domenica 27 marzo 2011

Non lasciarmi - Cloniamoci così, senza rancore


È perfettamente normale crescere in un austero college inglese, educati a non valicare mai e poi mai il recinto del cortile. Perfettamente normale trascorrere l’adolescenza in cottage isolati dal mondo, in cui l’unico contatto con la realtà esterna è una sit-com televisiva. E perfettamente normale, infine, morire in sala operatoria, nel pieno della giovinezza, dopo aver donato uno, due, tre organi, a seconda della resistenza. "Non lasciarmi", di Mark Romanek, è un film, almeno per noi occidentali (il romanzo d’origine è del nipponico Kazuo Ishiguro), inconcepibile. Perché in una civiltà che oggi s’interroga in modo lacerante su eutanasia e sperimentazione sugli embrioni, e ha lasciato gli incubi eugenetici al fantasma di Mengele, non è accettabile che in un passato alternativo (il film parte dagli anni sessanta) i progressi (?) della medicina abbiano reso pratica consueta la clonazione umana, al fine di produrre braccia, cuori e tessuti in abbondanza, per curare tumori e sclerosi multiple. Non è accettabile che l’aumento dell’aspettativa di vita media, che nel 1967 – ci avvertono i titoli d’apertura – avrebbe superato i 100 anni, sia contrabbandato con l’allevamento di cavie prive di ascendenza e progenie, ma non dell’ospite indesiderato della coscienza. E non è accettabile, soprattutto, che i suddetti disgraziati accolgano supinamente il loro destino, scandito in macabre fasi (l’ultima delle quali efficacemente definita “completamento”), vagheggiando chi possa essere, nel mondo dei sani, il loro “possibile”, ossia la matrice di cui sono il duplicato, e serbando, quale unico sogno, la leggenda di un rinvio di qualche anno della donazione, nel caso deprecabile di due cloni che si innamorino. Ma tutto il film è costruito su questa rimozione, da cui si rianima solo in alcuni frangenti, come quando l’educatrice sovversiva rivela ai bambini i veri motivi della loro permanenza al college (venendone subito allontanata) o la direttrice dell’istituto (una luciferina Charlotte Rampling) accenna orgogliosa all’“etica della donazione”, suggerendo l’esistenza di scuole ancora più inumane della sua. Ed è obiettivamente intollerabile vedere uno dei protagonisti (l’appositamente intontito Andrew Garfield) urlare al cielo il suo strazio, dopo aver scoperto che il tanto agognato rinvio altro non è che una montatura: forse era il caso di ribellarsi alla vita, non alla sua ultima appendice. Però, il clima dell’operazione è volutamente ispirato alla rassegnazione, perennemente dipinta sul viso di Carey Mulligan, il cui personaggio (di nome Katie H., rimando all’identità scippata), in una sorta di ulteriore perversione, decide di prepararsi alla fine assistendo i donatori in ospedale. Se poi vi chiedete dove stiano i letti di contenzione, dove i campi di concentramento, dove le divise militari, la tragica risposta è che non esistono, perché la condanna che aleggia sulle cavie, similmente a una dinamica kafkiana (ma senza la messa in discussione conseguente), le lascia libere di pensare, muoversi e, teoricamente, fuggire, come in una qualsiasi Inghilterra attuale. E se non si può escludere che un’educazione rigida, un contesto morale deviato e in definitiva la stessa origine dei cloni (Katie H., dopo aver cercato la propria matrice in un giornale porno, a causa delle prime pulsioni sessuali, giunge alla conclusione di provenire dai rifiuti della società) li inducano a morire sin da piccoli, tuttavia pur sempre di esseri umani si tratta, con le loro passioni e il loro spirito di giudizio. Ciò cui non si può rinunciare, anche in un mondo che li considera (senza, ancora una volta, spiegarne il motivo) esseri inanimati, sorprendendosi della loro capacità di disegnare o far di conto. E non basta certo la ballata che dà il titolo al film, "Never let me go" appunto, ascoltata dalla Mulligan in disperata solitudine, a riscattare un dramma livido, dove anche Keira Knightley, clone a sua volta, naufraga in un look trasandato che ne esalta gli spigoli. Forse, ci dice la riflessione finale, anche gli altri esseri umani, al momento di morire, pensano di essere vissuti troppo poco. Forse, ma non al punto di creare un sosia che ci guarda con orrore da una finestra.
LA SCHEDA
Non lasciarmi
In una frase: “Il carretto passava e quell’uomo gridava: rifiuti”
Sconsigliatissimo: a chiunque si sia ribellato. Almeno una volta.
Giudizio: KKKK