Avvertenza preliminare: questo è un film mancato. Mancato, s’intende, dal suo recensore, che è arrivato in ritardo alla proiezione, ne conserva ricordi vaghissimi (e non proprio entusiasmanti) e non ha nessuna voglia di tappare le falle filologiche con fonti d’accatto.
Perché scriverne, allora? Perché si tratta pur sempre di una rubrica di servizio, dunque non si tace nulla, nemmeno quel poco che resta di un’esperienza trascurabile.
"Un été brulant", opera di uno degli epigoni (?) della Nouvelle vague, Philippe Garrel, è stato presentato in anteprima a critica e pubblico all’ultima Mostra del cinema di Venezia. Non disponendo del fatidico accredito per godercelo in Sala Grande (l’accredito essendo un tesserino magico che consente l’accesso ai palchi più ambiti della kermesse, elargito a chiunque lavori/sia implicato/stringa mani nel mondo del cinema, purché in via ufficiale), ci siamo accontentati della contemporanea visione al Palabiennale, variante popolare che permette di fruire, con unico biglietto, delle due prime della serata. Per capirci, un po’ come assistere al torneo di Wimbledon dalla collinetta dei backpackers, col megaschermo installato fuori dallo stadio.
Nell’occasione, l’impresa in questione ne seguiva un’altra, decisamente più invitante (forse quella di Cronenberg, ma non ci giureremmo), che ci aveva alfine indotto ad accettare il rischio del grindhouse – perché, siamo onesti, chi firmerebbe in bianco per una storia che ha come interprete principale Monica Bellucci? Appunto, nemmeno noi.
Mal, tuttavia, ce n’è incolto. Perché, forse a causa della prolungata transumanza al bar nell’intermezzo degli spettacoli, forse per via di un increscioso errore di valutazione sui tempi tecnici di consumazione decorosa di un panino, la cinematografia intellettuale di Garrel è iniziata in nostra assenza.
Per carità, si può sopravvivere. Ma ci si gioca subito l’unico motivo d’interesse del tutto – il nudo della suddetta Bellucci nelle sequenze iniziali, tanto decantato dalla stampa quanto non esattamente inedito – e lo svelamento del finale – la morte del protagonista, schiantatosi in macchina contro un albero, da cui si dipana l’integrale flashback successivo.
Quel che resta è un film francese su un doppio legame amoroso. È quindi garantito che si apprezzeranno, in serie, atmosfere languide, sguardi d’abbandono, discorsi poco convinti, altrettanto poco convinte reazioni, urla estemporanee, pianti, sceneggiatura dilavata, ovatta, silenzio. Ed eterni pomeriggi, preferibilmente in terrazza.
Tra l’altro non siamo nemmeno a Parigi, ma a Roma, in un quartiere residenziale di lusso, alle prese con un menage formato da un giovane pittore francese (Louis Garrel, figlio del regista) e una matura attrice italiana (la succitata signora Cassell). Essi si cornificano vicendevoli – vuoi con sconosciuti, vuoi con puttane – rinfacciandoselo. Ma si amano, o almeno così dicono. Benché poco convinti.
Ad un certo punto ospitano nella loro casa, spaziosa, terrazzata e costosissima, uno spiantato amico di lui con annessa fidanzata (altra attrice, ma meno matura, famosa e nuda della prima). Ne seguono nuovi sguardi d’abbandono, nuove atmosfere languide, ma nessuna cornificazione vicendevole (per dare maggiore verve al racconto, la seconda coppia ha dei gusti diversi dalla prima in fatto di divertissement). E non c’è nemmeno, come avremmo auspicato, alcuno scambio dei rispettivi partner – al massimo si mangiano due spaghi insieme.
