“Se guidi come un
fulmine ti schianti come un tuono” non è un proverbio, né una
frase particolarmente acuta, ma un brano di sceneggiatura sufficiente
a dare il titolo (italiano) all'ultima fatica di Ryan Gosling, ancora
pervaso dall'aura di “Drive” e perfettamente spendibile per un
po' di maledettismo gratuito. In “Come un tuono” (la versione
originale è “The place beyond the pines” e naturalmente non
c'entra nulla con l'altra), del non fantasioso Derek Cianfrance, il
nostro eroe abbandona la macchina per inforcare una moto da cross,
corredandosi di tutti gli ammennicoli del genere: capello
ossigenato, bicipite scolpito, tatuaggi lungo il corpo (uno sullo
zigomo a forma di pugnale lo rende un singolare Pierrot della
suburbia) e sigaretta perennemente pencolante tra le labbra, come a
dire: recitare no, ma per un poster siamo in prima fila. Stupisce che
il film sia a colori, in un certo senso.
La trama, estenuante, è
la seguente: Gosling si guadagna da vivere facendo lo stuntman nelle
fiere di paese, quando al termine di un'esibizione viene avvicinato
da una sua ex di un anno prima (Eva Mendes, bellissima e basta),
scoprendo che ha da poco messo al mondo un figlio suo. La cosa gli
ingenera un mostruoso senso di colpa (il padre, quand'era piccolo, l'ha lasciato solo) e lo costringe a restare a Shenectady, un posto
boschivo e senza dio dalle parti di New York, mollando la compagnia di giro
per cui lavora per crescere il pargolo. L'impresa,
tuttavia, si presenta da subito disperata: la Mendes, in sua assenza, si è sistemata con la madre e il bimbo a casa del suo nuovo
uomo, di colore, che non vede esattamente di buon occhio il ritorno
di fiamma. Per di più Gosling non ha un soldo e indossa solo t-shirt bisunte, benché sia ancora chiaramente amato da lei.
Per rimediare si impiega
allora da un meccanico del luogo il quale gli consiglia, per sfondare nella società, di rapinare banche: data la sua abilità
con la moto, è anche disposto a fargli da complice. Il nostro ci
mette poco ad accettare e inizia una nuova carriera, riaccreditandosi
a suon di bigliettoni agli occhi della famiglia. Il precipizio, però, è dietro
l'angolo: una mattina, Gosling fa una sorpresa alla suocera e si
presenta con dei regali per il figlio, compreso un lettino nuovo. In pieno bricolage si imbatte però nel rientro del padrone di casa e, invitato
ad andarsene, lo colpisce con una brugola e finisce al fresco per
lesioni aggravate.
Il resto è pura discesa
agli inferi: il complice gli paga la cauzione ma non vuole più
partecipare a nessun colpo, la Mendes si rifuta di vederlo perché
– stranamente – inquietata dalla sua impulsività e, come non
bastasse, il suddetto ex partner gli sabota pure la moto a scopo
dissuasivo (ritrovandosi, per tutta risposta, con una pistola in
bocca, lieto di dargli i soldi per comprarsene una nuova). Bisogna
far da soli: ma all'ultima rapina qualcosa va storto e l'improvvisato fuorilegge finisce con la polizia alle calcagna. Si rifugia allora in una casa,
inseguito dall'agente di turno (un improbabilissimo Bradley Cooper
con capello a spazzola e rasatura da poppante) che, con un'incursione
da manuale, lo fredda proprio mentre sta dettando le sue ultime
volontà al telefono alla Mendes: non parlare mai di me a mio figlio.
Già basterebbe, ma sono
passati solo tre quarti d'ora: defunta la prima star, la storia passa –
purtroppo – nelle mani dell'altra, e parte un secondo giro di
rimorsi: ribaltata la verità nel rapporto ufficiale (anche Gosling
ha sparato, ma solo per reazione alla maldestra irruzione del
poliziotto, ferendolo alla gamba), l'implume è celebrato come eroe
dal distretto ma viene a scoprire che la sua vittima aveva un figlio
di un anno, come lui. Per di più i colleghi (sostanzialmente una
cricca di mafiosi capitanata da Ray Liotta – e chi se no?), per
allietargli la convalescenza, lo conducono a una perquisizione
illegale in casa della famiglia della Mendes, sequestrando i proventi
delle rapine e spartendosi con lui il
bottino.
