martedì 11 settembre 2012

Parliamone Malick - Post recensione a To the wonder

Adesso che la Mostra è finita, e il Leone d'oro è stato – meritatamente, a nostro avviso – consegnato a Kim-Ki-Duk, possiamo chiudere il cerchio delle recensioni, e dire due parole su Terrence Malick. Perché non farlo prima?, chiederete. Beh, perché il suo ultimo "To the wonder", in concorso, è un film, al di là di ogni altra considerazione, mortalmente noioso, a tal punto pretenzioso e sconnesso da indurre a soprassedere perfino su una stroncatura. Il clima da liquidazione, tuttavia, consiglia comunque di occuparsene, a patto che si consideri quanto segue una sorta di review con lo sconto, di quelle che servono solo a svuotare gli scaffali. Dopotutto, è pur sempre una rubrica di servizio.

Ordunque, procediamo. Malick, sia detto per onestà intellettuale, non è esattamente il nostro regista preferito. Ne conosciamo la cinematografia a spot, avendo visto soltanto "Badlands" (storia abbacinante, quasi autistica su un fuorilegge risalente agli anni '70) e "La sottile linea rossa" (ben più recente, e insopportabilmente colmo di sofisticherie in un contesto bellico). Non ci ha mai invogliato, temendo obiettivamente un polpettone, il premiatissimo "The tree of life", né, a maggior ragione, il succitato "To the wonder", ritenuto da alcuni un seguito del primo. Ma era in lizza per il Leone, e quindi.

Il film si apre (ma non si chiuderà mai) su una storia d'amore tra un americano (il mascelluto Ben Affleck) e una francese (Olga Kurylenko, non sottilizziamo sulle origini ben più a est dell'attrice), con tanto di bambina al seguito. Inizialmente a Parigi, la coppia decide di trasferirsi in America, per agevolare il lavoro di lui (sonda terreni in cerca d'inquinamento dalle parti dell'Oklahoma). Qui, però, il clima idilliaco degli esordi si guasta, e lei fugge via con la figlia, mentre il partner riallaccia – temporaneamente – i rapporti con una vecchia fiamma locale (Rachel McAdams, scritturata per una parte sostanzialmente muta). Anche l'Olga di cui sopra avrà un incontro con un altro uomo, poi ritornerà sui propri passi, però non sarà più la stessa cosa, e in mezzo a questa vicenda, che non è esattamente originale, assistiamo ai tormenti di un prete (Javier Bardem, l'unico credibile), perennemente alla ricerca di Dio come gli altri protagonisti dell'amore, ma destinato ai medesimi insuccessi.

Fin qui la scarna trama, perché per il resto l'opera è una ripetuta e devastante interiezione di campi a perdita d'occhio, lame di luce, Kurylenko che balla e ruota su se stessa, corre in lontananza, e in voce off ci racconta a mezze frasi della sua felicità irraggiungibile. I paesaggi si moltiplicano, sommergono, collegati – si fa per dire – da una veduta iniziale di Mont Saint Michel (dove, dopo solo dieci minuti, si arriva alla meraviglia del titolo) senza la marea, per chiudersi con la stessa cartolina con l'acqua in risalita. C'è tempo per scene bizzarre, al limite della casualità: terrificante la comparsata, con calata romanesca (!), di Romina Mondello, che incrocia la Kurylenko in una delle sue tante elucubrazioni e spara a propria volta insensatezze a raffica; imbarazzante, del pari, lo sgomento della McAdams, che in varie scene non sa letteralmente dove guardare, cosa interpretare, come comunicare. Fuori campo si alterna pure la voce del prete suddetto, ovviamente in spagnolo, perché l'intemerata sia universale, mentre ad Affleck è affidata una parte da tubero del set, funzionale ad esemplificare il concetto di amore, di rapporto, di gelosia, e via categorizzando.