In tutto questo aleggiano, non richieste, fastidiose velleità ideologiche: perché, ahinoi, il pittore ricco sfondato (che ha l’aria del classico figlio d’arte senza il talento del genitore ma con le relative entrature) favoleggia dai suoi ozi l’importanza di non cedere al conformismo borghese, di essere sempre e sufficientemente progressista, purché non tocchi a lui fare la rivoluzione. L’ospite, invece, che strillona tra le strade di Francia le ultime edizioni di una specie di “Lotta comunista” locale, sembra ancora duro e puro (per non cedere al didascalismo, l’autore ci mostra una scena a caso di immigrati malmenati con successivo insulto a Sarkozy) e coltiva a più riprese l’incomprensibile ambizione di tessere un dialogo sul tema con lo scazzatissimo amico.
Per fortuna, Monica Bellucci riempie la scena. Una volta urla estemporanea perché ha visto un topo, un'altra balla con uno sconosciuto per circa mezz’ora al solo scopo di ingelosire il pariolino, un’altra ancora, al termine di una poco convinta discussione in francese, esala spossata un italianissimo “basta”. E noi con lei.
Alla fine, se non altro, molla l’intollerabile individuo, ne viene seguita sul set di un film in cui sta recitando (vabè, si fa per dire), fugge con altro urlo estemporaneo, sparisce definitivamente.
Egli, per disperazione, si schianta appunto in auto. E, in quello che ci era sembrato il finale, deve pure sorbirsi nel letto d’ospedale il monologo punitivo, senza capo né coda, di un vecchio rintronato (interpretato, suo malgrado, da Maurice Garrel, nonno dell’attore e padre del regista).
A questo punto, i pochi spettatori rimasti tra le file del Palabiennale – alcuni si erano eclissati già dopo i primi venti minuti, altri erano caduti per la noia, altri ancora, con ogni probabilità, si erano trattenuti al bar – hanno iniziato un lamentoso mugugno, ottimo per svegliarsi e scoprire (essendo entrati in ritardo) che il protagonista muore, chiudendo così la tragica operazione.
In conclusione: quale sia lo scopo del film non è dato sapere. Quali i criteri che l’hanno ammesso a concorrere per il Leone, idem. Sulle ragioni per cui non ha vinto invece, beh, forse avremmo un paio di idee.
Perché scriverne, allora? Perché si tratta pur sempre di una rubrica di servizio, dunque non si tace nulla, nemmeno quel poco che resta di un’esperienza trascurabile.
"Un été brulant", opera di uno degli epigoni (?) della Nouvelle vague, Philippe Garrel, è stato presentato in anteprima a critica e pubblico all’ultima Mostra del cinema di Venezia. Non disponendo del fatidico accredito per godercelo in Sala Grande (l’accredito essendo un tesserino magico che consente l’accesso ai palchi più ambiti della kermesse, elargito a chiunque lavori/sia implicato/stringa mani nel mondo del cinema, purché in via ufficiale), ci siamo accontentati della contemporanea visione al Palabiennale, variante popolare che permette di fruire, con unico biglietto, delle due prime della serata. Per capirci, un po’ come assistere al torneo di Wimbledon dalla collinetta dei backpackers, col megaschermo installato fuori dallo stadio.
Nell’occasione, l’impresa in questione ne seguiva un’altra, decisamente più invitante (forse quella di Cronenberg, ma non ci giureremmo), che ci aveva alfine indotto ad accettare il rischio del grindhouse – perché, siamo onesti, chi firmerebbe in bianco per una storia che ha come interprete principale Monica Bellucci? Appunto, nemmeno noi.
Mal, tuttavia, ce n’è incolto. Perché, forse a causa della prolungata transumanza al bar nell’intermezzo degli spettacoli, forse per via di un increscioso errore di valutazione sui tempi tecnici di consumazione decorosa di un panino, la cinematografia intellettuale di Garrel è iniziata in nostra assenza.
Per carità, si può sopravvivere. Ma ci si gioca subito l’unico motivo d’interesse del tutto – il nudo della suddetta Bellucci nelle sequenze iniziali, tanto decantato dalla stampa quanto non esattamente inedito – e lo svelamento del finale – la morte del protagonista, schiantatosi in macchina contro un albero, da cui si dipana l’integrale flashback successivo.
