martedì 21 febbraio 2012

Un été brulant - Recensione piena d'entusiasmo

Avvertenza preliminare: questo è un film mancato. Mancato, s’intende, dal suo recensore, che è arrivato in ritardo alla proiezione, ne conserva ricordi vaghissimi (e non proprio entusiasmanti) e non ha nessuna voglia di tappare le falle filologiche con fonti d’accatto.
Perché scriverne, allora? Perché si tratta pur sempre di una rubrica di servizio, dunque non si tace nulla, nemmeno quel poco che resta di un’esperienza trascurabile.

"Un été brulant", opera di uno degli epigoni (?) della Nouvelle vague, Philippe Garrel, è stato presentato in anteprima a critica e pubblico all’ultima Mostra del cinema di Venezia. Non disponendo del fatidico accredito per godercelo in Sala Grande (l’accredito essendo un tesserino magico che consente l’accesso ai palchi più ambiti della kermesse, elargito a chiunque lavori/sia implicato/stringa mani nel mondo del cinema, purché in via ufficiale), ci siamo accontentati della contemporanea visione al Palabiennale, variante popolare che permette di fruire, con unico biglietto, delle due prime della serata. Per capirci, un po’ come assistere al torneo di Wimbledon dalla collinetta dei backpackers, col megaschermo installato fuori dallo stadio.

Nell’occasione, l’impresa in questione ne seguiva un’altra, decisamente più invitante (forse quella di Cronenberg, ma non ci giureremmo), che ci aveva alfine indotto ad accettare il rischio del grindhouse – perché, siamo onesti, chi firmerebbe in bianco per una storia che ha come interprete principale Monica Bellucci? Appunto, nemmeno noi.
Mal, tuttavia, ce n’è incolto. Perché, forse a causa della prolungata transumanza al bar nell’intermezzo degli spettacoli, forse per via di un increscioso errore di valutazione sui tempi tecnici di consumazione decorosa di un panino, la cinematografia intellettuale di Garrel è iniziata in nostra assenza.

Per carità, si può sopravvivere. Ma ci si gioca subito l’unico motivo d’interesse del tutto – il nudo della suddetta Bellucci nelle sequenze iniziali, tanto decantato dalla stampa quanto non esattamente inedito – e lo svelamento del finale – la morte del protagonista, schiantatosi in macchina contro un albero, da cui si dipana l’integrale flashback successivo.
Quel che resta è un film francese su un doppio legame amoroso. È quindi garantito che si apprezzeranno, in serie, atmosfere languide, sguardi d’abbandono, discorsi poco convinti, altrettanto poco convinte reazioni, urla estemporanee, pianti, sceneggiatura dilavata, ovatta, silenzio. Ed eterni pomeriggi, preferibilmente in terrazza.

Tra l’altro non siamo nemmeno a Parigi, ma a Roma, in un quartiere residenziale di lusso, alle prese con un menage formato da un giovane pittore francese (Louis Garrel, figlio del regista) e una matura attrice italiana (la succitata signora Cassell). Essi si cornificano vicendevoli – vuoi con sconosciuti, vuoi con puttane – rinfacciandoselo. Ma si amano, o almeno così dicono. Benché poco convinti.
Ad un certo punto ospitano nella loro casa, spaziosa, terrazzata e costosissima, uno spiantato amico di lui con annessa fidanzata (altra attrice, ma meno matura, famosa e nuda della prima). Ne seguono nuovi sguardi d’abbandono, nuove atmosfere languide, ma nessuna cornificazione vicendevole (per dare maggiore verve al racconto, la seconda coppia ha dei gusti diversi dalla prima in fatto di divertissement). E non c’è nemmeno, come avremmo auspicato, alcuno scambio dei rispettivi partner – al massimo si mangiano due spaghi insieme.

In tutto questo aleggiano, non richieste, fastidiose velleità ideologiche: perché, ahinoi, il pittore ricco sfondato (che ha l’aria del classico figlio d’arte senza il talento del genitore ma con le relative entrature) favoleggia dai suoi ozi l’importanza di non cedere al conformismo borghese, di essere sempre e sufficientemente progressista, purché non tocchi a lui fare la rivoluzione. L’ospite, invece, che strillona tra le strade di Francia le ultime edizioni di una specie di “Lotta comunista” locale, sembra ancora duro e puro (per non cedere al didascalismo, l’autore ci mostra una scena a caso di immigrati malmenati con successivo insulto a Sarkozy) e coltiva a più riprese l’incomprensibile ambizione di tessere un dialogo sul tema con lo scazzatissimo amico.

Per fortuna, Monica Bellucci riempie la scena. Una volta urla estemporanea perché ha visto un topo, un'altra balla con uno sconosciuto per circa mezz’ora al solo scopo di ingelosire il pariolino, un’altra ancora, al termine di una poco convinta discussione in francese, esala spossata un italianissimo “basta”. E noi con lei.
Alla fine, se non altro, molla l’intollerabile individuo, ne viene seguita sul set di un film in cui sta recitando (vabè, si fa per dire), fugge con altro urlo estemporaneo, sparisce definitivamente.
Egli, per disperazione, si schianta appunto in auto. E, in quello che ci era sembrato il finale, deve pure sorbirsi nel letto d’ospedale il monologo punitivo, senza capo né coda, di un vecchio rintronato (interpretato, suo malgrado, da Maurice Garrel, nonno dell’attore e padre del regista).

A questo punto, i pochi spettatori rimasti tra le file del Palabiennale – alcuni si erano eclissati già dopo i primi venti minuti, altri erano caduti per la noia, altri ancora, con ogni probabilità, si erano trattenuti al bar – hanno iniziato un lamentoso mugugno, ottimo per svegliarsi e scoprire (essendo entrati in ritardo) che il protagonista muore, chiudendo così la tragica operazione.
In conclusione: quale sia lo scopo del film non è dato sapere. Quali i criteri che l’hanno ammesso a concorrere per il Leone, idem. Sulle ragioni per cui non ha vinto invece, beh, forse avremmo un paio di idee.