Poteva essere un videoclip sull'inquietudine, una riflessione sull'angoscia, perfino – benché fuori tempo massimo – un'assenza all'Antonioni. Non è niente, se non il fallitissimo tentativo di fare narrazione per immagini, che è tecnica buona, al più, per i documentari, giacché al cinema e non solo la poesia non si contenta del panorama ma lo giustifica con le parole. Malick, invece, non fa che svuotare di significato proprio i campi lunghi che profonde in abbondanza, dilavando la trama in inspiegabili esaltazioni naturalistiche. Non fosse il santone che si era ritirato dal cinema per decadi, che pure il talento visivo l'avrebbe (e ci mancherebbe: ormai non dirige altro), che è stato, appunto, insignito del palmizio di Cannes, si direbbe soltanto che è un regista presuntuoso. Invece, c'è ancora qualcuno che s'interroga sulle sue imprese, non rese certo più intriganti dal contegno salingeriano, che lascia la scena della kermesse alle attrici, costrette a commentare a braccio le sue indecifrabili sceneggiature. Poiché Takeshi Kitano, che ha concorso con "Outrage Beyond", ci ha mortalmente deluso con un film del tutto privo della tradizionale spregiudicatezza visiva, saremmo quasi tentati di dire che la riserva di immagini del Beat se l'è depredata Malick, facendone un uso sacrilego. Ma non metteremo mai sullo stesso piano i due, e non tanto per lo stile, bensì perché uno – Kitano – è un artista, l'altro uno scommettitore.

lunedì 10 settembre 2012

PASSION (OF CHI?) - BRIAN DePANZA E LA NON-ARTE DI RICICLARE

Prima impressione: DePalma cammina male, incerto, quasi zoppica. Il suo film non procede meglio. La prima, in sé, non è una colpa, chiaramente (piuttoto forse conseguenza di un tremendo ingrassamento – peraltro, non ben celato dal guardaroba). La seconda direi che lo sia, e meriti d'essere denunciata.

