Adesso che la Mostra è
finita, e il Leone d'oro è stato – meritatamente, a nostro avviso
– consegnato a Kim-Ki-Duk, possiamo chiudere il cerchio delle
recensioni, e dire due parole su Terrence Malick. Perché non farlo
prima?, chiederete. Beh, perché il suo ultimo "To the wonder", in
concorso, è un film, al di là di ogni altra considerazione,
mortalmente noioso, a tal punto pretenzioso e sconnesso da indurre a
soprassedere perfino su una stroncatura. Il clima da liquidazione,
tuttavia, consiglia comunque di occuparsene, a patto che si consideri
quanto segue una sorta di review con lo sconto, di quelle che servono
solo a svuotare gli scaffali. Dopotutto, è pur sempre una rubrica di
servizio.
Ordunque, procediamo.
Malick, sia detto per onestà intellettuale, non è esattamente il
nostro regista preferito. Ne conosciamo la cinematografia a spot,
avendo visto soltanto "Badlands" (storia abbacinante, quasi autistica
su un fuorilegge risalente agli anni '70) e "La sottile linea rossa"
(ben più recente, e insopportabilmente colmo di sofisticherie in un
contesto bellico). Non ci ha mai invogliato, temendo obiettivamente
un polpettone, il premiatissimo "The tree of life", né, a maggior
ragione, il succitato "To the wonder", ritenuto da alcuni un seguito
del primo. Ma era in lizza per il Leone, e quindi.
Il film si apre (ma non
si chiuderà mai) su una storia d'amore tra un americano (il
mascelluto Ben Affleck) e una francese (Olga Kurylenko, non
sottilizziamo sulle origini ben più a est dell'attrice), con tanto
di bambina al seguito. Inizialmente a Parigi, la coppia decide di
trasferirsi in America, per agevolare il lavoro di lui (sonda terreni
in cerca d'inquinamento dalle parti dell'Oklahoma). Qui, però, il
clima idilliaco degli esordi si guasta, e lei fugge via con la
figlia, mentre il partner riallaccia – temporaneamente – i
rapporti con una vecchia fiamma locale (Rachel McAdams, scritturata
per una parte sostanzialmente muta). Anche l'Olga di cui sopra avrà
un incontro con un altro uomo, poi ritornerà sui propri passi, però
non sarà più la stessa cosa, e in mezzo a questa vicenda, che non è
esattamente originale, assistiamo ai tormenti di un prete (Javier
Bardem, l'unico credibile), perennemente alla ricerca di Dio come gli altri protagonisti dell'amore, ma destinato ai medesimi insuccessi.
Fin qui la scarna trama,
perché per il resto l'opera è una ripetuta e devastante
interiezione di campi a perdita d'occhio, lame di luce, Kurylenko che
balla e ruota su se stessa, corre in lontananza, e in voce off ci
racconta a mezze frasi della sua felicità irraggiungibile. I
paesaggi si moltiplicano, sommergono, collegati – si fa per dire –
da una veduta iniziale di Mont Saint Michel (dove, dopo solo dieci
minuti, si arriva alla meraviglia del titolo) senza la marea, per
chiudersi con la stessa cartolina con l'acqua in risalita. C'è tempo
per scene bizzarre, al limite della casualità: terrificante la
comparsata, con calata romanesca (!), di Romina Mondello, che
incrocia la Kurylenko in una delle sue tante elucubrazioni e spara a
propria volta insensatezze a raffica; imbarazzante, del pari, lo
sgomento della McAdams, che in varie scene non sa letteralmente dove
guardare, cosa interpretare, come comunicare. Fuori campo
si alterna pure la voce del prete suddetto, ovviamente in spagnolo, perché
l'intemerata sia universale, mentre ad Affleck è affidata una parte
da tubero del set, funzionale ad esemplificare il concetto di amore,
di rapporto, di gelosia, e via categorizzando.
Poteva essere un
videoclip sull'inquietudine, una riflessione sull'angoscia, perfino –
benché fuori tempo massimo – un'assenza all'Antonioni. Non è
niente, se non il fallitissimo tentativo di fare narrazione per
immagini, che è tecnica buona, al più, per i documentari, giacché
al cinema e non solo la poesia non si contenta del panorama ma lo
giustifica con le parole. Malick, invece, non fa che svuotare di
significato proprio i campi lunghi che profonde in abbondanza,
dilavando la trama in inspiegabili esaltazioni naturalistiche. Non
fosse il santone che si era ritirato dal cinema per decadi, che pure
il talento visivo l'avrebbe (e ci mancherebbe: ormai non dirige
altro), che è stato, appunto, insignito del palmizio di Cannes, si
direbbe soltanto che è un regista presuntuoso. Invece, c'è ancora
qualcuno che s'interroga sulle sue imprese, non rese certo più
intriganti dal contegno salingeriano, che lascia la scena della
kermesse alle attrici, costrette a commentare a braccio le sue
indecifrabili sceneggiature. Poiché Takeshi Kitano, che ha concorso
con "Outrage Beyond", ci ha mortalmente deluso con un film del tutto
privo della tradizionale spregiudicatezza visiva, saremmo quasi
tentati di dire che la riserva di immagini del Beat se l'è depredata
Malick, facendone un uso sacrilego. Ma non metteremo mai sullo stesso
piano i due, e non tanto per lo stile, bensì perché uno – Kitano
– è un artista, l'altro uno scommettitore.
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