LA SCHEDA
Un été brulant
La frase: "Ma questo è in concorso?"
Sconsigliatissimo: a chi, sentendo parlare di Nouvelle vague, pensa all'implacabile Rohmer o al monello Truffaut. Scordateveli.
Giudizio: KKK (ne merita di più, ma è troppo noioso)

domenica 19 febbraio 2012

Il bello del 2011 - Drive, e chi sennò?

Ne hanno parlato in tanti, forse tutti.

Ne hanno parlato molto, diffusamente.

Non ne hanno parlato abbastanza, per me.

Una porta di ascensore si apre tra i due protagonisti, un uomo ed una donna. E' un momento di grande tensione emotiva, di impossibilità comunicativa tra loro, e l'impasse viene spezzata dall'arrivo di un ascensore, il ding! che accompagna l'apertura delle porte crea un nuovo ritmo narrativo, la luce vagamente attenuata all'interno e la presenza di un altro uomo ci portano in un altro ambiente. Il protagonista si rende immediatamente conto di dover proteggere la donna, di cui è innamorato, da un pericolo immediato ed enorme. Ma deve anche comunicare con lei, prima (assolutamente prima) di precipitarla in una realtà violenta che finora, benché le abbia segnato e sconvolto la vita, ella non ha mai dovuto guardare in faccia direttamente. Dunque, la scosta con un braccio, allontanandola dall'altro individuo, gira su se stesso e la bacia con decisione e tenerezza al contempo. Quando ciò accade, si innesca un ralenti (ma lieve, a non spezzare il ritmo bensì ad adeguarlo) e cambiano totalmente le luci del piccolo ambiente in cui la scena si svolge. Ed è sinestesia. Un film può solo parlare a due dei nostri sensi ma, e qui è dimostrato ai massimi livelli, può innescare in noi ogni tipo di sensazione. Se avete conosciuto lo sconfinato impatto psicofisico che su ciascuno di noi ha la vicinanza della persona amata e l'intensità di determinati momenti – se, insomma, siete mai stati innamorati – allora risulta impossibile non sentire caldo vedendo questa scena; meglio, vivendola. Vi sono momenti in cui, nella vita reale, le luci non si abbassano, l'inquadratura non si stringe su di noi, la musica non diventa essenziale e memorabile al contempo e lo scorrere del tempo non viene alterato – eppure sentiamo tutto ciò e molto altro. Le nostre percezioni della realtà divengono alterate, la nostra vita si fa finzione per meglio servire le emozioni. Qui, in questo bacio in un ascensore in Drive, è dimostrato (con uno stile degno dei classici) come il cinema sia capace di innescare lo stesso meccanismo, mettendo in scena la finzione che i nostri sentimenti producono: in sostanza si bypassa la vita per farsi vita. Per regalarci quella finzione che parla il linguaggio delle emozioni meglio del realismo.

Immediatamente dopo veniamo catapultati in un altro mondo: il tempo torna a scorrere, le luci vengono ripristinate e la scena prosegue in modo atroce, inondata di grande violenza fisica, di rabbia terribile. E poi si conclude con lo sguardo spaventato della protagonista, con il suo allontanarsi, quando si riaprono le porte, da chi l'ha amata e difesa e persa in quel breve tragitto.

Non ci sono parole, nel mentre, e poca musica. Da che si entra nell'ascensore al momento in cui la scena cambia di nuovo son passati poco più di 3 minuti. Stupefacenti.


In mille hanno parlato di Drive e della scena di cui sopra. Non sarà mai troppo, e forse davvero nemmeno abbastanza. E' l'apice di uno splendido film, e un grande momento di cinema – un manifesto di Cinema nel senso più vero e profondo, nel senso che definisce quest'arte rispetto a tutte le altre praticate dall'uomo, e ne esplicita il rapporto con l'uomo stesso, con la nostra logica ed i nostri sentimenti.

Il film, nella totalità, è assai riuscito. La sceneggiatura è capace di spiazzare e conquistare (memento: a volte bastano pochi tratti a scolpire indelebilmente i personaggi), la regia è eccellente, essenziale eppur mai banale, a volte sorprendente ma mai fuori posto. La scelta della colona sonora è sublime, a tratti, per la capacità di integrarla con la narrazione, con lo sviluppo delle personalità, con il processo di identificazione dello spettatore. Il cast è di grande livello, a partire dai ruoli di contorno (volti noti ed affidabilissimi come Perlman e Cranston accanto agli emergenti/neofamosi come Oscar Isaac e Christina Hendricks – su tutti bravissimo Albert Brooks nel non facile ruolo di un riluttante “cattivo”); i protagonisti sono perfetti, Gosling dotato di un magnetismo che gli permette di scolpire la propria figura per silenzi (uno dei temi dominanti di questa narrazione) e la Mulligan bellissima nelle mille fragilità che sa incarnare con credibilità totale.

I dettagli, infine, sono curatissimi. Si parte coi titoli di testa anni '80 e si continua con innumerevoli chicche, dagli abiti alle auto passando per degli stuzzicadenti destinati a rimanere nella memoria.

E' un film che va necessariamente visto, e che verosimilmente non ci stancheremo di tornare più volte a visitare. Peccato che, è probabile, non sempre accadrà in un cinema: certe emozioni sono troppo grandi per lo schermo di una televisione.

Al plurale (per farci perdonare il ritardo): film belli degli anni 2010 e (quasi) 2009

Rapida e ovvia spiegazione del titolo: vi dobbiamo dei suggerimenti per dei bei film, qualcosa che abbiamo amato al cinema negli anni passati. Per il 2010 il ritardo è già abissale, e cerchiamo di emendare in parte le nostre colpe proponendovi non uno, non due ma 3 diconsi 3 film. Alé! Il terzo, che forse non tutti conoscono, fu presentato ad innumerevoli festival a partire dai primi mesi del 2009 salvo poi trovare distribuzione americana nel novembre dello stesso anno, ed internazionale nel 2010. Ergo, entra in gioco – e al contempo ci regala un plurale anche per le date. Tre film non perfetti, sia chiaro. Ma se ne avete perso qualcuno, siamo qui per provocarvi alla visione.


