, il luccichio della ricchezza, il potere. E così è, in effetti. Ma quello che non vi viene – colpevolmente – detto è che, di tutti i modi che Stroheim aveva di spiegarcelo, ha scelto quello immediatamente percettibile anche da uno spettatore di istruzione elementare, financo una scimmia, visti certi pavloviani automatismi registici.
Perché, sì, sorvoliamo pure sulle celebri colorazioni a mano dei lingotti d'oro, sulle scene di raccordo con le braccia scheletrite che agognano di affondare nel monetume, sul filtro giallo della sequenza finale nel deserto (che, forse per via del sole, ci ha ricordato "Seven" ed è l'unico momento passabile dell'indigeribile sbobba) e sul pittato rosso dei denari insanguinati, e blu delle dita in cancrena, morsicate in cerca dei dobloni che trattenevano, e via scarabocchiando. Sorvoliamo anche sulle scene improbabilmente a colori di una delle storie collaterali, saturate in modo osceno, come una sorta di imbellettamento postumo, per esprimere un apparente contrasto tematico con il bianco e nero del resto. Dopotutto, si tratta di folklore.
Ma non perdoniamo, no, mai, lo stile agit prop con cui è usata la profondità di campo (esempio per tutti la scena del matrimonio dei protagonisti, durante il quale, per esprimerne i tetri presagi di sventura, scorre dalla finestra del salone un lento corteo funebre), la deliberata tendenza alla sgradevolezza (banane masticate a bocca aperta, rutti tempestosi, fazzoletti quasi divorati dal nervosismo) e, su tutto, la terribile vocazione ad ammonire lo spettatore, spiattellando tra una sequenza e l'altra interi estratti del libro di partenza “McTeague”, a propria volta, si intuisce, di insopportabile pedanteria.
Questo, intendiamoci, non è realismo (semmai iper-, e in senso deteriore), ma pura fuffa barricadera, come ben si comprende dal celebre dentone pendulo che ballonzola sulla carrozza dell'odonto-ciarlatano mentore dell'antieroe eponimo (idea riproposta, nella consueta citazione terminale, dall'ultimo Tarantino), un rozzo minatore di buoni sentimenti e scarsità cerebrale, assurto agli onori borghesi tramite improbabili abilità nell'estrazione a mani nude dei molari, e di qui proiettato verso uno scandaloso successo.
Non vale nemmeno la pena dilungarsi sulla trama, sull'immotivatamente teutonica Trina Sieppe, originaria paziente del nostro, che lo innamorerà durante un bacio al cloroformio per poi sposarlo, vincere una lotteria e scegliere di vivere in miseria pur di non spartire con lui il gruzzolo con cui è usa titillarsi nei tempi morti. E stendiamo, del pari, un velo sul cugino della suddetta, infoiato di lei all'inverosimile, che per affossare il rivale denuncia urbi et orbi la sua carenza di odonto-titolo, lo precipita nella disoccupazione e ne esplode la nefasta violenza primigenia, inducendolo, al culmine del rapacissimo processo degenerativo, a far fuori l'avida moglie, fuggendo nel deserto con una taglia sulla testa e troppe ore di girato alle spalle.
Omettiamo pure, per compassione, di soffermarci sui vecchietti vicini di appartamento di McTeague, che si concupiscono divisi da una parete senza toccarsi mai, per poi approdare anch'essi alle nozze e alla vita insieme (questa è appunto la saturatissima storia collaterale cui si cennava sopra), terminando tuttavia i loro giorni, ci avverte nichilisticamente Stroehim, in un'esistenza piatta e insensata, unica alternativa alla vita prava censurata per tutto il resto del film. 
Rilanciamo piuttosto una domanda. In che cosa una simile brodaglia avrebbe, in qualunque modo immaginabile, influenzato i cineasti coevi e futuri, come la critica mainstream va da anni predicando? Nell'uso infantile della metafora? Nella prosa grossolana? Nell'avanspettacolo che tutto permea, dalle baracconate stile "The Elephant man" degli esordi di McTeague all'epopea del canarino in gabbia, prima assaltato dal gatto del rivale, poi stecchito nella scena finale, come ogni anima innocente travolta dal flusso della brama? Perché questi, sia ben chiaro, sono mezzucci circensi, non cinema. E l'arte se ne può far vanto allo stesso modo dell'espressività al cospetto di un bolo di cerone.

