lunedì 13 aprile 2009

Duplicity

A suo modo è interessante. Interessante in quanto si tratta di un film en travesti. Dal titolo, intuivamo il solito thriller ben confezionato con storia d’amore annessa, e attori abbastanza popolari da esaltare la sceneggiatura. In realtà, si tratta semplicemente di una finta spy-story, nascosta dietro i sorrisi da copertina di Clive Owen e Julia Roberts (molto in forma, va detto), che vorrebbe giocherellare coi cliché, e lascia in dono il solito pugno di mosche.
Tanto per cominciare, è noioso. Inseguimenti al rallentatore, dialoghi sfiancanti, personaggi che convincono solo per via delle facce, non delle parole. Col genere, una volta, si raccontava e basta, senza preoccuparsi della psicologia dei protagonisti. Adesso, invece, si preferisce ripiegare la trama su se stessa, traendone le conseguenze esistenziali, neanche si trattasse di un dramma da camera. Così, ecco che, pure in un contesto scanzonato, la storia non è soltanto quella di due ex agenti segreti implicati nello spionaggio industriale, all’apparente seguito di due aziende nemiche, ma di due persone che vorrebbero innamorarsi l’una dell’altra senza fidarsi troppo del partner.
Lo scenario non è esattamente nuovo, e non è mancato chi, anche in tempi recenti (come il dolente Bob De Niro di "The good shepherd") ha meditato sull’assurdità dei cosiddetti “servizi segreti”: chi sta con chi, chi scopre quando, chi mente meglio, eccetera eccetera. Senza più una causa, se non la stessa abnegazione al lavoro. Stolto balletto, privo di vincitori e vinti, se non, almeno in questo caso, Tom Wilkinson e Paul Giamatti, rispettivamente abile burattinaio e pigmeo ambizioso. Bravi entrambi, e sprecati.
Gliroy, stavolta, non sapeva che pesci pigliare. Se con "Michael Clayton" aveva la barra dritta sul problema del compromesso e dell’idealismo, qui non fa che mescolare le carte con una rimasticatura dell’intrigo. Roberts che frega Owen (in apertura), Owen che frega Roberts (poco dopo), Roberts che flirta con Owen e viceversa, entrambi che flirtano con se stessi, e se ne vantano. Nessuno, pubblico incluso, sa da che parte stia la verità, ma non c’è nulla d’affascinante in questo ghirigoro di bellocci che, ogni dieci minuti, si rivedono, bevono un paio di bicchieri, se la raccontano, non si fidano, fingono di litigare, ne escono, si amano, progettano addirittura una vita insieme contro i propri interessi, confessano d’aver mentito, dillo prima tu, no prima tu, e chiudono con un sorriso consolatorio che sa tanto di presa in giro.
L'intreccio, che dovrebbe essere il vero protagonista e non il pretesto di un continuo chiacchiericcio, riaffiora a tratti, ma è troppo debole per colpire. La sceneggiatura, d’altro canto, non è esattamente quella di "Closer", che aveva gli stessi interpreti ma ben altre idee, e sa molto di terapia di gruppo e poco di divertissement croccante, come forse aspirava ad essere. Regia in prestito (compreso uno stucchevole abuso di split-screen), interpretazione di maniera, manifesto, pure quello, mediocre. Nel complesso, chi si aspettava l’intrigo è rimasto deluso, chi l’ironia l’ha vista evaporata, chi gli attori forse soddisfatto, ma per quello bastava qualche pubblicità di profumi.
LA SCHEDA
Duplicity
In una frase: “se ti dicessi che ti amo, farebbe differenza?”
Sconsigliatissimo: a chiunque preferisca il cinema ai cubi di Rubik portatili.Giudizio: KKKk