Senza troppo dilungarci (mento, sia chiaro), mettiamola così: ci son due donne in carriera, circa colleghe ma una sottoposta dell'altra. Lavorano assieme ad alto livello in una multinazionale di marketing, sede europea (forse), e progettano pubblicità di telefonini fichi. Che poi forse c'è pure della tensione sexy, ma anche no, è tutto un gioco di quella cattiva, quell'altra buonina e timida scappa persino via quando arriva il moroso della prima. E quella, la prima, che poi è la capa, si frega le idee dell'altra che le condivide in buona volontà e con passione da lavoratrice indefessa (dev'essere tedesca, giusto? Ma anche no, dato che a domanda “da dove vieni?” non risponde: mah). Si frega le idee, proprio, la stronza. Solo che l'altra, la buona, la sottoposta onesta, nel frattempo si scopa il fidanzato della capa in trasferta a Londra, con tanto di filmino con lo smartfono – e allora, come la mettiamo? La mettiamo in un'escalation di tensioni, ripicche, tentativi di avvicinamento e seduzione. E nel mezzo il moroso (un barbudo forse tedesco, tale Dirk, però con accento a tratti oxfordiano – con fedina penale non proprio immacolata e tendenza ragguardevole all'alcolismo) e la segretaria della seconda, cioé la sottoposta, cioé la buona – forse. Che è iperefficiente e lavoratrice e fedele e scopre gli inghippi della capa (o del moroso? Che poi sarebbe l'amante della seconda, o forse era tutto un complotto della prima?) coi soldi, e scopre i lavori fatti male dai colleghi di Niuiòrk, e convince la sua, di capa (cioé la sottoposta, la seconda) a fare una cosa un po' scorretta ma tanto, già che l'aveva presa nel didietro prima, oramai è legittimata. Anche secondo voi seduti in platea (e non esattamente annoiati, a questo punto, però perplessi un po' lo siete), sì, è legittimata a restituire la porcata. Ma non tutti son d'accordo, anzi non tutte, anzi la capa s'incazza (beh, pure lei ci ha i suoi motivi, a ben vedere) e medita anzi agisce vendetta – ed in fretta. In troppa fretta? Mah. Pare che riesca, pare anche troppo a dire il vero. Nel senso che dopo un'ora banalotta ma non poi orribile (con qualche inquadratura buona e qualche bel movimento di macchina – eggrazie, direte voi; epprego, diciamo noi) sembra di stare su dei binari tremendamente convenzionali; poi, forzato, arriva il cambiamento, lo spiazzamento: per un quarto d'ora (forse più) ci si trova a vedere tutto buio ed inquadrato in modo sbilenco, una realtà filtrata dalla luce delle tapparelle, dagli incubi, insomma un prontuario di trucchi da B-movie per far precipitare la protagonista nella paranoia, nell'allucinazione, nel delirio.
Dunque ha vinto quell'altra, la “nostra” è sbarellata, è impillolata, è destinata alla sconfitta? Pare di sì, anche se poi si suggerisce l'indizio contrario (più o meno con la raffinatezza e la comunicazione indiretta con cui in tangenziale ti dicono “amore, vuoi fare sesso?”), e poi ancora si ritorna allo split screen (caro vecchio amico, quanto tempo! dove sei stato?) per dare gli alibi e incasinare le prospettive e farvi vedere una bella donna seminuda (che non fa mai male) e poi sgozzata (ahi!) e soprattutto per costringervi a 5 minuti di balletto in primo piano, che non ci andate mai, ignorantoni! Si sveglia la sopravvissuta in crisi di sudore (tantissimo, madonna quanto traspira questa) e respirazione e panico, ed ancora non ha visto il meglio della giornata: è mezzogiorno e ha gli sbirri (tedeschi, poi) alla porta che la vogliono portare al gabbio nientemeno che per l'omicidio dell'amica. Hai detto niente. Solo che lei, l'arrestata, è sballata parecchio, e non ce la fa a rispondere, a razionalizzare, a dire il vero nemmanco a tenere dritto lo sguardo (e la telecamera fa venire il mal di male pure a noi: adesso smettiamola, Brian, grazie). E finisce per confessare, perché “devo averlo fatto io” (devo?), e va in galera, perché sì (mica ve lo devo spiegare) – ed intanto le inquadrature sono diagonalissime, e l'illuminazione scarseggia - epperò i conti non tornano bene, e la giustizia in Germania è una cosa seria (altro che da noi), e gli investigatori investigano, gli ispettori ispettorano, le amiche cercano di salvarla (ok, l'amica, una sola). E ci riescono, e va tutto bene, e pare sia finita e forse sapete chi è stato o forse no. Varrebbe la pena chiuderla qui e dire che non si è fatto 'sto granché, ma almeno per oggi non ci tirano i pomidoro. Epperò Brian ha ambizioni della stessa taglia della propria epa, ed insiste, vuole aggiungere altri 10, 15 minuti: atti a sbrogliare tutto, a svelare l'inganno, a mostrartelo pure filmato tramite smartfono (eddaje) e poi uploadato su altro fonino a poco prezzo, usa e getta, sinistramente simile ad un Nokia per dirla tutta. E svelato appunto l'inganno si sfalda la cosa, ma proprio del tutto, ma proprio male: perché chi lo svela ha coperto il culo a chi l'aveva intessuto, ed in cambio ne vuole amore amore bello amore passion-ale – e fosse tutto qui – però mica ci son solo loro, c'è l'altro incomodo, che ne va di mezzo e mi sa pure al gabbio per la vita (cazzi suoi, a guidare ubriachi si finisce male, campagna pubblicità progresso pagata dal ministero). E ci sarebbe la gemella dell'uccisa – ma non era una balla raccontata per ispirare pietà, com-passion-e e debolezza? Forse, boh. E poi c'è l'ispettore sfigato (e mica tanto sveglio, se posso dire, rispettosamente) che ha un debole per la non-colpevole che poi è colpevole (lo è? Dice di sì), e la vuole andare a trovare di notte a casa sua con due dozzine di rose rosse (mai sentito parlare di stalking, ispettore?). E allora patatrac!, la cattiva (ma è cattiva? Cioé, era cattiva? O è/era buona? Vai a sapere!) vede l'occasione, anzi la sente, la sente squillante come non mai – e prova a fare il duplice colpaccio. Finisce per strangolare l'amante, mentre la gemella della vittima l'attende alla porta per strangolare lei, e l'ispettore (che nel frattempo ha lasciato le rose sull'uscio, però con un biglietto nel caso si volesse sapere chi denunciare) riceve il filmato compromettente. Insomma tutte morte, tutte colpevoli. O forse era un sogno, ma qualcuna è morta lo stesso.

Viene propagandato un thriller erotico con protagoniste due belle e brave attrici, canonicamente accoppiate come bionda (McAdams) e mora (Rapace) – Antonio Ricci ha fatto scuola. Di erotico c'è assai poco (il nudo ed i gemiti son quasi tutti già nel trailer, per dire), nonostante l'impegno profuso da Rachel nel farsi credere una spietata cagna da mondo degli affari – riuscita parziale. La performance di Noomi va meglio, non fosse che il personaggio è proprio poco credibile.
Vi sto annoiando per bene? Ottimo. Il film, infatti, non tratta meglio i suoi spettatori. Ma, a dire il vero, per un'oretta ero pure incline ad una scarsa sufficienza, non priva di simpatia per un regista dal grande passato o di apprezzamento per la scelta delle interpreti. Perché pareva un Basic Instinct moscio (in tutti i sensi, sì), con meno coraggio e sesso esibito, con meno tensione – molta molta meno. La mezz'ora seguente fa venire il mal di mare per l'impatto visivo, e tanta nostalgia per gli anni '80 a causa della sceneggiatura e di alcune scelte stilistiche – almeno all'epoca erano novità. Gli ultimi 10 minuti sono indegni persino di certa televisione a basso budget. 5 minuti di applausi conclusivi in Sala Grande, tutti a dire sottovoce “che porcata”. Non te la prendere, Brian, la Passion-e se la fingi tu la possiamo fingere pure noi – a 50 euro al biglietto, poi, figurarsi.