sabato 9 marzo 2013

GREED - UN GRANDISSIMO STROHEIM

La perversione, è un fatto noto, qualora sia autentica e sostanziata da passione e non già (solamente) da noia, non conosce limiti: se, come direbbero certi acchiappafantasmi, piovono liquami allora nella perversione (lungi dal cercare ombrelle o riparo) ci si trova irresistibilmente a fare Singing in the Rain. Nel nostro caso conclamato di masochismo cinematografico non proviamo più sufficienti brividi al recensire filmetti degli incapaci mediocri d'oggidì; né ci sollazza totalmente il meritato insulto ai presunti grandi autori di quest'era. Vogliamo, no, necessitiamo di più e di peggio, e perciò trascendiamo le barriere della decenza e del tempo, nel tentativo di ricavare da antica pellicola un'emozione nuova: lo svelamento impietoso e la denuncia crudele delle brutture nascoste più spesso di quanto si creda (oh, gaudio!) nelle liste dei Capolavori del Cinema. Per esordire (in)degnamente scegliamo dunque un film epico, presenza fissa nelle Storie del Cinema, partorito da un autore il cui nome è, parimenti, leggendario: Greed (Rapacità), di von Stroheim. E siccome, appunto, siamo dei pervertiti da competizione, non ci accontentiamo della versione smozzicata e da donnicciole, quelle 2 ore e 20 che chiunque sarebbe capace di scollinare: ci piazziamo piuttosto a muso duro di fronte alla versione restaurata di quasi 4 ore. Per chiarire, le parti perdute sono rimpiazzate da fermo immagine (foto dal set) e commenti scritti: un tour de force amplificato, un tormento che ci proietta nell'abisso della sofferenza per esserne poi sputati rinfrancati e pronti alla pugna. Purificati non osiamo dirci, stante la tremenda mattonata al basso ventre: ma non vi inganniate, lettori. Qui non si tratta di artificioso fallimento, di ineluttabilità storico-artistica, di fotogrammi e parole che invano tentano di prendere il posto del grande cinema che fu perduto, e nell'inevitabile insuccesso risultano noiosi: no, qui si parla di un grandiosamente brutto film.

Tratto da un libro che, per carità!, non vi venga mai in mente di leggere (sul serio, le frasi prese dal testo per riempire gli spazi “vuoti” sono tremendissime imbellettature baroccate, morali di assoluta banalità e talvolta esempi di pura stupidità), Greed sarebbe un impietoso ritratto della debolezza umana, della mostruosità che la nostra specie esibisce per Cupidigia, racconto potente e fuori dal tempo. Così dicono le critiche dei grandi esperti della Settima Arte. Quello che omettono, malvagi, è che trattasi di film spietato sì, ma con lo spettatore. Stroheim (il “von” se lo scorda, alla fine della quarta ora) ci propina tutto e tutti, sembra incapace di operare tagli o scelte narrative (e se vi bevete la frottola che questa sia grandeur, addirittura genialità, buon per voi – noi però vi abbiamo avvisati: è solo un modo pessimo di narrare), racconta per filo e segno le gesta di innumerevoli disgraziati. Passino le presenze caricaturali (anche se spingono ai limiti le nostre capacità di sopportazione) in qualche modo giustificate da una loro relazione con chi dovrebbe incarnare principalmente la storia, l'apologo. Ma chiunque venga anche in minimo contatto con McTeague (un bruto dotato di forza erculea e cuore d'oro: per dire, quando un collega minatore maltratta il suo canarino, non esita un secondo a scaraventare il maleducato giù per un dirupo onde proteggere il pennuto) e Trina (giovane rampolla di una famiglia asburgica inspiegabilmente trapiantata in piena California) viene presentato per nome e storia personale. Più inutili sono, meglio è. Lo stillicidio sembra infinito nella prima parte dell'opera, tanto da far sorgere dubbi sull'effettiva convenienza di una visione integrale, ma poi ad onor del vero rallenta nella seconda metà: anche perché parte dei personaggi si autoelimina cominciando a schiattare in malo modo. Il fil rouge di tanta protervia elencativa (ribadiamo: non di narrazione si tratta, piuttosto di pagine gialle senza censure) sarebbe, par di capire, nelle misere vite di americani del 19mo secolo, incapaci quasi per natura di evolvere da creature meschine ed animalesche ad esseri umani moderni e felici. I tentativi in tal senso non mancano, e sono puntualmente destinati al fallimento (quando non alla morte violenta, che pure viene dispensata con liberalità): lo stesso McTeague offre lo spunto di partenza, emancipandosi (su istigazione della madre, ignorante montanara sposata ad un alcolista irredimibile ma dotata di un certo buon senso) dalla triste esistenza di minatore per andare a caccia di un futuro migliore. Nella fattispecie, esegue senza volerlo (e d'altronde ha la costituzione e l'acume di una bestia da soma, quindi la volontà come atto puro di pensiero gli è verosimilmente per sempre preclusa) l'estrazione a mani nude del dente cariato di una donzella e ciò lo porta non già a recitare in un numero di magia o ad invecchiare in carcere (come ci aspetteremmo) bensì ad iniziare una carriera da dentista. Trasferitosi in città e liberatosi dall'ombra del suo mentore (rivelatosi, toh!, un ciarlatano) egli parrebbe destinato alla felicità: incontra invece innumerevoli esemplari di umanità dolente e fisicamente ripugnante, e volentieri si adegua all'andazzo. L'elenco è lungo e tediosissimo (grazie di cuore, Stroheim!), si stagliano a nostro avviso la donna delle pulizie latina sposata con un tizio sicura testa di serie al prossimo campionato Uomo più Brutto del Mondo (per inciso lei è una mitomane che a giorni alterni racconta di chili d'oro sepolti da qualche parte in Messico per poi ritrattare, rendendo folle – di Cupidigia, ovvio – oltreché orrendo il marito) e la coppia non consumata di vegliardi che abitano in stanze attigue nell'affittacamere dove ha anche sede McTeague (si vede che all'epoca i dentisti prendevano meno), i quali si origliano vicendevolmente attraverso pareti di cartone per decenni piuttosto che dirsi “ciao” in pubblico (pudicizia d'antan).

