venerdì 7 settembre 2012

LA CINQUIEME SAISON – UNA STRUZZATA BELGA (FIAMMINGA)

Non avendo parlato del film filippino (per ragioni di onestà: non l'ho odiato tanto), potreste pensare che io voglia infamare questa produzione fiamminga per motivi di mero interesse, insomma per un tornaconto personale. Bravi! Mi conoscete, dunque! Epperò nella fattispecie anche d'altro si tratta: il film è una grossa grossa presa per i fondelli, e ci tengo a mettervi in guardia. S'inizia con un tale a tavola di fronte ad un gallo – vivo, pennuto e non immobilizzato. Il tizio sorseggia caffé, fumante, e produce dei versi atti a far cantare l'uccelletto. Il quale a sua volta produce sulla tovaglia del guano, parimenti fumante, e si guarda bene dal vocalizzare. Orsù, partiamo, dunque – e statemi dietro.

La cosa in questione è il prodotto di tal Peter Brosens (già segnalatosi come paraculo di livello agonistico narrandoci, nei ruggenti anni '90, le ultime ore di vita o forse gli ultimi istanti di un cane, ed il suo trapasso nell'aldilà, in soggettiva – facile previsione, capite, che tuttora sia avvezzo allo spaccio di fave) e si presenta come la chiusura odierna della giornata al Lido. Il tema, pare possibile decifrare dai vaghi accenni sui pamphlet locali, è quello di una comunità nelle Fiandre (ok, ok, abbiamo capito) che si trova a testimoniare un finomino inesplicabile: il normale scorrere delle stagioni, per meglio dire il ciclo di morte e rinascita che la Natura affronta ogni anno, s'è d'improvviso interrotto un inverno, e nulla pare tornare alla normalità. Vedete già che, in calce al docu-film filippino di due ore sulla nutrice che non può avere figli, costituisce doppietta di peso specifico notevole. Nondimeno ci rechiamo in sala, forti del supporto dei lettori e di qualche birretta extra. E testimoniamo l'evento: un grosso clisterone (a base intellettualoide) come se ne son sperimentati raramente. Sintetizzerò le mie sensazioni citando (a memoria, metto le mani avanti) l'immortale Jack Nicholson di Qualcosa è cambiato “coloro che si esprimono tramite metafore debbono farmi uno sciampo allo scroto”. Ecco, qualcosa del genere ha attraversato a più riprese la mia mente, rivolta al Brosio del nord. Un'ora e mezza di film (deo gratias deve aver terminato i fondi anzitempo) non contengono altro che una gigantesca metafora, o allusione, o parafrasi – insomma non succede una mazza, a dire il vero, e soprattutto non si capisce perché si dicano, vedano, vivano certe cose. Quasi tutte le cose rappresentate, a ben vedere. L'elenco, potenzialmente, è assai lungo. Chiaramente non si possono perdonare le smisurate ambizioni mal messe in scena (se non stai allo stesso livello di Ingmar Bergman le elucubrazioni filosofiche sull'infinito le lasci anche sul diario di quando eri ragazzino, grazie), né si può convincersi che aver visto (parte de) la filmografia di Kubrick & Co. (citati a piene mani e senza ritegno) e saperne replicare un paio di inquadrature trasformi automaticamente in un regista “vero”. Tutt'altro, è ovvio. E però qui nessuno l'ha fatto presente, desumiamo, e le due tre inquadrature che varrebbe la pena tenere vengono immediatamente abusate, spogliate. Rimane la storia, poca e mal venduta: in un paesiello fiammingo ci si accinge a bruciare “la vecchia” per scacciare ritualmente l'inverno. Si affida, improvvidamente, il compito ad un neo 18enne guardacaso poco sensibile verso le sofferenze di un quasi coetaneo costretto in sedia a rotelle. Per motivi sovrannaturali non si accende la pira, non bruciano le effigi mostruose dell'inverno, non s'innesca (si è tentati di credere ad un nesso causale, noi poveri logico-pensanti spettatori che ci aspetteremmo una storia, una narrazione, perlomeno un qualche cosa da dire) il meccanismo di rinascita e rinnovamento delle stagioni. Di lì in poi è una strage, a base di api che non tornano ad impollinare, mucche che non offrono latte, terra gravida di semi che non germogliano, e via dicendo. Una stagione morta nel senso totale, eppure la vita umana prosegue – senza