venerdì 24 maggio 2013

La Grande Bellezza - Una piccola recensione

Mai avremmo voluto scrivere su questo blog di Paolo Sorrentino. Mai avremmo voluto ammettere che uno dei nostri registi più talentuosi e spregiudicati, l’unico della presente era che sarà ricordato anche al di fuori degli italici confini, è sprofondato nella propria maniera, specchiandosi nell’abilità visiva e tralasciando ogni scrupolo narrativo. Ma già dal titolo “La Grande Bellezza”, sua ultima fatica, evoca presagi minacciosi. Si parla di Roma, sì, scenograficamente (e ben venga, comunque, un autore che ne sfrutti una volta tanto il suo maestoso impatto visivo), ma più in generale della capacità, di ogni essere umano, di cogliere uno sprazzo di immensità fra le strettoie della quotidiana miseria. Tema non nuovo, già indagato programmaticamente in “American Beauty”, ma qui filtrato attraverso una “Dolce vita” di mezzo secolo più tardi, dopo “Cafonal” e il botox, le febbrili appariscenze televisive e il desiderio di dimenare a più non posso il corpo, a riempire la desolazione dello spirito.
Ha 65 anni Jep Gambardella, protagonista della pellicola (interpretato, more solito magistralmente, da Toni Servillo), giornalista di costume noto per un romanzo di successo di 40 anni prima, mai più replicato, e abbastanza ricco da potersi concedere una residenza con sconfinata terrazza vista Colosseo, dove organizza feste notturne a base di discobar e disperazione. Vive da dandy disincantato, senza ambizioni se non quella di eludere la noia, e con la sola compagnia, a casa, di una colf.
Per buona parte delle sue giornate, assai più meridiane che mattutine, non fa che girovagare per le strade della Capitale, a volte per lavoro, più spesso per svago, sfoggiando una combinazione sempre diversa di spezzato, pochette e sigaretta a mezz’asta. Conquista donne, anche senza volerlo. E l’unica che potrebbe complicargli la trama, Ramona (un’ottima Sabrina Ferilli, finalmente recuperata al cinema, col solo rammarico degli zigomi a palle da tennis, eredità dell’epoca-calendario), se ne va a metà dell’opera.
Non gli succede nient’altro, salvo condividere le tristezze altrui: per esempio quella dell’amico Romano, drammaturgo fallito, a cui Carlo Verdone presta faccia e cliché della sua versione più adulta, cioè l’uomo sensibile, insicuro e sconfitto che alla fine si rassegna alle asprezze del mondo; oppure di Viola, madre di un ragazzo problematico che finirà per suicidarsi, impersonata da una credibile Pamela Villoresi. L’unica che sembra salvarsi, nella girandola di ordinari frustrati e infelici che frequenta, è Dadina, la direttrice della rivista per cui lavora (interpretata, per motivi oscuri, da una nana).
In mezzo a questo stiracchiato incedere, Sorrentino piazza le consuete sciabolate di istantanee, carrellate e scherzi di montaggio, qui particolarmente invadenti, vere primattrici, forse vera dissimulata “bellezza” del film. Sono puro estetismo, per dire, la gita di Servillo e Ferilli in un antico palazzo romano, rischiarato dal candelabro di un custode fuori orario (fa molto “Paziente inglese”) o l’insistita, interminabile, sequenza iniziale del party in terrazza. Ed è esagerato il richiamo, in varie forme, alle figure delle suore, un’autentica ossessione, sublimata nel personaggio finale della Santa, una centenaria “sorella” in visita a Roma, che della fede in qualcosa di diverso dall’ordinaria mondanità dovrebbe essere simbolo e sacrificio.
Alla fine, non si tratta di un’opera corale (la solitudine è da sempre una cifra stilistica del regista) ma nemmeno di una biografia, per quanto dolente: piuttosto, ed è la cosa più triste da constatare, di un insieme di luoghi comuni sulla fine del primo amore, sul passaggio del tempo, sull’inesorabile scacco a qualsiasi pretesa di speranza. Il tutto, con l’aggravante di futili riferimenti a certi padri spirituali: passi la citazione dell’introduzione al “Viaggio al termine della notte” di Celine (che tuttavia parlava di guerra, schiavi e pezzenti, non di feste altoborghesi) o il gratuito riferimento a Dostoevskij, ma davvero non si comprende a cosa serva la chiusura di stampo heideggeriano sul chiacchiericcio quotidiano che seppellisce la vera realtà, coi suoi patimenti e spasimi.
A Sorrentino, si sa, basterebbe qualche immagine per dire tutto – ne è esempio lo splendido cortometraggio “La partita lenta” – senza bisogno di cercare ad ogni costo la frase o il personaggio ad effetto, spesso slegati dal contesto. Per questo fa rabbia vedere che, accanto a trovate geniali, come la scelta di far interpretare a Serena Grandi una debordante, sfatta frequentatrice dei ritrovi serali di Jep (una specie di Anita Ekberg al contrario, per restare in tema felliniano), venga totalmente sprecata la risorsa di Roberto Herlitzka, costretto alla macchietta di un inutile prelato che ammorba gli interlocutori con ricette della più varia risma.
Certo ci sono, come sempre, alcuni momenti in grado di ripagare il biglietto: per esempio la strepitosa performance del padre di Ramona, che imperterrito sgrana come ghiaia parole sulla propria, e altrui, decadenza, oppure il ritorno del protagonista a casa del marito della sua prima fidanzata, morta da poco, in cui, fatta conoscenza con la nuova compagna dell'uomo, e con le loro banalissime abitudini serali (televisione e a letto), esclama partecipe: “che belle persone che siete”, in puro stile “Amico di famiglia”. Ma non basta, se tutto il resto non va oltre un vago, benché reiterato, riferimento alla morte. E se non era richiesta la profondità della “Notte” di Antonioni, controcanto lugubre alla “Dolce vita”, quantomeno era lecito aspettarsi maggior coraggio e umanità. Ossia, più semplicemente, il contenuto.

Giudizio: KK