martedì 11 settembre 2012

Parliamone Malick - Post recensione a To the wonder

Adesso che la Mostra è finita, e il Leone d'oro è stato – meritatamente, a nostro avviso – consegnato a Kim-Ki-Duk, possiamo chiudere il cerchio delle recensioni, e dire due parole su Terrence Malick. Perché non farlo prima?, chiederete. Beh, perché il suo ultimo "To the wonder", in concorso, è un film, al di là di ogni altra considerazione, mortalmente noioso, a tal punto pretenzioso e sconnesso da indurre a soprassedere perfino su una stroncatura. Il clima da liquidazione, tuttavia, consiglia comunque di occuparsene, a patto che si consideri quanto segue una sorta di review con lo sconto, di quelle che servono solo a svuotare gli scaffali. Dopotutto, è pur sempre una rubrica di servizio.

Ordunque, procediamo. Malick, sia detto per onestà intellettuale, non è esattamente il nostro regista preferito. Ne conosciamo la cinematografia a spot, avendo visto soltanto "Badlands" (storia abbacinante, quasi autistica su un fuorilegge risalente agli anni '70) e "La sottile linea rossa" (ben più recente, e insopportabilmente colmo di sofisticherie in un contesto bellico). Non ci ha mai invogliato, temendo obiettivamente un polpettone, il premiatissimo "The tree of life", né, a maggior ragione, il succitato "To the wonder", ritenuto da alcuni un seguito del primo. Ma era in lizza per il Leone, e quindi.

Il film si apre (ma non si chiuderà mai) su una storia d'amore tra un americano (il mascelluto Ben Affleck) e una francese (Olga Kurylenko, non sottilizziamo sulle origini ben più a est dell'attrice), con tanto di bambina al seguito. Inizialmente a Parigi, la coppia decide di trasferirsi in America, per agevolare il lavoro di lui (sonda terreni in cerca d'inquinamento dalle parti dell'Oklahoma). Qui, però, il clima idilliaco degli esordi si guasta, e lei fugge via con la figlia, mentre il partner riallaccia – temporaneamente – i rapporti con una vecchia fiamma locale (Rachel McAdams, scritturata per una parte sostanzialmente muta). Anche l'Olga di cui sopra avrà un incontro con un altro uomo, poi ritornerà sui propri passi, però non sarà più la stessa cosa, e in mezzo a questa vicenda, che non è esattamente originale, assistiamo ai tormenti di un prete (Javier Bardem, l'unico credibile), perennemente alla ricerca di Dio come gli altri protagonisti dell'amore, ma destinato ai medesimi insuccessi.

Fin qui la scarna trama, perché per il resto l'opera è una ripetuta e devastante interiezione di campi a perdita d'occhio, lame di luce, Kurylenko che balla e ruota su se stessa, corre in lontananza, e in voce off ci racconta a mezze frasi della sua felicità irraggiungibile. I paesaggi si moltiplicano, sommergono, collegati – si fa per dire – da una veduta iniziale di Mont Saint Michel (dove, dopo solo dieci minuti, si arriva alla meraviglia del titolo) senza la marea, per chiudersi con la stessa cartolina con l'acqua in risalita. C'è tempo per scene bizzarre, al limite della casualità: terrificante la comparsata, con calata romanesca (!), di Romina Mondello, che incrocia la Kurylenko in una delle sue tante elucubrazioni e spara a propria volta insensatezze a raffica; imbarazzante, del pari, lo sgomento della McAdams, che in varie scene non sa letteralmente dove guardare, cosa interpretare, come comunicare. Fuori campo si alterna pure la voce del prete suddetto, ovviamente in spagnolo, perché l'intemerata sia universale, mentre ad Affleck è affidata una parte da tubero del set, funzionale ad esemplificare il concetto di amore, di rapporto, di gelosia, e via categorizzando.

Poteva essere un videoclip sull'inquietudine, una riflessione sull'angoscia, perfino – benché fuori tempo massimo – un'assenza all'Antonioni. Non è niente, se non il fallitissimo tentativo di fare narrazione per immagini, che è tecnica buona, al più, per i documentari, giacché al cinema e non solo la poesia non si contenta del panorama ma lo giustifica con le parole. Malick, invece, non fa che svuotare di significato proprio i campi lunghi che profonde in abbondanza, dilavando la trama in inspiegabili esaltazioni naturalistiche. Non fosse il santone che si era ritirato dal cinema per decadi, che pure il talento visivo l'avrebbe (e ci mancherebbe: ormai non dirige altro), che è stato, appunto, insignito del palmizio di Cannes, si direbbe soltanto che è un regista presuntuoso. Invece, c'è ancora qualcuno che s'interroga sulle sue imprese, non rese certo più intriganti dal contegno salingeriano, che lascia la scena della kermesse alle attrici, costrette a commentare a braccio le sue indecifrabili sceneggiature. Poiché Takeshi Kitano, che ha concorso con "Outrage Beyond", ci ha mortalmente deluso con un film del tutto privo della tradizionale spregiudicatezza visiva, saremmo quasi tentati di dire che la riserva di immagini del Beat se l'è depredata Malick, facendone un uso sacrilego. Ma non metteremo mai sullo stesso piano i due, e non tanto per lo stile, bensì perché uno – Kitano – è un artista, l'altro uno scommettitore.

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