Ormai moralmente
devastato, Cooper decide quindi di spifferare tutto (beh, a parte la propria
responsabilità) al commissario il quale,
anch'egli uomo d'onore, gli consiglia per il suo bene di tenere la
bocca chiusa. Liotta, scoperta la soffiata, gli tende invano un
agguato nel bosco (è forse quello il “place beyond the pines”
del titolo), inducendolo a un cambio di strategia:
consigliato dall'arcigno padre giudice (e dàgli), andrà a
denunciare le malefatte all'ispettore capo, in cambio di un posto di
viceprocuratore (Cooper è laureato in legge e pare che questo in
America sia più o meno equivalente ad aver separato il Mar Rosso) e
dell'immunità sempiterna.
Il piano funziona e ci
consente, se non altro, di giungere alla terza e ultima parte del
film, ormai di una pesantezza intollerabile. Sono passati quindici
anni, Bradley Cooper è diventato Bradley Cooper (cioè col capello
giusto, i completi su misura e la barba di un giorno) ed è in piena
campagna elettorale per farsi eleggere procuratore generale: al
funerale del padre, apprendiamo che si è separato dalla moglie e che
suo figlio, ora 17enne, vuole andare a vivere con lui. Ennesimo rapporto
problematico, se mai l'antifona non fosse sufficientemente chiara.
L'obiettivo si sposta
allora sugli eredi dei due protagonisti, che ovviamente si incontrano
a scuola e fanno amicizia, a suon di canne e pasticche di ecstasy.
Sorpresi nel bel mezzo di uno spaccio finiscono al commissariato, e
lì Cooper scopre che il figlio ha conosciuto la persona sbagliata.
Scontato l'effetto-domino successivo: tra una confidenza e una
ricerca su internet, l'amara verità verrà a galla, spingendo il
successore di Gosling a procurarsi una pistola e far giustizia del
passato. Riuscirà soltanto a trascinare Cooper nel già citato
“posto oltre i pini” (o giù di là), intimandogli di mettersi in
ginocchio e chiedere perdono, e scucendogli con l'occasione il
portafoglio. Vi troverà i soldi necessari per comprarsi una moto ed
emulare i vagabondaggi paterni, nonché – con sua sorpresa – una
foto di famiglia col padre che lo tiene in braccio, trafugata all'obitorio dal
poliziotto a (vana) redenzione del proprio crimine. La spedirà alla
madre come ogni ribelle che si rispetti, mentre Cooper, sano e salvo,
festeggerà la propria elezione con gli applausi filiali. A conti fatti, tre film, due ore (e venti) di durata, una sola idea. La sintesi, innanzitutto.
Note a margine:
- Rivedibile il casting per la parte del figlio di Gosling: in teoria, all'inizio del film, dovrebbe avere non più di due-tre mesi, ma il bimbo scritturato è chiaramente più grande (oltre ad essere di lineamenti nordici, con buona pace delle origini latine della madre);
- Esilaranti le riprese delle fughe in moto: per rendere il tutto più concitato, il regista crea un effetto accelerato tipo comiche di Benny Hill: bastava un po' di montaggio action;
- Del tutto inverosimile la svolta della prima parte: prima di entrare in banca per il suo colpo fatale, il protagonista scopre di aver dimenticato il bavaglio. Tuttavia va avanti lo stesso: c'è un'altra ora e mezza di trama, non si può aspettare;
- Assoluta la sequenza dell'inseguimento: il poliziotto che avvista per primo Gosling descrive al millimetro l'evolversi della situazione alla centrale e, quando finalmente è giunto a mezzo metro dal ricercato, anziché spianargli la pistola davanti preferisce continuare la radiocronaca stile “tutto il calcio minuto per minuto”, cedendo poi la linea a Cooper;
- Memorabile il momento in cui due poliziotti, brandendo la pistola, urlano al cadavere di Gosling di alzare le mani.
Giudizio: KKKk
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