venerdì 7 settembre 2012

Sinapupunan - Film in concorso (?)

"E adesso come facciamo? Usiamo i remi?"
"Credo di sì"
"Come stai?"
"Sono un po' stanco"
"Non abbiamo pescato nulla"
Come volevasi recensire (almeno da parte nostra, l'autore del preview si è pavidamente ritirato, addirittura plaudendo a fine proiezione), "Sinapupunan" non delude le attese. Trattasi infatti di onesto documentario su usi e costumi filippini, con profluvio di scenari palafitticoli, paglia bollita, piedi nudi, pesca in alto mare e matrimoni colorati, accompagnati da un discreto melting pot linguistico (sentiamo parlare spagnolo e inglese, oltre ai vocalizzi autoctoni) e religioso (tra i tetti in lamiera, spuntano rudimentali chiese e moschee). In mezzo, ci sarebbe anche una storia: una donna che, per dare un figlio al proprio marito, non potendo riuscirci per vie naturali, accetta che questi sposi un'indigena (è ammessa la poligamia) al solo scopo di concepirne uno. L'unico problema è che la dote costa, e servono espedienti d'ogni sorta per rimpinguare lo scarno patrimonio e raggranellare i pesos necessari. Nel frattempo, la quotidianità dello scenografico villaggio anfibio è tutt'altro che garantita: durante una battuta di pesca, il protagonista finisce, suo malgrado, nel bel mezzo di una sparatoria tra pirati (venendo colpito e poi curato con foglione officinale), e a intervalli irregolari torme di militari irrompono, per motivi sconosciuti, nel precario mercatino del paese, ribaltando banchetti e sporte colme di prodotti tipici (la manioca va alla grande). Thy Womb, il titolo, rimanda al ventre da cui tutto parte (il film si apre con un primo piano vaginale su un parto cefalico) e a cui tutto ritorna (nella scena conclusiva la protagonista, una levatrice, porge il neonato alla ragazza sposata ad hoc dal marito). C'è tuttavia - spoiler - un triste retroscena: per clausola matrimoniale, taciuta alla prima moglie, l'uomo dovrà abbandonarla per accasarsi con la giovane madre del figlio. Il conflitto seguente è solo immaginato, suggerito da un malinconico volo di gabbiani. La storia, comunque, non dura più di un quarto d'ora: il resto è un pregevole corso accelerato di etnologia che ricorda, per sguardo e andamento, i vecchi film di Flaherty. E' piaciuto ai più - pare - per i suoi esotismi assortiti, e in effetti come Lonely Planet è efficace. Sarebbe però interessante capire cosa ci facesse in concorso.

LA CINQUIEME SAISON – UNA STRUZZATA BELGA (FIAMMINGA)

Non avendo parlato del film filippino (per ragioni di onestà: non l'ho odiato tanto), potreste pensare che io voglia infamare questa produzione fiamminga per motivi di mero interesse, insomma per un tornaconto personale. Bravi! Mi conoscete, dunque! Epperò nella fattispecie anche d'altro si tratta: il film è una grossa grossa presa per i fondelli, e ci tengo a mettervi in guardia. S'inizia con un tale a tavola di fronte ad un gallo – vivo, pennuto e non immobilizzato. Il tizio sorseggia caffé, fumante, e produce dei versi atti a far cantare l'uccelletto. Il quale a sua volta produce sulla tovaglia del guano, parimenti fumante, e si guarda bene dal vocalizzare. Orsù, partiamo, dunque – e statemi dietro.