ben chiarire se la cosa sia localizzata o coinvolga tutto il Belgio, tutto il mondo magari (abbondano i segnali equivoci in tal senso); l'escalation è inevitabile e rapida. Secondo la scansione imposta dalle canoniche 4 stagioni (sublimate nell'innaturale quinta in cui ci si trova, nostro malgrado, intrappolati), dapprima si perdono raccolti ed allevamenti (le bestie vengono infine asportate dai militari), poi ci si impoverisce regredendo a stili di vita semiselvaggi. Infine si scende nel caos. L'amorevole padrone che, in apertura di film, incitava il gallo a tirar fuori la voce (per una specie di gara canora tra gallinacei, ci vien dato intendere nel seguito: per inciso, l'inquadratura nella quale il pollo abbassa il capo umiliato dalla propria afonia è antologica, in senso comico), finisce al termine della terza stagione per decapitare con colpo d'ascia la bestia, ed ammirarne le morte membra sul tavolo di cucina, in silenzio. Conclude mettendosi una maschera, tipo Bauta veneziana – la citazione Kubrickiana sfonda gli argini, il film finisce definitivamente rubricato come esercizio di meretricio. L'ultima stagione è di violenza inusitata in ogni senso: quello che vi deve preoccupare è l'aggressione perpetrata allo spettatore (senziente, perlomeno). Si sparano di quelle grosse, e non ci si risparmia nulla. Il fulcro sarebbero gli abitanti del villaggio che, trasformati dalla disperazione in un ku klux klan fai-da-te, indossano tutti il mascherone nasuto d'ordinanza (le han fatte, operosi nordici, per l'occasione - oppure le avevano sempre tenute in cantina che non si sa mai?) e si gettano alla ricerca del padre (filosofo sedicente, per giunta) del ragazzo invalido di cui sopra, onde metterlo letteralmente al rogo (in vece dei pupazzi raffiguranti l'inverno, chiaramente inefficaci). Fallito un primo tentativo essi persistono, salvo nulla ottenere (a parte il filosofo fatto alla brace nella propria stessa roulotte, beninteso): ma intanto la lezione di umanità è passata. In sottofondo, la ragazza canonicamente positiva ed innocente nella propria esplosiva sessualità che è tassa da pagare in ogni produzione francofona (qui con il massimo topos fenotipico transalpino: gli occhi da rana) è mutata, nell'arco di sei mesi, in una battona tisica che si vende a tutti in cambio di zucchero e shampoo di sottomarca (e meno male che il ragazzetto buono, di lei innamorato, fa di tutto per proteggerla). Gli adulti si sono rincoglioniti dalla disperazione, compiono atti insani di diversa matrice senza combinare alcunché. Il bimbo bravo non trova di meglio che accollarsi, letteramente, il paraplegico e scomparire all'orizzonte tra neve e ghiacciate imminenti. Non s'hanno segni di rinascita, la prostituta junior viene impiccata a testa in giù, solo uno (un paio, via) dei paesani è stato tanto astuto da tentare di migrare. Se non fosse abbastanza, tacerei comunque degli interminabili silenzi, delle inquadrature sbieche, del simbolismo andato a male. Giammai potrei omettere, però, il finale: dopo aver inquadrato il destino dei protagonisti, la macchina da presa si fa nera per un istante, salvo poi mostrarci un branco di struzzi che invade un giardino del paese. Profondità mica da ridere. Chissà chi pulisce il guano, però.

In conclusione: che ti succede, Pietro Bros? Non ti piace il Belgio, non ti piace vivere in Belgio, non ti piace vivere e basta? Mi dispiace, lo dico sinceramente. Però sono fattacci tuoi. Perché devi venire a sfrantoiare me? Hai fatto un film abbastanza stupido, e passi. Un film brutto, perché ti è sfuggito di mano, e si può pur dire che non sia l'unico alla mostra, anche se comunque ciò non ti assolve. Un'opera sfacciatamente, intollerabilmente ambiziosa senza averne mezzi o diritto, e già sei da condannare. Soprattutto, hai fatto un film cattivo, e non va bene per nulla.

PS: non vi preoccupate, fedeli lettori. Del film filippino vi sparlerà Egon, che in questi giorni ha taciuto e deve sfogare per bene la malvagità che cova.

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