Non
avendo parlato del film filippino (per ragioni di onestà: non l'ho
odiato tanto), potreste pensare che io voglia infamare questa
produzione fiamminga per motivi di mero interesse, insomma per un
tornaconto personale. Bravi! Mi conoscete, dunque! Epperò nella
fattispecie anche d'altro si tratta: il film è una grossa grossa
presa per i fondelli, e ci tengo a mettervi in guardia. S'inizia con
un tale a tavola di fronte ad un gallo – vivo, pennuto e non
immobilizzato. Il tizio sorseggia caffé, fumante, e produce dei
versi atti a far cantare l'uccelletto. Il quale a sua volta produce
sulla tovaglia del guano, parimenti fumante, e si guarda bene dal
vocalizzare. Orsù, partiamo, dunque – e statemi dietro.
La
cosa in questione è il prodotto di tal Peter Brosens (già
segnalatosi come paraculo di livello agonistico narrandoci, nei
ruggenti anni '90, le ultime ore di vita o forse gli ultimi istanti
di un cane, ed il suo trapasso nell'aldilà, in soggettiva – facile
previsione, capite, che tuttora sia avvezzo allo spaccio di fave) e
si presenta come la chiusura odierna della giornata al Lido. Il tema,
pare possibile decifrare dai vaghi accenni sui pamphlet locali, è
quello di una comunità nelle Fiandre (ok, ok, abbiamo capito) che si
trova a testimoniare un finomino inesplicabile: il normale scorrere
delle stagioni, per meglio dire il ciclo di morte e rinascita che la
Natura affronta ogni anno, s'è d'improvviso interrotto un inverno, e
nulla pare tornare alla normalità. Vedete già che, in calce al
docu-film filippino di due ore sulla nutrice che non può avere
figli, costituisce doppietta di peso specifico notevole. Nondimeno ci
rechiamo in sala, forti del supporto dei lettori e di qualche
birretta extra. E testimoniamo l'evento: un grosso clisterone (a base
intellettualoide) come se ne son sperimentati raramente. Sintetizzerò
le mie sensazioni citando (a memoria, metto le mani avanti)
l'immortale Jack Nicholson di Qualcosa è cambiato “coloro che si
esprimono tramite metafore debbono farmi uno sciampo allo scroto”.
Ecco, qualcosa del genere ha attraversato a più riprese la mia
mente, rivolta al Brosio del nord. Un'ora e mezza di film (deo
gratias deve aver terminato i fondi anzitempo) non contengono altro
che una gigantesca metafora, o allusione, o parafrasi – insomma non
succede una mazza, a dire il vero, e soprattutto non si capisce
perché si dicano, vedano, vivano certe cose. Quasi tutte le cose
rappresentate, a ben vedere. L'elenco, potenzialmente, è assai
lungo. Chiaramente non si possono perdonare le smisurate ambizioni
mal messe in scena (se non stai allo stesso livello di Ingmar Bergman
le elucubrazioni filosofiche sull'infinito le lasci anche sul diario
di quando eri ragazzino, grazie), né si può convincersi che aver
visto (parte de) la filmografia di Kubrick & Co. (citati a piene
mani e senza ritegno) e saperne replicare un paio di inquadrature
trasformi automaticamente in un regista “vero”. Tutt'altro, è
ovvio. E però qui nessuno l'ha fatto presente, desumiamo, e le due tre
inquadrature che varrebbe la pena tenere vengono immediatamente
abusate, spogliate. Rimane la storia, poca e mal venduta: in un
paesiello fiammingo ci si accinge a bruciare “la vecchia” per
scacciare ritualmente l'inverno. Si affida, improvvidamente, il
compito ad un neo 18enne guardacaso poco sensibile verso le
sofferenze di un quasi coetaneo costretto in sedia a rotelle. Per
motivi sovrannaturali non si accende la pira, non bruciano le effigi
mostruose dell'inverno, non s'innesca (si è tentati di credere ad un
nesso causale, noi poveri logico-pensanti spettatori che ci
aspetteremmo una storia, una narrazione, perlomeno un qualche cosa da
dire) il meccanismo di rinascita e rinnovamento delle stagioni. Di lì
in poi è una strage, a base di api che non tornano ad impollinare,
mucche che non offrono latte, terra gravida di semi che non
germogliano, e via dicendo. Una stagione morta nel senso totale,
eppure la vita umana prosegue – senza ben chiarire se la cosa sia
localizzata o coinvolga tutto il Belgio, tutto il mondo magari
(abbondano i segnali equivoci in tal senso); l'escalation è
inevitabile e rapida. Secondo la scansione imposta dalle canoniche 4
stagioni (sublimate nell'innaturale quinta in cui ci si trova, nostro
malgrado, intrappolati), dapprima si perdono raccolti ed allevamenti
(le bestie vengono infine asportate dai militari), poi ci si
impoverisce regredendo a stili di vita semiselvaggi. Infine si scende
nel caos. L'amorevole padrone che, in apertura di film, incitava il gallo a tirar fuori
la voce (per una specie di gara canora tra gallinacei, ci vien dato
intendere nel seguito: per inciso, l'inquadratura nella quale il pollo
abbassa il capo umiliato dalla propria afonia è antologica, in senso
comico), finisce al termine della terza stagione per decapitare con
colpo d'ascia la bestia, ed ammirarne le morte membra sul tavolo di
cucina, in silenzio. Conclude mettendosi una maschera, tipo Bauta
veneziana – la citazione Kubrickiana sfonda gli argini, il film
finisce definitivamente rubricato come esercizio di meretricio.