La cosa in questione è il prodotto di tal Peter Brosens (già segnalatosi come paraculo di livello agonistico narrandoci, nei ruggenti anni '90, le ultime ore di vita o forse gli ultimi istanti di un cane, ed il suo trapasso nell'aldilà, in soggettiva – facile previsione, capite, che tuttora sia avvezzo allo spaccio di fave) e si presenta come la chiusura odierna della giornata al Lido. Il tema, pare possibile decifrare dai vaghi accenni sui pamphlet locali, è quello di una comunità nelle Fiandre (ok, ok, abbiamo capito) che si trova a testimoniare un finomino inesplicabile: il normale scorrere delle stagioni, per meglio dire il ciclo di morte e rinascita che la Natura affronta ogni anno, s'è d'improvviso interrotto un inverno, e nulla pare tornare alla normalità. Vedete già che, in calce al docu-film filippino di due ore sulla nutrice che non può avere figli, costituisce doppietta di peso specifico notevole. Nondimeno ci rechiamo in sala, forti del supporto dei lettori e di qualche birretta extra. E testimoniamo l'evento: un grosso clisterone (a base intellettualoide) come se ne son sperimentati raramente. Sintetizzerò le mie sensazioni citando (a memoria, metto le mani avanti) l'immortale Jack Nicholson di Qualcosa è cambiato “coloro che si esprimono tramite metafore debbono farmi uno sciampo allo scroto”. Ecco, qualcosa del genere ha attraversato a più riprese la mia mente, rivolta al Brosio del nord. Un'ora e mezza di film (deo gratias deve aver terminato i fondi anzitempo) non contengono altro che una gigantesca metafora, o allusione, o parafrasi – insomma non succede una mazza, a dire il vero, e soprattutto non si capisce perché si dicano, vedano, vivano certe cose. Quasi tutte le cose rappresentate, a ben vedere. L'elenco, potenzialmente, è assai lungo. Chiaramente non si possono perdonare le smisurate ambizioni mal messe in scena (se non stai allo stesso livello di Ingmar Bergman le elucubrazioni filosofiche sull'infinito le lasci anche sul diario di quando eri ragazzino, grazie), né si può convincersi che aver visto (parte de) la filmografia di Kubrick & Co. (citati a piene mani e senza ritegno) e saperne replicare un paio di inquadrature trasformi automaticamente in un regista “vero”. Tutt'altro, è ovvio. E però qui nessuno l'ha fatto presente, desumiamo, e le due tre inquadrature che varrebbe la pena tenere vengono immediatamente abusate, spogliate. Rimane la storia, poca e mal venduta: in un paesiello fiammingo ci si accinge a bruciare “la vecchia” per scacciare ritualmente l'inverno. Si affida, improvvidamente, il compito ad un neo 18enne guardacaso poco sensibile verso le sofferenze di un quasi coetaneo costretto in sedia a rotelle. Per motivi sovrannaturali non si accende la pira, non bruciano le effigi mostruose dell'inverno, non s'innesca (si è tentati di credere ad un nesso causale, noi poveri logico-pensanti spettatori che ci aspetteremmo una storia, una narrazione, perlomeno un qualche cosa da dire) il meccanismo di rinascita e rinnovamento delle stagioni. Di lì in poi è una strage, a base di api che non tornano ad impollinare, mucche che non offrono latte, terra gravida di semi che non germogliano, e via dicendo. Una stagione morta nel senso totale, eppure la vita umana prosegue – senza ben chiarire se la cosa sia localizzata o coinvolga tutto il Belgio, tutto il mondo magari (abbondano i segnali equivoci in tal senso); l'escalation è inevitabile e rapida. Secondo la scansione imposta dalle canoniche 4 stagioni (sublimate nell'innaturale quinta in cui ci si trova, nostro malgrado, intrappolati), dapprima si perdono raccolti ed allevamenti (le bestie vengono infine asportate dai militari), poi ci si impoverisce regredendo a stili di vita semiselvaggi. Infine si scende nel caos. L'amorevole padrone che, in apertura di film, incitava il gallo a tirar fuori la voce (per una specie di gara canora tra gallinacei, ci vien dato intendere nel seguito: per inciso, l'inquadratura nella quale il pollo abbassa il capo umiliato dalla propria afonia è antologica, in senso comico), finisce al termine della terza stagione per decapitare con colpo d'ascia la bestia, ed ammirarne le morte membra sul tavolo di cucina, in silenzio. Conclude mettendosi una maschera, tipo Bauta veneziana – la citazione Kubrickiana sfonda gli argini, il film finisce definitivamente rubricato come esercizio di meretricio. L'ultima stagione è di violenza inusitata in ogni senso: quello che vi deve preoccupare è l'aggressione perpetrata allo spettatore (senziente, perlomeno). Si sparano di quelle grosse, e non ci si risparmia nulla. Il fulcro sarebbero gli abitanti del villaggio che, trasformati dalla disperazione in un ku klux klan fai-da-te, indossano tutti il mascherone nasuto d'ordinanza (le han fatte, operosi nordici, per l'occasione - oppure le avevano sempre tenute in cantina che non si sa mai?) e si gettano alla ricerca del padre (filosofo sedicente, per giunta) del ragazzo invalido di cui sopra, onde metterlo letteralmente al rogo (in vece dei pupazzi raffiguranti l'inverno, chiaramente inefficaci). Fallito un primo tentativo essi persistono, salvo nulla ottenere (a parte il filosofo fatto alla brace nella propria stessa roulotte, beninteso): ma intanto la lezione di umanità è passata. In sottofondo, la ragazza canonicamente positiva ed innocente nella propria esplosiva sessualità che è tassa da pagare in ogni produzione francofona (qui con il massimo topos fenotipico transalpino: gli occhi da rana) è mutata, nell'arco di sei mesi, in una battona tisica che si vende a tutti in cambio di zucchero e shampoo di sottomarca (e meno male che il ragazzetto buono, di lei innamorato, fa di tutto per proteggerla). Gli adulti si sono rincoglioniti dalla disperazione, compiono atti insani di diversa matrice senza combinare alcunché. Il bimbo bravo non trova di meglio che accollarsi, letteramente, il paraplegico e scomparire all'orizzonte tra neve e ghiacciate imminenti. Non s'hanno segni di rinascita, la prostituta junior viene impiccata a testa in giù, solo uno (un paio, via) dei paesani è stato tanto astuto da tentare di migrare. Se non fosse abbastanza, tacerei comunque degli interminabili silenzi, delle inquadrature sbieche, del simbolismo andato a male. Giammai potrei omettere, però, il finale: dopo aver inquadrato il destino dei protagonisti, la macchina da presa si fa nera per un istante, salvo poi mostrarci un branco di struzzi che invade un giardino del paese. Profondità mica da ridere. Chissà chi pulisce il guano, però.