  1. INCEPTION

Ovvero come essere scontati. Noi, nella scelta. Un film di enorme successo, ed era prevedibile visto il cast (a partire dalle star americane - Di Caprio – o europee – Cotillard -, proseguendo coi grandi vecchi Caine, Postlethwaite e Berenger e condendo il tutto con gli emergenti Gordon-Levitt, Hardy, Page e Murphy) e soprattutto visto il moviemaker dietro l'operazione: Nolan sa fare cinema a tutto tondo, dirige e scrive, sceneggiatura e regia vengono dalla stessa mente e si vede eccome. Nello specifico, pare, ha passato anni a creare e limare un meccanismo di mirabile precisione e discreta complessità – salvo poi, forse il punto debole del tutto, eccedere nello spiegare la struttura dei suoi sogni dentro ai sogni, fornendo ogni dettaglio minuziosamente, avendo cura di non lasciare nulla di oscuro. Lo spettacolo visivo è impressionante (e non solo per l'abbondanza di effetti speciali, l'immaginazione qui la fa davvero da padrona, soprattutto nelle fasi preliminari), l'ammirazione che una tale struttura narrativa desta è sincera ma si perde un po' del mistero, dell'esercizio di deduzione, della sorpresa. Ed il senso di vertigine di una trottola che non vuole saperne di cadere prima della dissolvenza in nero è un po' poco per restituirci tutto. E', insomma, un esercizio di stile di alto livello e sicuramente fa venir voglia di cinema. Per essere un capolavoro, forse, mancano un po' di emozioni realmente viscerali (ci prova, ma si sente l'artifizio).

  1. HOW TO TRAIN YOUR DRAGON (DRAGON TRAINER, IN ITALIANO...)

Ovvero come fare un cartoon digitale che è anche un gran film tout court. Perché, sì, è un cartone animato. E, per gli affezionati di Biancaneve ed i suoi nani animati a mano, ha la colpa imperdonabile di essere generato dal computer. Ma è un gran bel pezzo di cinema. La sceneggiatura è solida e la regia (rassegnarsi, tale è pure in questi casi) di prim'ordine – se lo stesso identico racconto fosse stato girato con attori e, per dire, cani invece che con bimbi e draghi in CGI sarebbero in molti di più a dire di un grande film, con echi di Jack London e chi più ne ha.

Anni fa, ricordo, lessi su uno dei maggiori quotidiani nazionali una recensione di Monsters, INC. (Monsters & Co in italiano, mah...) nella quale si sottolineava come la storia del legame, dell'affetto profondo che veniva a crearsi tra la bimba ed il mostro (d'aspetto, ma di cuore assai tenero e generoso) protagonisti del tutto fosse assai più profonda, intensa e reale di tanti cartoni giapponesi “con metafisica annessa” (Evangelion, anyone?). Basta poco, per avere il coraggio di dire che un cartoon, anche se non avete sette anni, può essere un gran bel film. Questo ha una trama semplice, e non poi tanto innovativa. Ma è molto ben fatto, un sacco divertente, e soprattutto vero. E se lo vedete, magari scoprite che in questi decenni siamo andati pure un po' oltre Bambi.

  1. PRECIOUS

Ovvero agli antipodi di Inception. Qui non c'è magniloquenza, nemmeno l'ombra: cast di stelle e sceneggiatura complessa e ricca di colpi di scena, effetti visivi poderosi e lancio in pompa magna, tutto questo ed altro potete scordarvelo. La storia è semplice, è il pezzo di una vita purtroppo comune. Gli attori principali sono per noi sconosciuti (su tutti si stagliano la protagonista Gabourey Sidibe e Mo'Nique), con poche celebrità rinchiuse in parti secondarie o camei (Mariah Carey e Lenny Kravitz, per gradire). La regia tende quasi al documentaristico (ed è tremendamente efficace), il parlato è quello di strada (e a momenti si fatica a seguire). Però non si potrebbero chiedere più emozioni reali e scuotimento di coscienze e di viscere. Il ritratto abbozzato (ma, ribadiamo, incisivo) di un'esistenza tra le molte che, tipicamente, scegliamo di ignorare – questo sguardo sulla vita cattiva, sui dolori (fisici e psicologici, in abbondanza) di una delle figlie abbandonate degli opulenti Stati Uniti (abbandonate a famiglia e quartiere, agli estranei come a se stesse, alle violenze sessuali con istigazione all'aborto come all'allontanamento dagli studi e del sogno di una vita migliore), e contestualmente sulle vite di chi la circonda – questo schiaffo che forse vorrebbe far aprire qualche occhio o forse solo essere onesto non si può, in ogni caso, ignorare. Fa male, e qualche volta si sospetta ci sia il ricatto morale dietro l'angolo. Ma non c'è buonismo (pregio non da poco) né metafisica fine a se stessa: a chi parla del nostro mondo, di noi in modo così diretto vale la pena prestare orecchio.

Hanno rotto Albert Nobbs

Avendo letto con estrema attenzione l'emendamento testé reso pubblico (aka il post precendente, via!), già ben saprete la scabrosa verità: questo film non è brutto. Per quale ragione, dunque, vi sfrantoio un po' anche oggi senza dimostrare un minimo di coscienza? Ma allora non avete letto bene lo spiegone! Non brutto non significa mica (non sempre) che non ci sia da ghignare. O criticare. Sfottere. Sì, insomma, di che scrivere in questo blog. Su il sipario.

Glenn Close è incartapecorita il giusto (kudos a Egon per la definizione) per portare su schermo, dopo 30 anni di prove teatrali (così dicono: hai studiato tanto, Glenn!), il ruolo che ogni fanciulla sogna: l'eponimo Albert Nobbs, uomo di mezz'età un po' cessetto, con lavoro semiumile (cameriere in albergo con pretese ma cadente) e vita privata inesistente. Wow.