L'ultima stagione è di violenza inusitata in ogni senso: quello che
vi deve preoccupare è l'aggressione perpetrata allo spettatore
(senziente, perlomeno). Si sparano di quelle grosse, e non ci si
risparmia nulla. Il fulcro sarebbero gli abitanti del villaggio che,
trasformati dalla disperazione in un ku klux klan fai-da-te,
indossano tutti il mascherone nasuto d'ordinanza (le han fatte,
operosi nordici, per l'occasione - oppure le avevano sempre tenute in
cantina che non si sa mai?) e si gettano alla ricerca del padre
(filosofo sedicente, per giunta) del ragazzo invalido di cui sopra,
onde metterlo letteralmente al rogo (in vece dei pupazzi raffiguranti
l'inverno, chiaramente inefficaci). Fallito un primo tentativo essi persistono, salvo nulla ottenere (a parte il filosofo fatto alla
brace nella propria stessa roulotte, beninteso): ma intanto la
lezione di umanità è passata. In sottofondo, la ragazza
canonicamente positiva ed innocente nella propria esplosiva
sessualità che è tassa da pagare in ogni produzione francofona (qui
con il massimo topos fenotipico transalpino: gli occhi da rana) è
mutata, nell'arco di sei mesi, in una battona tisica che si vende a
tutti in cambio di zucchero e shampoo di sottomarca (e meno male che
il ragazzetto buono, di lei innamorato, fa di tutto per proteggerla).
Gli adulti si sono rincoglioniti dalla disperazione, compiono atti
insani di diversa matrice senza combinare alcunché. Il bimbo bravo non trova di meglio che accollarsi, letteramente, il
paraplegico e scomparire all'orizzonte tra neve e ghiacciate
imminenti. Non s'hanno segni di rinascita, la prostituta junior viene
impiccata a testa in giù, solo uno (un paio, via) dei paesani è stato
tanto astuto da tentare di migrare. Se non fosse abbastanza, tacerei
comunque degli interminabili silenzi, delle inquadrature sbieche, del
simbolismo andato a male. Giammai potrei omettere, però, il finale:
dopo aver inquadrato il destino dei protagonisti, la macchina da
presa si fa nera per un istante, salvo poi mostrarci un branco di
struzzi che invade un giardino del paese. Profondità mica da ridere.
Chissà chi pulisce il guano, però.
In
conclusione: che ti succede, Pietro Bros? Non ti piace il Belgio, non
ti piace vivere in Belgio, non ti piace vivere e basta? Mi dispiace,
lo dico sinceramente. Però sono fattacci tuoi. Perché devi venire a
sfrantoiare me? Hai fatto un film abbastanza stupido, e passi. Un
film brutto, perché ti è sfuggito di mano, e si può pur dire che
non sia l'unico alla mostra, anche se comunque ciò non ti assolve.
Un'opera sfacciatamente, intollerabilmente ambiziosa senza averne mezzi o diritto, e già sei da
condannare. Soprattutto, hai fatto un film cattivo, e non va bene per
nulla.
PS: non vi preoccupate, fedeli lettori. Del film filippino vi sparlerà Egon, che in questi giorni ha taciuto e deve sfogare per bene la malvagità che cova.
PS: non vi preoccupate, fedeli lettori. Del film filippino vi sparlerà Egon, che in questi giorni ha taciuto e deve sfogare per bene la malvagità che cova.
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