In conclusione: che ti succede, Pietro Bros? Non ti piace il Belgio, non ti piace vivere in Belgio, non ti piace vivere e basta? Mi dispiace, lo dico sinceramente. Però sono fattacci tuoi. Perché devi venire a sfrantoiare me? Hai fatto un film abbastanza stupido, e passi. Un film brutto, perché ti è sfuggito di mano, e si può pur dire che non sia l'unico alla mostra, anche se comunque ciò non ti assolve. Un'opera sfacciatamente, intollerabilmente ambiziosa senza averne mezzi o diritto, e già sei da condannare. Soprattutto, hai fatto un film cattivo, e non va bene per nulla.

PS: non vi preoccupate, fedeli lettori. Del film filippino vi sparlerà Egon, che in questi giorni ha taciuto e deve sfogare per bene la malvagità che cova.

giovedì 6 settembre 2012

P-REVIEW (RECENSIONE PREVENTIVA): SINAPUPUNAN – THY WOMB

(Avvertenza: non significa "il Vombato", cari lettori zoofili, bensì "il Ventre", tipo nell'Ave Maria)

Stasera, Palabiennale ore 20:00, inizia una double epocale. Si chiuderanno le fatiche con La Quinta Stagione, di un non ancora ben noto paraculo belga a nome Brosens (sinistre assonanze con altrettanto sinistri personaggi di un quasi recente passato televisivo italico), ma è l'esordio, la prima serata a promettere faville: Sinapupunan. Che? Pupunanny? No, Sinapupunan. Sì, ok, ma: che? Eh, lo so. Sinapupunan. Dice che la protagonista sia la stella del cinema filippino. Tanto dovrebbe bastare, ed infatti ci è partita la salivazione preventiva e ci siamo fiondati in biglietteria: stranamente, non v'era il tutto esaurito, e così ci siamo procurati buoni posti a sedere. Essendo dei professionisti esemplari, apriamo un file (un fascicolo, direi) a tema con 3 ore di anticipo sulla proiezione. Bella forza, direte, si scrive da sola 'sta cosa – poca voglia di lavorare avete. Vero, chiaramente. Eppure facciamo professione e sforzo d'onestà, e promettiamo di riportare sinceramente le nostre impressioni. Nel caso sia bella, la sinappuppunata, lo diremo così, chiaro e tondo in facci a tutti. Ma, in confidenza, vi aspettiamo per una nuova recensione nel nostro stile, tra qualche ora.

