lunedì 14 settembre 2009

Smile - Prima ti guardo Poi ti sorrido

Consiglio preliminare: non fatevi fuorviare dal manifesto. Della cicatrice-zombie a forma di sorriso che ispira “Smile”, opera prima di Francesco Gasperoni, nuovo epigono degli horror all’amatriciana, non c’è alcuna traccia nel film. Abbondano piuttosto esotismi, maledizioni e grottesco, come si vedeva in certe produzioni italiche degli anni settanta.
Tutto si svolge nel deserto del Marocco, dove una compagnia di sette malcapitati ha improvvisato una vacanza on the road degna dei peggiori esiti. Una di loro, maniaca della fotografia, si è fatta scippare la macchina da una zingara, ed è alla ricerca di un aggeggio sostitutivo. Approda quindi in uno spaccio d’anticaglie, dove scova, tra vasellame e pulviscolo, una vecchia instant camera Polaroid. Il gestore – un Armand Assante in puro prestito di faccia, e nome – gliela svende per 25 euro, ammonendola di trattarla con cura e fotografare i suoi amici. Tutta presa dal mistero (cui contribuisce la solita bimba silenziosa, probabile figlia del padrone) l’acquista, e segue il suggerimento dell’azzimato strozzino.
Qui comincia la maledizione, e il trash. Refrain di genere: chi viene immortalato muore - scusateci l’ossimoro - per mano dell’oggetto presente nella foto. Cambia, peraltro, la location: Marocco permettendo, si sposta subito dalle dune a una boscaglia, dove gli sprovveduti vogliono improvvisare un campeggio, attratti dalla fama animistica del luogo (Lonely Planet dixit, almeno secondo lo sceneggiatore). Persi immancabilmente tra le fronde, cercano un aiuto da un iracondo cacciatore autoctono, che, notato l’accessorio, li avverte terrorizzato della maledizione che incombe su di loro: non scattate, per carità.
Nessuno, ovviamente, gli dà retta. Anzi, gli stolti hanno già fatto fuori, senza saperlo, una compagna di viaggio, la prima ad essere fotografata, e stranamente scomparsa dalla sera precedente l’escursione: tutti pensano sia tornata a casa, ma nessuno – beata innocenza – se ne accerta prima di ripartire. Noi, in realtà, sappiamo essere stata trafitta da un missile portatile (ritratto con lei su una parete) al momento del ritorno in albergo.
Il resto è mero canovaccio. Muoiono prima il cacciatore, poi tutti gli amici, tranne uno (quello preferito), della protagonista. Oggetti killer, a seconda del contesto fotografico: corna di cervo, fulmine (o forse autocombustione, non è chiaro: di certo la foto è venuta male), tronco puntuto, badile, altro missile, ma meno giustificato del primo. I due superstiti, miracolosamente, riescono nel frattempo ad uscire dalla foresta, e incrociano un cimitero – già visto di straforo alcune scene prima – dove scoprono con sorpresa le lapidi del cacciatore e della bimba del negozio. Gente già morta, e da anni, prima del loro arrivo.
Che succede? Presto detto. Ritrovata la jeep, e le tacche della connessione internet, i nostri scoprono che Armand Assante – il proverbiale, il folle – era in realtà un fotografo di cadaveri per i quotidiani, impazzito dopo aver scoperto che l’ultimo dei suoi soggetti era la figlia (certo, la bambina di cui sopra), uccisa barbaramente. Cervellotico il delirio successivo: l’uomo, per sfogare la propria rabbia, aveva ammazzato effettivamente a tema, cacciatore compreso, con lo stesso meccanismo della Polaroid, prima di impiccarsi. Dunque un fantasma, pure lui. E pure tutto il resto, verrebbe da pensare. Ma Gasperoni ha in serbo la sorpresa finale: per nulla interessato dal retroscena, che in effetti è del tutto inutile, deve ancora smaltire due vittime, e lo fa nel modo più pittoresco: mentre la protagonista sta scattando foto in mezzo al deserto per scaricare il malefico attrezzo, eccole passare dinanzi un’auto, che al momento del clic riflette nel finestrino, belle nitide, le sagome di lei e dell’amico. Oh, no. Rombo di motore e titoli di coda.

Note a margine:

- Notevole l’antefatto: un frontale schivato di un soffio dalla jeep del gruppo, con un pullman che successivamente si ribalta. Nello shock generale, la fotografa scende per immortalare il relitto, quando dal veicolo esce claudicante una lutulenta zingara che le strappa la camera, rifilandole come scambio culturale una scimmia insanguinata. In campo lungo qualcuno esclama, insospettabile: “sembra una situazione surreale”. Probabilmente una glossa dello script, non cancellata;
- Eccezionale la sequenza del badile-fantasma, che galleggia malevolo nell’aria, prima di trafiggere la vittima. Mancano i fili, poi siamo all’avanspettacolo;
- Da brividi la regia: dall’inizio alla fine fa uso quasi esclusivo del primo piano, neanche si trattasse di un documentario;
- Visto il tema, come titolo “Cheese” ci sarebbe sembrato più coerente.

LA SCHEDA

Smile

In una frase: “sberle dall’inizio alla fine, recitazione pessima da parte di chiunque”. Anzi, scusate, questa era quella di "G.I. Joe". La frase corretta è: “sto rimpiangendo G.I. Joe”
Sconsigliatissimo: a chiunque continui a preferire Tarantino a Mario Bava, nonostante le dichiarate parentele artistiche.
Giudizio: KKKk