domenica 15 novembre 2009

Parnassus interruptus

È indelicato e crudele parlar male di un film mutilato, ma se di fronte alla morte del suo attore protagonista Terry Gilliam si è preso il rischio di concluderlo, anche noi, in questa rubrica di servizio, ci prendiamo quello di criticarlo. "Parnassus – l’uomo che voleva ingannare il diavolo" (altra occasione persa dalla traduzione italiana, che ha rovinato l’originale, ben più evocativo, "The Imaginarium of Doctor Parnassus"), benché sia già passato alla storia come l’ultimo film di Heath Ledger da vivo, ci è sembrato piuttosto il suo primo film da morto.
Ledger, per tutti, è l'angelo sacrificato, l'indimenticabile Joker, il James Dean di questi tempi così poco avvezzi alla mitologia. Inevitabile, quindi, che all’inizio dei titoli di coda della sua ultima fatica non si legga il nome del regista, ma l’epigrafe “un film di Heath Ledger e dei suoi amici”. Che per la cronaca sono, come noto, Jude Law, Colin Farrell e Johnny Depp. Divi che lo controfigurano al di là dello specchio, chi bene (Farrell), chi male (Law), chi rifacendo se stesso (Depp, ormai prigioniero della propria recitazione eccentrica). Di Gilliam, della sua immaginazione di cartapesta, drappi e carrucole resta solo lo scenario, sfortunatamente drogato dal computer, benché ancora capace di picchi espressivi (come la passeggiata sui frammenti di vetro della figlia di Parnassus, la Valentina di porcellana interpretata da Lily Cole).
Per conto nostro, ci saremmo accontentati di un’opera capace di dare seguito allo splendido inizio: un teatrino di strada (the Imaginarium appunto), allestito in un sobborgo londinese, dove il Dottor Parnassus (un Christopher Plummer consunto di cerone) invita le anime a trascendere la loro dimensione terrena, avventurandosi nella sua – e loro – fantasia. Ma da quando la comitiva trova Ledger, impiccato come un presagio sotto il Ponte dei Frati Neri, e scopre che è ancora in vita (o già morto), la storia non sa più se ruotare intorno a lui o al tema principale, ossia la battaglia del Doctor col Diavolo, invaghito della figlia e pronto a riprendersela, in adempimento di un antico patto faustiano. Mr. Nick, il nome di Gilliam per Lucifero, è ovviamente Tom Waits, che più che un demonio assomiglia terribilmente al cantante, accenno di baffetti compreso, almeno da quando si è messo a suonare cocci di bottiglia in abiti da zingaro.
Nessuno ci dirà che le sequenze della prima parte sono troppo lunghe (comprese le battute del petulante collega nano di Parnassus) perché bisognava garantire un girato con più Ledger possibile. Dopotutto, è il suo stesso personaggio ad essere irrisolto, nella provenienza e quindi nel destino, e, una volta moltiplicato nelle sembianze, nemmeno più ambiguo, ma semplicemente in frantumi, come tutto il resto. Perché crolla il teatro di Parnassus, crolla la speranza di vincere la risolutiva scommessa col Diavolo (chi conquista prima cinque anime ha salva quella di Valentina), crolla, in definitiva, anche l’obliqua, spesso spietata, carica grottesca di Gilliam, che annacqua tutto in una gradevole ma inutile sarabanda.
Alla fine, Ledger è morto da almeno un tempo, Law ha dispensato più sorrisi del dovuto, Waits tornerà a ballare da solo, e Plummer a guardare da lontano la figlia, strappata alla compagnia di giro ma non all’immaginazione del mondo, che le ha riservato, a quanto pare, una nuova esistenza. Perché – ed è questo che resta – il senso di un racconto (della vita) è nella sua stessa forza creativa e rigenerante. Ma se l’operazione, al cinema, può divertire, per noi rimasti in sala, alle prese con la riaccensione delle luci, è malinconico sapere che il tutto ha tratto spunto da un’interruzione: che il primattore si è levato il trucco, magari barcollando sbronzo nelle pause recitative (come fa Parnassus, annoiato dall’eternità), lasciandoci in cambio dei doppioni, insulsi e inservibili. E gettandoci addosso il peso dell'assenza, che sullo schermo è lieve come un turbinio di coriandoli.