O GEBO E A SOMBRA – UN VECCHIO E UN'OMBRA DE VIN BON (MAGARI)

Manoel de Oliveira ha 104 anni, e notoriamente è il più antico (vecchio non rende, ne converrete) regista al mondo. Ha diretto uno sproposito di film e documentari, nelle pause ha figliato quattro volte, è stato insignito di innumerevoli onoreficenze tra cui una Palma d'Oro e due Leoni (sempre d'Oro) alla carriera – sul serio, premiato doppiamente alla carriera nello stesso festival. Le virtù di sopravvivenza vanno riconosciute, anche su questo possiamo tutti esser d'accordo. Sventuratamente non pago di tanto successo, il buon vecchio Manuelo insiste, e produce ancora cinema. Peggio di lui siamo noi, che paghiamo il biglietto (relativamente caro) e ci addentriamo in Sala Grande per vederne l'ultima produzione: O Gebo e a Sombra (per i poliglotti lettori non diamo traduzione, ci limitiamo a dire che Gebo è il nome proprio di un protagonista consunto quasi come il regista, ed interpretato con notevole mancanza di mobilità da Michael Lonsdale, al secolo – scorso – il volto dell'abate ne Il Nome della Rosa). Un'ora e mezza di pièce teatrale sbattuta su schermo senza nemmeno un abbozzo di adattamento, modifica o qualsivoglia revisione. La cinepresa non si muove, e basta (va bene la vecchiaia del Manuelo, però via un aiuto regista lo si poteva prendere allo scopo!). Ci sono tre inquadrature, forse quattro contando un paio di scene “di raccordo”, dalle quali i quattro attori principali e due o tre altri rompipalle entrano ed escono a (scarso) piacimento. Un action, insomma. Il ritmo è dettato, dunque, dai dialoghi. Eccone un campione:

Gebo (vetusto protagonista con taglio di capelli tipo Jefferson Airplane, tendenza alla gobba e culo incastrato sulla sedia): “Ah, il nostro dovere è vivere in povertà. Dobbiamo tutti fare il nostro dovere. 7 più 8 15, riporto l'1 [fa il cassiere e passa i giorni sommando introiti altrui, NdRay]”
Sofia (di lui figlia adottiva, data in sposa al delinquente figlio naturale [giuro, NdR], rimasta in casa facente funzioni di vedova) “Ma un'altra vita non è possibile, padre? Forse è nostro dovere essere infelici? E fuori piove”
Gebo “No, possiamo solo vivere la nostra vita, e non parliamo di certe cose, fa freddo ma forse farà caldo. E poi la senti? Piange. 7 più 6 15, anzi no 13 più 8 21, riporto il 2”
Sofia “Sì, lei piange sempre. [lei che piange è la Cardinale, nella parte della moglie di Gebo, arteriosclerotica terminale e parecchio spaccaballe, NdR] Ma forse dicendole la verità?”
Gebo “No, la verità non la deve sapere mai, di lui non dobbiamo parlare mai, le debbo mentire tutta la vita inventandole balle su balle pur di non darle un grande dolore, già è impazzita ma così la ucciderei. E poi io sono un uomo onesto, anzitutto. 8 più 4 fa dodici, più 10 22, ma la regola del 9 la devo usare? Forse no”

E via di divertimento. Interrompono di quando in quando un paio di vecchi inutili, una beghina che ricama per spasimanti inesistenti ed un sedicente musicista che millanta conquiste di 50 anni prima mimando, malissimo peraltro, di suonare il flauto (fine metafora? Artrite galoppante?). Unico momento concitato quello in cui il rientrante (dopo 8 anni? Dopo 0? dopo 16? è un flashback, un sogno, il futuro? È tutto inutile, a parer nostro, ma non sapremmo bene, forse abbiamo riportato male l'1) figlio naturale decide di essersi infine rotto er ca' di questo andazzo da mortuorio (come dargli torto?) e si dedica all'attività che meglio gli riesce: il furto con scasso, degno figlio di tanto padre integerrimo. Abbandona quindi la famiglia (intesa sia come i genitori sia come la semi-incestuosa partner) dopo aver messo k.o. la moglie ed essersi imbertato una cassa contenente una quantità spropositata di Reais, d'altrui appartenenza. Male ne consegue per i nostri eroi, che ligi al dovere di un'esistenza magrissima si consegnano alla pula; meglio, si consegna il vecchiardo, protagonista di un momento epico proprio nel finale: si alza dalla sedia nonostante il parere contrario della figlia, e praticamente senza aiuto. Con la stessa scioltezza ci alziamo noi, sopravvissuti a malapena alla visione. Se non proibiscono ai portoghesi di produrre altri film in futuro, qui all'età di DeOliveira non ci si arriva di certo.
Rimane l'emozione, quella sì, di esser stati vicini a Claudia Cardinale. Lonsdale, per la cronaca, è stato condotto in sala a passo lento e poi fatto sparire con la complicità delle tenebre prima della fine: non se ne hanno notizie. Mancava Manuelo: tragicamente, pare stia macchinando altri film.

