lunedì 30 aprile 2012

Knockout - Guarda, senza mani!

L'ha fatto anche Gualtiero Marchesi. L'altr'anno, in un patto faustiano con McDonald's, ha proposto per alcuni mesi due panini e un dolcetto di sua creazione, in foggia di fast food. Come a dire: il commercio può essere autoriale, basta volerlo. Beh, no: il commercio se ne sbatte degli autori, cerca solo il profitto, e se azzecca la combinazione di originalità e successo è solo un caso. Questo lo sa benissimo, versante cinema, anche Steven Soderbergh, che pur avendo nel curriculum vari titoli off (sin dai tempi di "Schizopolis") col business ci si è sempre trovato bene, basti pensare alla serie degli Ocean o, da ultimo, al pandemico "Contagion". Per questo, da parte sua, ci si aspetterebbe un minimo di onestà intellettuale: non c'è nulla di male nel passare dall'esperimento estremo al mainstream alimentare, basta non vergognarsene. Ma ecco, con l'ultima impresa, "Knockout" – titolo assurdo affibbiato dalla distribuzione italiana, evidentemente stanca di maltradurre l'originale (qui, "Haywire") – succede proprio l'opposto. Forse perché ispirato dal recente maledettismo chic, che l'ha indotto a intonarsi il de profundis registico per il prossimo anno, Soderbergh mette insieme un'opera trita e ritrita, nella quale tuttavia infila pretenziosi giochi di macchina al solo, cafonissimo, scopo di esibire i muscoli intellettuali. 

In realtà, ci si sarebbe accontentati del plafond: un banale action spionistico infarcito di sganassoni, inseguimenti e doppiezze, funzionale ai popcorn. Poiché però l'autore (?) non resiste alla tentazione di risultare eclatante (!), decide inopinatamente di affidare la parte di protagonista alla fighter di professione Gina Carano, una sorta di incrocio popputo tra Steven Seagal e Britney Spears. Mal, ovviamente, gliene incoglie, perché con qual certo sadismo le rovescia addosso insistiti primissimi piani, durante i quali l'esordiente, che pensava bastasse il repertorio marziale, si passa nervosa la lingua sulle labbra in attesa della fine della tortura. Idem, com'è intuibile, nelle scene di raccordo. Eterni campi lunghi di passeggiate che dovrebbero costituire parentesi meditative nel plot adrenalinico: in realtà l'ennesimo, snobistico, sfoggio di “guarda, senza mani!”.

La trama, se non altro, è davvero intricata: quasi tutte le presenze maschili del cast non hanno di meglio da fare che tentare di uccidere la forzuta, agente di una compagnia di mercenari al soldo del governo USA, di cui il relativo capoccia (nonché ex) vuole sbarazzarsi. Segue ogni genere di vani trappoloni, ivi compreso un giro per l'Europa (altro esotismo non richiesto dell'americanissimo regista) con canonico balletto di finti incarichi e connivenze. Non siamo, sia chiaro, nemmeno lontanamente dalle parti di Jason Bourne, anche perché Soderbergh, più che alla cura dei personaggi, è interessato a dare spazio al consueto attorume di fama, reclutato per l'occasione.

Nella ridda di evitabili comparsate, menzione d'onore per Michael Fassbender, che privo del mentore Steve Mcqueen limita l'esposizione delle nudità al torso muscolare, venendo per tutta risposta gonfiato di calci e pugni dall'eroina ed essendone infine - e sacrosantamente - eliminato. Non va meglio, peraltro, ad Antonio Banderas, avvilito da barbaccia incolta e abbigliamento hobo, oltre che spesso ripreso dal basso, con effetto-pigmeo: pur fuoricampo, nell'unica scena in cui è riuscito a radersi, sta per essere a propria volta malmenato. Quanto a Ewan McGregor, mastermind del complotto, gli viene riservata una rissa in riva al mare, naturalmente senza sottofondo musicale, per rendere l'ovvietà maggiormente metafisica.

Sul fronte collaborazionista, troneggiano invece Michael Douglas versione funzionario navigato, buono al più come silhouette aeroportuale negli assolati meeting tipici del genere, e il redimorto Bill Paxton, nel ruolo di padre della forzuta, che regge un'intera sequenza da autistico, al solo scopo di non far sapere ai nemici che la figlia si è rintanata in casa sua. Il culmine dell'imbarazzo lo si raggiunge però con Channing Tatum, prima potenziale giustiziere, poi partner sentimentale della nostra, che recita in uno stato di catatonia permanente, e regala all'attonito spettatore l'indimenticabile scena d'apertura: interno giorno, tavolino di un bar a NY, Tatum che guarda Carano fissamente, Carano che guarda Tatum fissamente, entrambi fissamente a disagio fino a quando, per fortuna, qualcuno dal set impartisce l'istruzione salvifica: ok, picchiatevi. Spiace pure che lo ammazzino, alla fine. In tutto questo, una nota: o a Dublino hanno i corpi speciali più imbranati del mondo, o Soderbergh, nel farli disastrosamente colluttare con la protagonista, ha perso di vista la credibilità. Urge piano sequenza di almeno un quarto d'ora, per redimersi.

LA SCHEDA
Knockout - Resa dei conti
La frase: "Ma quanto dura 'sta scena?"
Sconsigliatissimo: a chi, pur conoscendo Soderbergh, pensa ci sia un limite alla sua vanità registica.
Giudizio: KKKk