Quel che resta è un film francese su un doppio legame amoroso. È quindi garantito che si apprezzeranno, in serie, atmosfere languide, sguardi d’abbandono, discorsi poco convinti, altrettanto poco convinte reazioni, urla estemporanee, pianti, sceneggiatura dilavata, ovatta, silenzio. Ed eterni pomeriggi, preferibilmente in terrazza.
Tra l’altro non siamo nemmeno a Parigi, ma a Roma, in un quartiere residenziale di lusso, alle prese con un menage formato da un giovane pittore francese (Louis Garrel, figlio del regista) e una matura attrice italiana (la succitata signora Cassell). Essi si cornificano vicendevoli – vuoi con sconosciuti, vuoi con puttane – rinfacciandoselo. Ma si amano, o almeno così dicono. Benché poco convinti.
Ad un certo punto ospitano nella loro casa, spaziosa, terrazzata e costosissima, uno spiantato amico di lui con annessa fidanzata (altra attrice, ma meno matura, famosa e nuda della prima). Ne seguono nuovi sguardi d’abbandono, nuove atmosfere languide, ma nessuna cornificazione vicendevole (per dare maggiore verve al racconto, la seconda coppia ha dei gusti diversi dalla prima in fatto di divertissement). E non c’è nemmeno, come avremmo auspicato, alcuno scambio dei rispettivi partner – al massimo si mangiano due spaghi insieme.
In tutto questo aleggiano, non richieste, fastidiose velleità ideologiche: perché, ahinoi, il pittore ricco sfondato (che ha l’aria del classico figlio d’arte senza il talento del genitore ma con le relative entrature) favoleggia dai suoi ozi l’importanza di non cedere al conformismo borghese, di essere sempre e sufficientemente progressista, purché non tocchi a lui fare la rivoluzione. L’ospite, invece, che strillona tra le strade di Francia le ultime edizioni di una specie di “Lotta comunista” locale, sembra ancora duro e puro (per non cedere al didascalismo, l’autore ci mostra una scena a caso di immigrati malmenati con successivo insulto a Sarkozy) e coltiva a più riprese l’incomprensibile ambizione di tessere un dialogo sul tema con lo scazzatissimo amico.
Per fortuna, Monica Bellucci riempie la scena. Una volta urla estemporanea perché ha visto un topo, un'altra balla con uno sconosciuto per circa mezz’ora al solo scopo di ingelosire il pariolino, un’altra ancora, al termine di una poco convinta discussione in francese, esala spossata un italianissimo “basta”. E noi con lei.
Alla fine, se non altro, molla l’intollerabile individuo, ne viene seguita sul set di un film in cui sta recitando (vabè, si fa per dire), fugge con altro urlo estemporaneo, sparisce definitivamente.
Egli, per disperazione, si schianta appunto in auto. E, in quello che ci era sembrato il finale, deve pure sorbirsi nel letto d’ospedale il monologo punitivo, senza capo né coda, di un vecchio rintronato (interpretato, suo malgrado, da Maurice Garrel, nonno dell’attore e padre del regista).
A questo punto, i pochi spettatori rimasti tra le file del Palabiennale – alcuni si erano eclissati già dopo i primi venti minuti, altri erano caduti per la noia, altri ancora, con ogni probabilità, si erano trattenuti al bar – hanno iniziato un lamentoso mugugno, ottimo per svegliarsi e scoprire (essendo entrati in ritardo) che il protagonista muore, chiudendo così la tragica operazione.
In conclusione: quale sia lo scopo del film non è dato sapere. Quali i criteri che l’hanno ammesso a concorrere per il Leone, idem. Sulle ragioni per cui non ha vinto invece, beh, forse avremmo un paio di idee.
LA SCHEDA
Un été brulant
La frase: "Ma questo è in concorso?"
Sconsigliatissimo: a chi, sentendo parlare di Nouvelle vague, pensa all'implacabile Rohmer o al monello Truffaut. Scordateveli.
Giudizio: KKK (ne merita di più, ma è troppo noioso)
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