Onestamente, il pensiero dei suoi ruoli scabrosetti di qualche anno fa (ok, fine anni '80...), da Relazioni Pericolose ad Attrazione Fatale, causa degli scompensi anche al più ormonale di noi, spettatori mascolini. La performance, sia chiaro, è valida – forse non epocale, ma ben recitata. Attorno a GlenNobbs, e sullo sfondo di una Dublino fine '800, si muovono i personaggi di contorno i quali poi, come si conviene, muoveranno la vicenda – e la piatta vita di Albert verso una spiacevole conclusione. Tra essi si stagliano:

  • la bionda cameriera puttanella (ah, il politically correct!) di bell'aspetto e poco intelletto che si fa sedurre ed impregnare da

  • il manzo di turno, imbroglioncello da due soldi incline a lavorare male e spacciarsi per quel che non è – nonché all'alcolismo, però per predisposizione genetica (ah, allora...);

  • il dottore dell'albergo (tipo resident DJ), cicciozzo barbuto anch'egli appassionato di liquori e sesso orale (lo vediamo praticare un veemente cunnilingus alla sua amante, altra cameriera), incapace per anni di capire che Nobbs è una donna (chi lo ha laureato??);

  • la padrona della baracca, vecchia babbiona sedicente baronessa intenta a desiderare maschi giovani, non lavorare mai e lamentarsi di ogni cosa con toni insopportabilmente aulici;

  • su tutti, un'altra travestitona di livello, tale Hubert Page chiamata/o a ridipingere le stanze della bettola in questione, ed interpretato/a da un donnone di 1 e 90, e che ci regala un flash (in purissimo stile Colpo Grosso) sulle proprie giunoniche mammelle (con annessa crisi respiratoria di Nobbs). Ah, sì, vive con la propria anima gemella, donna. Sposati. Altro che giovanardismi varii (certo, tutto illegale e nell'ombra, ma stai a guardare il capello).

Ci vengono, fortunatamente, risparmiati dettagli sull'insopportabile clientela (ricconi e nobili di diversa estrazione, dediti a fancazzismo estremo e sesso scambistico: beati loro, con la crisi che c'è), e lungaggini varie. C'è della buona regia e la sceneggiatura, di forte impianto teatrale (presenti un paio di brevi soliloqui da parte di Albert/a, in caso aveste la penetrante capacità di analisi di un lamantino e non ci foste arrivati da soli, a capire che di teatro si tratta), non eccede né pesa. Si rischia, a momenti, ma ci si mantiene credibili e, tutto sommato, godibili. Azzeccato il cast, con alcune prove di recitazione di buon livello. C'è un po' di prevedibilità, è vero: ben in anticipo si capisce donde scaturirà la perdizione della Albert, però intanto ci si è fatti portare, un po' coinvolgere, ed il rumore secco che fa la testa della Close sbattendo sulla parete fa esclamare “ahi! l'han rotto!” con un certo dispiacere. Vengono dette un po' di cose, sia sull'individuo che sulla società, in modo non troppo banale. Si sarebbe potuto far meglio, magari, ma ad aspettare altri 20 anni la Glenn, invece dell'omino un po' grinzoso, sarebbe finita per essere una mummia vera e propria. Va bene così, insomma. Soltanto, sappiate che vi scapperà un po' da ridere.

PS: il lamantino, giacché lo so che non siete ferratissimi coi Trichechidi, è questo tizio qui

www.manatees.net

Si notino la figura slanciata ed il profondo acume emanante dal volto.

EMENDAMENTI ALLA COSTITUZIONE

Achtung lettrici & lettori, prestate attenzione! Novità in arrivo, e spiegazioni relative! (ma sarà breve, non preoccupatevi: poi torniamo a rompere le bàle in modi più consueti)

Come avrete ben notato, di recente l'attività dei vostri bloggers cinefili preferiti (ebbene sì, ce la raccontiamo così tanto) è stata più che mai alacre. Onde permetterci di sfogare tutta questa voglia di veder cinema e condividere l'esperienza, nonché per continuare indefessi a svolgere un servizio di pubblica utilità che, ne siamo certi, illumina le giornate di millanta utenti, insomma al fine di infliggere sfottò, critiche malevole ed epiteti ingiuriosi più che mai a destra e a manca ci consentiamo di eccepire allo scopo primario di questo blog. Scopo che, ricordiamo, è e sempre resterà quello di individuare film brutti (possibilmente viziati pure da ambizioni, pretese e quant'altro renda l'esperienza di spettatore peggiore ed il gusto nel demolire maggiore) e relazionare in merito, senza lesinare le brutture, i commenti feroci o gli inviti a cambiar mestiere.

A questo vincolo costituzionale già ci siamo sottratti in passato, istituendo la tradizione di una recensione positiva per anno (vestigia di un tentativo di blog-specchio votato ai film belli, ed ovviamente abortito in breve tempo: si gode indiscutibilmente di più a distruggere).

Ora aggiungiamo ulteriore scappatoia, eccezione, alternativa: emendiamo, appunto.

Ci permettiamo di presentare delle non-recensioni: ovverosia ci proponiamo di descrivervi dei film che non siano, per i nostri succitati criteri e scopi, meritevoli di esser qui recensiti. Che non siano, in altre parole, brutti film. E che però ci abbiano istigato, vuoi per qualche elemento ridicolo o malriuscito o stupido. Insomma, che abbiano oggettivamente delle cose brutte, in un contesto comunque riuscito, positivo. Va da sé, abbiamo estrema voglia di sfogarci, di prendercela anche per la minima mancanza, di sfottere per qualsiasi motivo – cercavamo solo una scusa adatta.

Per segnalare i pezzi inclusi in tale nuova categoria utilizzeremo il tag “Stai seria con la faccia ma però” - con ovvii ringraziamenti a P. Conte. Meditiamo anche, sempre in cerca di equilibrio karmico come siamo, di segnalare film che siano in effetti delle ciofeche ma si salvino per un qualche motivo, che ce li renda simpatici, magari fino al punto di suggerirne la visione. A tali opere dedicheremo il tag “Brutti ma buoni” - se mai manterremo le promesse, e le intenzioni. Chi ci conosce, può già andare a scommettere tutto sul NO.