La storia, per così dire, si incentrerebbe su McTeague e la sua ricerca di una vita migliore, ed i personaggi che incontra nel cammino – a partire dall'oggetto del suo amore, tale Trina Sieppe (sventurata ipertricotica cui viene scheggiato un dente per foga altalenistica dal cugino che tenta di sedurla e la porta, errore fatale!, a farsi curare dal suo amico Mac – tutto vero, giuro) di chiara e sfortunatamente esplicitata discendenza teutonica. Invariabilmente, tutti cadono vittima del desiderio di oggetti luccicanti, bruciano di passione per l'accumulo fine a se stesso di (assai relative) ricchezze e finiscono malissimo. Di epico vi sono le lungaggini, di innovativo praticamente nulla, di involontariamente buffo parecchio, di noioso quasi tutto. La rappresentazione è grandemente banale, i personaggi sono o divengono quasi tutti brutti & cattivi (non è chiaro se siano cattivi e quindi brutti o viceversa) e la gran trovata (a parte “mostrare la deformità di corpo e spirito”, abbiamo capito) sta nell'aver fatto colorare a mano parte dei milioni di fotogrammi (sicuramente manodopera minorile sottopagata) per far risaltare lo sbrilluccicante ORO (in sé o metaforico) che tutti bramano, ed in alcuni intermezzi con braccia e mani scarne che arraffano montagne di monete, monili e quant'altro, stile Gollum in casa de' Paperoni: non malaccio, ma decisamente troppo poco. Anche perché è a fronte di una regia piattissima – Stroheim non muove la cinepresa nemmeno sotto tortura, conosce solo due inquadrature (ne osa una terza, nei momenti clou) e insomma detto francamente sono più dinamici alcuni fermo immagine della maggior parte delle sequenze – e di una recitazione bambinesca. Trina, soprattutto, vittima di uno sfacelo psicosomatico progressivo, inarrestabile e fastidioso, si porta un dito alla bocca e mette lo sguardo a fuoco sull'infinito ogni volta che si ingrifa pensando ai soldi (e meno male che vince una lotteria, strada facendo!). Per chiudere in gloria: la sceneggiatura in quanto atto di sceneggiare, di adattare il libro al mezzo cinematografico, era evidentemente pratica sconosciuta o invisa all'autore. Stroheim pretendeva di non tagliare nulla (qualche benemerito ha amputato a più riprese le 9 ore originariamente messe insieme dal folle), di girare solo nei luoghi reali, di essere maniacalmente fedele ad un romanzo già “naturalistico”. Ma mettere in scena sciocchezze e sconcezze acriticamente (sul serio mi devo sorbire il fatto che Mac, per far scucire dei soldi alla tignosissima moglie, le morda le dita con espressione ebete? E, ad aggravare, che lei in seguito si veda amputare per questo mezza mano – non prima di averla colorata fugacemente di blu con variante sulla tecnica di cui sopra? Sul serio è un dramma imprevedibile, architettato da un malvagio antagonista il fatto che un analfabeta instauratosi in uno studio cittadino senza autorizzazioni o licenze e spacciantesi per odontoiatra faccia prima o poi incazzare la locale associazione dentisti?) e ancora filmare tutto senza filtri ma del pari senza invenzioni (di tecnica o di idee) non è, piaccia o meno ai santoni, fare grande cinema. E' a malapena fare cinema, a parer nostro. Una chiosa sulla morale proposta: gli unici immuni al desiderio irrefrenabile di possesso materiale sono i due vegliardi vicini di stanza di Mac. Essi, concludendo un corteggiamento silente durato decadi, infine cedono le poche proprietà di qualche valore e, dopo aver parlato una volta una ed abbondantemente pianto sulle rispettive spalle, convolano. Gioia, riscatto, speranza? Direste di sì, dato che son loro dedicati alcuni fotogrammi a colori. Ma la didascalia, impietosa, specifica che finiranno così insieme i giorni delle loro vite vuote, senza accadimenti di rilievo. Insomma, in un modo o nell'altro siamo tutti perduti. Speriamo almeno che, all'inferno che ci attende, la programmazione cinematografica sia migliore.

PS: l'unica soddisfazione è che, al vedersi i primi 10 minuti o giù di lì, scoprirete cosa stava citando Tarantino all'inizio di Django, ovvero da dove venga il carretto col dentone d'oro. Poi, spegnete.