mercoledì 5 settembre 2012

LE LINEE DI WELLINGTON – BEEFING JOHN MALKOVICH

Terrificante mazzata portoghese antinapoleonica, parlata in 4 o 5 lingue (ci siamo stufati di contare), innaffiata di attori più o meno famosi – su tutti il John Malkovich eponimo nella parte di uno scazzato duca di Wellington che, alla fin della fiera, porta a casa le sole glorie di aver associato il proprio nome alla ricetta di un manzo al forno e di aver schiavizzato i lusitani per costruire un muro atto a rispedire al mittente le preponderanti forze francesi – e tesa a sostenere che, beh, la guerra è male, la gente muore, le donne sono suore o puttane, gli uomini stupidi e/o assassini. Ah, e c'è un vago senso di onore, popolo, appartenenza – perlomeno dalle parti di Lisbona. I francesi sono (per la verità si dovrebbe dire che erano, al tempo dell'Imperatore primo, ma insomma fa poca differenza) stupidi gretti e destinati alla sodomia non richiesta, i portoghesi eroici ma paesanotti, gli inglesi se la tirano a vuoto. Storia corale, ma alla fine storia di nessuno. Diverse e non poche scene buffe, non sempre volute – su tutto una discreta tensione sessuale, la voglia di non combattere ed invece dedicarsi ad altro (ok, non solo scopare, magari anche semplicemente coltivare la terra). Spettacolo zero, comunque, e pure poco sangue e merda. Ripassare per le emozioni, per capirsi, e pure per le idee. L'unica linea di Wellington che si noti davvero è quella, persa, del girovita di Malkovich – il quale trova il tempo di preoccuparsi di come un pittore francese (scarso, evidentemente, altrimenti sarebbe in forza all'impeto napoleonico) gli ritragga il naso. Di ben altro dovrebbe esser conscio. Le comparsate di altre ed altri più o meno famosi chiaramente non emendano dei peccati le due ore e mezza di inutilità assortite. Piuttosto fatevi due risate sul cornutone lettore compulsivo e sull'annesso ragazzetto muto (parrebbe), stolido e pure vittima di pestilenza: egli viene dapprima preso letteralmente a pietrate da un venditore ambulante (sciacallo di guerra, ovviamente con un cuore) che poi gli regalerà (sempre tramite lancio sul corpo, beninteso) delle scarpe salvo riprendersele in ospedale – infine pare essere un miracolato sopravvissuto alla bubbonica ed ormai inossidabilmente associato all'ex signorotto, a sua volta terminato privo di moglie (passata alle attenzioni non poi tanto convinte di un soldato), beni, coltivazioni e libri. Forse per sopperire alla carenza di letture, il giovane nella scena finale si agita sullo sfondo come un novello Repetto (riverdersi i video degli anni gloriosi degli 883, per chi fosse di scarsa memoria). Ecco, il consiglio è di non vederlo: soprattutto, non a stomaco vuoto. E per stanotte è tutto, dalla mostra del cine.

PS: dimenticavo il grande interrogativo finale - chi cazzo è Zanaga? S'era intravisto nelle dubbie vesti dell'infermiere menagramo Eusebio all'inizio, s'è capito essere una spia doppiogiochista (padre portoghese madre francese, o viceversa, ma comunque uno stronzo) e come tale viene malamente fucilato sulle linee, d'accordo. Ma, sul serio, Zanaga è un nome che non si era mai sentito prima degli ultimi 5 minuti, almeno tra il pubblico. Tra i partecipanti alla tediosissima guerra, invece, scatena un putiferio. Mah.