sabato 4 febbraio 2012

A.C.A.B. - Cobra e i suoi fradelli

Bastava accontentarsi del trailer. Quello in cui Pierfrancesco Favino, con pizzetto improbabile e sguardo allucinato, cerca invano una postura credibile, mentre racconta al microfono, davanti a un magistrato, il duro lavoro del celerino: “… in quei momenti c’hai… il cuore che te bbatte forte… l’adrenaliiina… che sale… a mille… un senti gnente… c’hai solo i tuoi fradelli (pausa teatrale stile caduta in un burrone) … accanto. Solo sui tuoi fradelli puoi contare”. Ma dopo una scena così, viene inevitabilmente voglia di verificare se fosse solo un abbaglio, un’inspiegabile bravata per lanciare (?) il film o se la sequenza, invece, esista davvero. Se in fase di montaggio non sia stata provvidenzialmente tagliata.
Beh, esiste. E ve la sciroppate tutta, alternata a immagini di guerriglia della più varia risma (stadi, sfollamenti e sfratti) e Favino, disastrosamente fuori parte, a patire, passato in un amen dai canonici ruoli introspettivi ad uno introspettito, smarrito, imbarazzato. Egli è l’Ass.te Cobra, protagonista di "A.C.A.B." (acronimo per All Cops Are Bastard – lasciate perdere Moby Dick, non solo per via dell’acca in più), esordio al cinema di Stefano Sollima, spaccato, anzi: frantumato dell’ordinaria esistenza degli appartenenti alla Celere, glorioso reparto della Polizia italica.
Ora, non per dire, ma come ci avvertono i titoli di coda – storti quanto quelli di testa: o una scelta stilistica o, più verosimilmente, il risultato di una colluttazione tra i tecnici preposti – quest’opera è stata ritenuta d’interesse nazionale e ha meritato i finanziamenti pubblici. Non si sa quale inattuale funzionario abbia avuto la pensata, ma si tratta di un raro caso in cui lo Stato propaganda una versione sconsolante di se stesso, a tutti i livelli. I politici, vabè, sono i classici burocrati imbelli, ma i poliziotti, almeno quelli descritti, sono in realtà una manica di facinorosi interessati soltanto a menare le mani, con o senza uniforme (la giustizia è comunque sommaria, dunque non sempre ci si può ricordare dell’abito), che non vedono l’ora di avere un pretesto per riunirsi e manganellare il sovversivo di turno.
Cadono sotto la scure di Cobra & co. (degli altri fradelli parleremo tra poco) tifosi violenti, xenofobi dell’ultim’ora, vecchi testardi, mogli separate, intere comunità Rom, bande albanesi, perdigiorno rumeni, prostitute africane, eccetera eccetera eccetera. Non c’è differenza tra casa e lavoro: ad esempio Mazinga (uno dei personaggi si chiama Mazinga), una volta tornato alla magione dopo la quotidiana dose di ultraviolenza in divisa, si rilassa prendendosi a male parole col figlio adolescente, una sorta di fascistello post-litteram – ci saremmo aspettati quantomeno un aderente ai centri sociali occupati, si vede che la società sta cambiando – che detesta la polizia in quanto, par di capire, non sufficientemente sterminatrice di immigrati. Se a questo aggiungete che il robotico ruolo è coperto da Marco Giallini, il cui repertorio facciale è esaurito dalla monoespressione “sole in faccia” (altro che Eastwood, qui non serve nemmeno il cappello), capite quanto indistinta sia la faccenda.
D’altro canto è così anche per gli altri componenti della crew: Negro (interpretato da Nigro) è uno psicopatico in perenne sovreccitazione, che dopo la separazione dalla moglie si gioca il permesso di visitare la prole – una bimba che, strano a dirsi, non trova divertentissimo passare il tempo col padre – dimenticando la figlia in caserma per prendere a spintoni qualche ladruncolo dell’Est, reo di aver insozzato un parco periferico. Si sa, le tentazioni. Meglio di tutti è però Carletto, il rimosso, un gentiluomo che ha spaccato un paio di crani per vendicarsi di una lesione al timpano durante un sommovimento in curva nord ed è stato perciò piazzato in garitta, a rimuginare sulle tante occasioni sprecate per picchiare ufficialmente qualcuno.
A questo punto direte: e la storia? Mah, in teoria sarebbe quella del novizio Adriano, che approda alla Celere dei suddetti eroi e viene iniziato al culto della fradellanza con modi urbani e di grande civiltà: rinchiuso in un furgone in compagnia di un lacrimogeno a pieno regime. Peraltro, si tratta dell’unico personaggio esplorabile: amico di sbandati che odiano gli sbirri, pervaso da risentimento sociale (la madre sta per essere sbattuta sul marciapiede e ha la casa sostitutiva occupata, guarda caso, da immigrati senza permesso), ma abbastanza ingenuo per conservare un minimo senso della legalità. In realtà anche lui non riesce a resistere a sbriciolare il naso del passeggero di un treno solo perché, alla richiesta di alzarsi, ha avuto l’ardire di ribattere che era in possesso di regolare biglietto.
La sostanza, in ogni caso, è che, saturo degli innumeri episodi di violenza gratuita, il celerino acquisito delerà alla magistratura una spedizione punitiva (i.e. aggressione aggravata) dei fradelli in borghese, rei di avere gonfiato come zampogne i presunti autori dell’accoltellamento - e conseguente, perenne, zoppia - di Mazinga, per via di una diversità di vedute dopo l’incontro di calcio Roma-Napoli. Ciò gli causerà la riprovazione di tutto il corpo di polizia – che quindi, si evince, trova perfettamente leciti e giustificati i metodi da macellaio seguiti dai protagonisti – e lo indurrà ad abbandonare il reparto, nonostante sia quello “che paga mejo”.

