lunedì 8 settembre 2008

Film bello dell'anno - The wrestler

Abbiamo ritenuto opportuno, in un blog che si occupa esclusivamente di film brutti, dare spazio, una volta all'anno (non di più, ci mancherebbe), all'eccezione che conferma la regola: una recensione positiva. Per il 2008, consapevoli che non ci sarà di meglio, la scelta è caduta su "The Wrestler". Buona lettura.

di Ray Stantz

Abbiamo visto un film, ieri. Prima che qualcuno rompa le palle, non si tratta di plurale maiestatis: eravamo in tre, abbiamo. Fresco vincitore del Leone D'Oro alla Biennale di Arte Cinematografica di Venezia (che, coerentemente, si tiene ogni anno - altrimenti, trattandosi della 65ma edizione, dovremmo dedurre che sia iniziata nel 1878, con qualche problema quanto all'arte del cinema). Anche se qui siamo (ecco, QUESTO è un maiestatis) su primatiguardopoitirovino, ci sentiamo liberi di parlare di un film che ci è piaciuto, molto. Gran cosa The Wrestler. Molto ben fatto. Molto Aronofsky: bravo regista, già autore di buone cose, questa in particolare somiglia a mio parere a Requiem for a Dream - non tanto per le tematiche o lo stile quanto per la mancanza di redenzione. Stile personale, ottima cura dei dettagli. Molto, moltissimo Rourke. Riuscire a recitare, ed a farlo a questi livelli altissimi, praticamente senza faccia è prova davvero straordinaria. Buono anche il resto del cast, in particolare la Tomei - e non vi fermate a guardarle le chiappe, maiali! Eccezionali le musiche - un flash nel metal e negli anni '80. E lo ammetto: c'è un momento, nel finale, un momento quasi di redenzione e svolta e amore e comprensione e vita, un momento in cui Micky dice - come solo lui, con quella sua non-faccia e quegli occhi così, può dire - dice "E' là fuori che io mi faccio male", un momento in cui siete convinti che non importa la qualità del film, la veridicità, il dolore, l'arte e la catarsi o qualsivoglia altra stronza considerazione profonda, tutto cambierà e tutto andrà bene e si salveranno a vicenda dalle loro vite storte. Ed invece, quando in sottofondo parte il riff di Sweet Child of Mine, quando vi ritrovate di colpo a vent'anni fa e non sapete nemmeno come ma in un attimo tutto è di nuovo e per sempre chiaro, invece allora sapete come andrà e sapete che è giusto così. Non moralmente, no. E' solo placido realismo. Intanto vi siete commossi, magari. E magari fareste meglio a non dirlo in giro. Teniamocelo per noi.

In tutto questo il punto era un altro, però, e sarebbe il caso che lo esternassi. Il film di cui parlavo sopra ha vinto il Leone d'Oro - assegnato da una giuria presieduta da Wim Wenders. Wenders ha girato dei film splendidi, negli anni che furono. In tempi più recenti lui come molti altri grandi è - ahinoi - assai decaduto. Ma evidentemente non ha perso l'occhio per il cinema, il vero cinema, quello che accade sempre più di rado. Soprattutto, non ha perso il coraggio. Ce ne voleva, per premiare questo film in una mostra che ambisce a coniugare un po' di sano divismo a scopi pubblicitari (sennò che cazzo portiamo Brad Pitt - o altro manzo a scelta, a seconda dell'annata - al Lido a fare?) con premiazioni sempre più insopportabilmente intellettuali. Questo film americano (anche se indipendente), questo film di Aronofsky (che è bravo e si sa, ma mica è nato in Kyrgizistan, quindi non può esser regista da Leone d'Oro!), questo film con Mickey Rourke, orrore! orrore!, questo film onesto e vero e magnifico ma col difetto cinefilicamente mortale di non essere palloso.

Ricordiamocene, sarebbe il caso.