Note a margine:

- Memorabile la gestione della sceneggiatura: dopo aver raccontato con dovizia di dettagli, e di pugni, le vite dei fradelli, gli autori capiscono che, per dare una svolta al tutto, bisogna citare i fatti di cronaca (è pur sempre un film italiano). Seguono quindi: caso Raciti – e conseguente concione di Savino in lacrime: andiamo tutti al Viminale – caso Reggiani – e conseguente devastazione del campo Rom, con critiche sociali all’inanità della pula e raid antirumeno serale al supermarket, per compensare – caso Sandri – e conseguente protesta di Savino: paghiamo tutti per l’errore di uno, mandatemi dei rinforzi. Su tutto, pesa l’ombra della scuola Diaz durante il G8 di Genova, dove, parole assolate di Giallini, c’è stata “macelleria messicana”. E peccato sia saltata fuori la cosa, dice il rimosso, se no il paese poteva cambiare: come, non è dato capire. Forse una bella guerra civile;
- Di grande impatto la scena dei tafferugli fuori dallo stadio: per cinque minuti, forse per indecisione registica, si fronteggiano tre gruppi (uno è la Celere, gli altri due sono rivoltosi) senza sapere evidentemente come muoversi. Non è teatro off, ma semplice problema recitativo: i primi sassi che partono hanno la convinzione e la parabola delle palline da ping-pong per centrare il pesce rosso al luna park;
- Generose le riprese degli sputi: quasi nessuno se ne fa mancare uno, purché a tutto schermo. Il clou, peccato, ce lo giochiamo all’inizio, con Favino che sorseggia una birra in terrazza e vorrebbe espettorare sulla schiamazzante marmaglia sottostante. Ne viene un filamento in primissimo piano, assai drammatico, risucchiato prima che inneschi l’incidente diplomatico. Questo è cinema;
- Inspiegabile l’esito del processo a Cobra, citato all’inizio. Imputato per lesioni dopo aver delicatamente appoggiato il proprio casco (fra l’altro, di tre taglie più grande: una specie di mongolfiera) sugli incisivi di tale Sartoni, polverizzandone gran parte, viene assolto nonostante sia chiaramente reo confesso e privo di qualsivoglia attenuante. Beh, salvo il fatto che, negli scontri allo stadio, teatro della vicenda, hai “l’adrenaliiina… che sale…”. Vabè, avete capito;
- Orribile la sequenza successiva all’assoluzione. Savino balla in modo goffo e scomposto in un corridoio, con musica a tutto volume e fradelli in giubilo. Tuttora incerto se si tratti di una scena o di una pausa nella lavorazione;
- Potente il finale: l’azzoppato Mazinga, che nella spedizione punitiva di cui sopra per poco non bastonava il figlio, amico dei suoi – sempre presunti – accoltellatori, va a dare manforte ai compagni per gestire meglio la rappresaglia post-Sandri. Si accorge che il piazzale della resa dei conti è intitolato a Diaz. Come a Genova. Il destino. Ed è lì che Cobra, ballando nel casco, profferirà in crescendo: “Eccoli, eccoli, eccoli”. Il riferimento, per fortuna, è ai titoli di coda.
LA SCHEDA
A.C.A.B. (All Cops Are Bastard)
La frase: Naturalmente "l'adrenaliiina... che sale"
Sconsigliatissimo: a chi pensa che il corpo di polizia non sia il distaccamento segreto di un gruppo paramilitare.
Giudizio: KKKK

venerdì 3 febbraio 2012

Don’t be afraid of the dark – la vendetta del topino dei dentini (e del sottoscritto)!

Sono andato a vedere un horror. Di nuovo. Allora ci fai, direte. Ebbene, sì. E’ più che ovvio oramai che indulgo nel vizio del collega di propinare filmacci di terz’ordine al grido “è un horror, è un horror, a me l’horror piace” (e ci mancherebbe pure) con il solo, vile scopo di recensire.

Stavolta, però, c’è di più. C’è, infine, la vendetta. Non tanto degli schifosi rattacci vagamente ibridati con dei babbuini di cui dirò ampliamente in seguito; piuttosto, del sottoscritto autore. Dopo aver tollerato, in passato, recensioni di film passabili (nonché interminabili lamentele e sequele di rifiuti sdegnati) da parte del compare coautore nascosto dietro la sola, debole scusa di “a me questo non piace” è giunta l’ora che sia io a stroncare un horror che a lui aggrada, con la semplice motivazione che “mi va così”. Almeno, così pensavo. Una sana notte di riposo, invece, una serena riflessione ed il paragone mentale con alcuni film decenti visti in questi mesi mi hanno schiarito le idee: questo è una schifezza di film, ed ora vi dico perché.

L’inizio è promettente: un anziano e gracile signore (dotato di flebile vocina) abita, credo per risparmiare sulla luce, unicamente la cantina sozza e buia della magione di campagna di sua proprietà. Vi attira la cameriera, la fa scendere nell’oscurità ed inciampare (infido vecchiardo!) in un cavo teso sul penultimo scalino a scopo infortunistico, indi ne rimuove i denti davanti con l’uso di martello e scalpello – ma scusandosi. Indi offre i di lei ed i propri incisivi ad una canna fumaria, ricevendone in cambio risa di scherno ed un rapimento eterno. Fine intro, vai coi titoli di testa. E, purtroppo, vai col resto del film.

Flash-forward: nell’anno di(s)grazia 2012 una famigliola di americani (padre divorziato, nuova moglie giovane e figa, figlia estraniata e con carenze di concentrazione spedita in vacanza perenne da madre naturale incline agli psicofarmaci ed al sushi: nulla di nuovo sotto il sole) compra l’antica villona, la restaura e vi si trasferisce. Come evolvano le cose da qui in poi è di una banalità sconvolgente (le due o tre idee cruciali le avevo indovinate durante i titoli), ma per completezza d’informazione riassumerò qui sotto.

Anzitutto, la bambina (Sally) è infelice. Strano, dato che la madre l’ha spedita a 5000 km da casa ed il padre (Guy Pearce! Wow!) è uno stronzo interessato unicamente alla sua carriera di architetto ed ai soldi investiti nella nuova proprietà, e del fatto che i denti della sua figlioletta (o l’interezza del corpo della sua giovine moglie trofeo) stiano per diventare cibo per mostriciattoli strillanti se ne sbatte altamente gli zebedei. La bonazza neomoglie (interpretata, a forza di faccette, da Katie Holmes) è disperata perché non piace alla bimba alla quale, peraltro, non ha nessuna voglia di far da madre. Ma è destinata a essere quella che si rende conto e si sacrifica e cazzi & mazzi & smorfie. La figlia, infine. Che adorabile fanciulletta. E’ una tossicomane, con il cinismo di una 55enne ex ballerina di fila e un talento innato nel rendere tutto più triste. Per fortuna ha il senso di autoconservazione di un lemming depresso. Viene, coerentemente, attratta da luoghi bui e oscuri, ed in particolare da buchi in cantine murate ed abbandonate. Libera dunque, nonostante le rimostranze di un misterioso (e sfigato, ne dirò in seguito) membro della manovalanza locale, un esercito di piccole bestie con tendenze al rapimento ed alla masticazione di dentature altrui. I mostriciattoli in questione, contrariamente alla pratica comune in tali filmazzi, si vedono abbastanza presto nello svolgimento (il che non è male, ammetto). Sono una specie di ibrido tra dei rattoni (le pantegane dei dentini, diciamo) e delle scimmie, tipo quella dei Pirati dei Caraibi in versione mignon, più sgradevole e (ahinoi!) parlante (e petulante assai). C’è anche un solo momento “bu!”, pure abbastanza ben fatto. Qui, però, terminano i meriti della pellicola. Perché poi c’è il resto, molto. La mia preferenza va alle incongruenze e/o agli atti e parole di commovente stupidità da ascriversi ai vari protagonisti. Via di elenco!

  • La bimba è attratta dalle creaturine. Perché, non si sa. In compenso, una volta capito che sono delle infingarde bestiacce inclini al furto ed all’inganno, continua a volersele fare amiche: a più riprese l’imbelle chiacchiera amabile con i mostrini, e se ne fida;
  • Il semianalfabeta (al secolo, il signor Harris) che aveva annunciato, allo scoprimento della cantina, “non è sicuro, soprattutto per una bambina!” (sospetto? Nooo!) tenta di rinchiudere i roditori nel loro camino, e ne riceve in cambio un assalto all’arma bianca a base di utensili: quando riemerge nell’ingresso del villone, prima di cadere esangue faccia a terra dichiara alla cameriera “ho avuto un incidente” a mo’ di chiosa al fatto di avere forbici, cacciaviti ed altri oggetti di metallo conficcati ovunque dal tallone all’occhio. Il culmine, però, è come l’anziana donna delle pulizie presenta l’avvenuto ai proprietari “deve essere inciampato” – su che cosa, una mina anticarro? Per chiudere in gloria, tale massacro non porta ad alcun interesse da parte di qualsivoglia autorità locale (va bene che l’Harris era bassa manovalanza, ma insomma, dài);
  • Il padre-Pearce non si avvede di nulla fino a 5 minuti dalla fine, e si aggira per lo schermo non capendoci un cazzo peggio che in Memento – lì, però, aveva il difetto alla memoria, qui invece è solo afflitto da cretinismo e cupidigia;
  • La Holmes, invece, inspiegabilmente tende a dare ascolto alla stronzetta, e si reca in ospedale a visitare l’Harris, il quale farfuglia parole incomprensibili e, immotivatamente, una precisissima informazione su dove trovare spiegazioni in una biblioteca pubblica. La Katie, come ogni madre (adottiva) responsabile, segue le indicazioni del moribondo sconvolto dalla morfina (“non so quanto sia lucido, è sotto pesanti farmaci” precisa un’infermiera) e viene ammessa al cospetto dell’opera omnia del vecchio pazzo visto nel prologo. Ivi scopre che un pirla di bibliotecario fancazzista (classico personaggio dell’horror che non c’entra un cazzo, compare a 20 minuti netti dalla fine, fornisce l’informazione essenziale e poi torna nell’oblìo) è l’unico al mondo a conoscerne (del vecchio) gli ultimi disegni: mostrini che sbucano dal buio e mordono e rapiscono e blablabla. Illuminazione portentosa, prendiamo la piccola bastarda e fuggiamo da morte indegna, giusto? No! Decidiamo di andarcene, ma DOPO la cena coi colleghi del marito, sennò sai che figura. Mah.
  • podio di stronzate, 3° posto (medaglia di bronzo): incongruenze di base e stupidità delle creature: le bestie in questione, pare, temono la luce forte. Eppure se ne vanno a spasso invadendo varie stanze illuminate durante il film (salvo poi spegnere la luce). Ergo, fingono, gli stronzetti. Ed in ogni caso, sul finire, dimostrano di essere ben capaci di staccare la luce in tutta la casa. Aggiungete che pare debbano “prendere una vita ogni volta che aumentano i ranghi” (o minchiata consimile) ma abbiano “promesso” (i dettagli, al primo gradino del podio) di accontentarsi di “denti di bambino”: peccato che si vedano sucati esclusivamente due adulti, nella ciminiera. Ergo, mentono pure, i bastardelli. Per finire, sono apparentemente stati rinchiusi per oltre un secolo, ma come? Dato che se ne vanno scorrazzando agilmente in ogni dove, come cazzo son stati costretti nel camino? Con la retorica? E perché non murati vivi lì dentro? Insomma, non si capisce bene perché queste bestiacce non abbiano conquistato il mondo (e vivano, invece, solo nello squallido scantinato della villona) o, perlomeno, non si siano ciucciati tutti coloro che mettono piede in casa durante il film;
  • posto (argento): stupidità dei protagonisti (ed umani in genere): La bimba, pentita (tardi, cazzi tua) di aver scatenato i razzenti roditori, cerca di produrre prova fotografica della loro esistenza. Si aggira quindi con una polaroid (oh, il vintage!) per nationalgeograficare le creature. Le quali, peraltro, distruggono con foga le prove, dimostrando di temere la paparazzata. Però, quando la stolida sbarbatella spalma (con una libreria) una delle bestie, non le viene mica in mente di sollevare il cadaverino e mostrarlo al babbo ed agli ospiti di riguardo, rivelando al mondo l’arcano;
  • Primo posto (oro): il contratto col Santo Padre: viene rivelato che le creature hanno fatto un patto con Papa Silvestro II (mi pare, mi stavo pisciando dal ridere) promettendo di dare monetine in cambio di denti di bambino. Credo che architetto della trattativa sia stato Mino Raiola, perlomeno.

Quel che è peggio, avevo sperato in una redenzione, nel prefinale. Quando la Holmes, a terra stordita (è caduta anche lei nel tranello del filo nelle scale nell’oscurità: un evergreen), vede avanzare un esercito di topiscimmia che avanzano cantilenando “una vita deve essere presa”, mormora “Sally”. Auspicavo la genialata, il momento di massimo cinismo: l’adulto che sacrifica il bambino e lo dà (letteralmente) in pasto ai mostri. Invece, no. Voleva proteggere la figliastra. Allora ti sta bene che ti fratturino le gambe, poi, Katie.

Fast 5 - siamo tornati! (con una tetrospettiva, lo ammettiamo, ma non solo con quella - eppoi è gratis, checcazzo)

Giaceva da tempo in un cassetto la recensione seguente - effetto della visione di Fast 5 in versione originale (mica cazzi, così non ci si perdono le sfumature della recitazione di Vin Diesel e The Rock): cogliendo al volo l'occasione del grande rientro sulle scene del nostro blog (vedasi recensione dell'horroraccio di turno, poco più in alto), vi beccate pure questa. E non vi lamentate, via, che in tempo di crisi è meglio di niente.

Ebbene sì, torna Vin Diesel nei panni di Dominic Toretto, torniamo noi a recensire. Adescati da dichiarazioni del protagonista sul tono di “questo è il miglior film della serie, dato che ora tutto ha un senso, diamo risposte ad interrogativi lasciati aperti in precedenza, c’è più ragionamento nello script” e via discorrendo.

A 5 minuti circa dall'inizio il buon Dominic-Vin (abile, arruolato & più muscolato che mai), trovatosi a mal partito a mani nude contro un manipolo di brutti ceffi armati, si guarda in giro nella disastrata casa di favela in cui si trova e, dopo rapida analisi della situazione (1.2 secondi, circa 200 colpi d’arma da fuoco esplosi), opta per la via di fuga più ragionevole. Ovverosia, passa per dei mattoni. Esemplare.

Pensereste di aver visto il meglio non fosse che i produttori, diabolici, hanno in serbo un rilancio di quelli pesanti. Onde ispessire, parecchio, la vicenda, hanno reclutato come antagonista qualcuno ancora più grosso di Diesel: The Rock, ovvero Dwayne Johnson per i più raffinati. Costui è largo come un camion della nettezza urbana, ed un poco meno manovrabile. Appare evidente come non possa raggiungersi le tasche, stante che bicipiti e tricipiti assortiti ed ipertrofici costringono le sue mani ad una distanza non inferiore ai 70 centimetri dal busto, conferendogli un’andatura giusto un filo macchinosa. Rinunziato quindi, a malincuore, al sogno della sua giovinezza (essere l’etoile di un balletto classico), egli si arruola come agente federale, e finisce a capo di un’unità dedita alla cattura dei ricercati più sfuggenti. Nella fattispecie, come ben immaginate, la nutrita famiglia Toretto (membri extra: l’ex agente interpretato da Paul Walker più una corte dei miracoli di afroamericani, latinos imbelli, asiatici, persino una israeliana ex Mossad).

Sullo sfondo di Rio (almeno, immagini del famigerato Cristo a profusione) i Nostri Eroi si trovano una volta di più a fare i conti con l’ineluttabile: sono dei bravi guaglioni intenti a farsi i fatti loro (corse illegali per le strade, tentativo di rubare auto preziosissime confiscate dalle autorità e dulcis in fundo lotta senza quartiere con l’indiscusso boss della mala locale), malauguratamente messi nel mirino dall’FBI (nella persona della ballerina fallita di cui sopra, e della sua squadra speciale).

Non ci si risparmia nulla: scazzottate imperiali nelle favelas (quando infine i due colossi si sbattono per bene, è tale la loro massa muscolare combinata che per due volte due nella stessa scena sfondano delle pareti: vabbene che l’edilizia nella periferia di Rio non dev’essere esattamente a norma, però ostia!), corse a perdifiato con cassaforte da 10 tonnellate trainata da due auto (rubate alla polizia locale, per giunta) e conseguente vasta distruzione del centro cittadino, agguati a colpi di mitra e bazooka, basso umorismo a base etnica. Ci sono anche 2 o 3 momenti in cui per 30 secondi circa nessuno si sta massacrando o inseguendo a 200 all’ora per stradine semisterrate, laddove si sviluppano ricche sottotrame. Tra i non–cliché offerti segnaliamo: la poliziotta brasiliana integerrima (e vedova di altrettanto integerrimo ed altrettanto pulotto) che si innamora del bruto dal cuore d’oro, gli altri poliziotti tutti venduti, antichi rancori che vengono sanati, figli in arrivo, l’incorruttibile agente federale che vuole vendetta privata contro i cattivi del terzo mondo: smancerie a profusione, insomma.

Non manca il colpo ad effetto per riuscire a scappare col contante da parte dei nostri, per scoprire il quale però dovrete vedervi il film, furbini! Il finale consta di una scena idilliaca con due coppiette scalze (o con infradito, che fa lo stesso bucolico) in paradisiaca località di mare. Auto iperpompate da competizione parcheggiate dietro al bungalow, e pronte a scatenarsi. Colonna sonora: Danza Kuduro, di Don Omar (che peraltro impersona uno dei due latini stolti di cui sopra, prendi-due-paghi-uno). Tormentone estivo forse un po’ troppo raffinato per la situazione. Sarebbe tutto, non fosse per il fatidico post-finale (guai ad andarsene durante i titoli di coda, è la lezione più importante). Il Roccioso Dwayne, ci viene rivelato, continua a lavorare indefesso. Ricompaiono, dall’oscurità di precedenti capitoli della saga, poliziotte scosciate e persone che si credevano morte. Capitolo 6 pendente, dunque. Dovrò rivedermi il resto, non vorrei perdermi nella complessità dell’intreccio.

Ps: menzione d’onore per la storia d’amore interraziale tra l’assurdamente gnocca israeliana ex-Mossad ed il cino-giappo-coreano. Ex-fumatore. Lei lo seduce irreparabilmente quando, per ottenere le impronte digitali del malvagio brasiliano, si fa stoccacciare a mano aperta sul culo. Consegnerà poi la metà bassa del bikini all’esperto di tecnologia del gruppo, ottenendone calco delle dita e accesso al cuore dell’asiatico. Gli interrogativi, sì, hanno avuto risposte.