LA SCHEDA

Parnassus - L'uomo che voleva ingannare il diavolo

In una frase: “nulla è per sempre, neanche la morte”
Sconsigliatissimo: a chi è ancora legato alla vena corrosiva del Gilliam di "Brazil" e "Twelve Monkeys".
Giudizio: KK

lunedì 14 settembre 2009

Smile - Prima ti guardo Poi ti sorrido

Consiglio preliminare: non fatevi fuorviare dal manifesto. Della cicatrice-zombie a forma di sorriso che ispira “Smile”, opera prima di Francesco Gasperoni, nuovo epigono degli horror all’amatriciana, non c’è alcuna traccia nel film. Abbondano piuttosto esotismi, maledizioni e grottesco, come si vedeva in certe produzioni italiche degli anni settanta.
Tutto si svolge nel deserto del Marocco, dove una compagnia di sette malcapitati ha improvvisato una vacanza on the road degna dei peggiori esiti. Una di loro, maniaca della fotografia, si è fatta scippare la macchina da una zingara, ed è alla ricerca di un aggeggio sostitutivo. Approda quindi in uno spaccio d’anticaglie, dove scova, tra vasellame e pulviscolo, una vecchia instant camera Polaroid. Il gestore – un Armand Assante in puro prestito di faccia, e nome – gliela svende per 25 euro, ammonendola di trattarla con cura e fotografare i suoi amici. Tutta presa dal mistero (cui contribuisce la solita bimba silenziosa, probabile figlia del padrone) l’acquista, e segue il suggerimento dell’azzimato strozzino.
Qui comincia la maledizione, e il trash. Refrain di genere: chi viene immortalato muore - scusateci l’ossimoro - per mano dell’oggetto presente nella foto. Cambia, peraltro, la location: Marocco permettendo, si sposta subito dalle dune a una boscaglia, dove gli sprovveduti vogliono improvvisare un campeggio, attratti dalla fama animistica del luogo (Lonely Planet dixit, almeno secondo lo sceneggiatore). Persi immancabilmente tra le fronde, cercano un aiuto da un iracondo cacciatore autoctono, che, notato l’accessorio, li avverte terrorizzato della maledizione che incombe su di loro: non scattate, per carità.
Nessuno, ovviamente, gli dà retta. Anzi, gli stolti hanno già fatto fuori, senza saperlo, una compagna di viaggio, la prima ad essere fotografata, e stranamente scomparsa dalla sera precedente l’escursione: tutti pensano sia tornata a casa, ma nessuno – beata innocenza – se ne accerta prima di ripartire. Noi, in realtà, sappiamo essere stata trafitta da un missile portatile (ritratto con lei su una parete) al momento del ritorno in albergo.
Il resto è mero canovaccio. Muoiono prima il cacciatore, poi tutti gli amici, tranne uno (quello preferito), della protagonista. Oggetti killer, a seconda del contesto fotografico: corna di cervo, fulmine (o forse autocombustione, non è chiaro: di certo la foto è venuta male), tronco puntuto, badile, altro missile, ma meno giustificato del primo. I due superstiti, miracolosamente, riescono nel frattempo ad uscire dalla foresta, e incrociano un cimitero – già visto di straforo alcune scene prima – dove scoprono con sorpresa le lapidi del cacciatore e della bimba del negozio. Gente già morta, e da anni, prima del loro arrivo.
Che succede? Presto detto. Ritrovata la jeep, e le tacche della connessione internet, i nostri scoprono che Armand Assante – il proverbiale, il folle – era in realtà un fotografo di cadaveri per i quotidiani, impazzito dopo aver scoperto che l’ultimo dei suoi soggetti era la figlia (certo, la bambina di cui sopra), uccisa barbaramente. Cervellotico il delirio successivo: l’uomo, per sfogare la propria rabbia, aveva ammazzato effettivamente a tema, cacciatore compreso, con lo stesso meccanismo della Polaroid, prima di impiccarsi. Dunque un fantasma, pure lui. E pure tutto il resto, verrebbe da pensare. Ma Gasperoni ha in serbo la sorpresa finale: per nulla interessato dal retroscena, che in effetti è del tutto inutile, deve ancora smaltire due vittime, e lo fa nel modo più pittoresco: mentre la protagonista sta scattando foto in mezzo al deserto per scaricare il malefico attrezzo, eccole passare dinanzi un’auto, che al momento del clic riflette nel finestrino, belle nitide, le sagome di lei e dell’amico. Oh, no. Rombo di motore e titoli di coda.

Note a margine:

- Notevole l’antefatto: un frontale schivato di un soffio dalla jeep del gruppo, con un pullman che successivamente si ribalta. Nello shock generale, la fotografa scende per immortalare il relitto, quando dal veicolo esce claudicante una lutulenta zingara che le strappa la camera, rifilandole come scambio culturale una scimmia insanguinata. In campo lungo qualcuno esclama, insospettabile: “sembra una situazione surreale”. Probabilmente una glossa dello script, non cancellata;
- Eccezionale la sequenza del badile-fantasma, che galleggia malevolo nell’aria, prima di trafiggere la vittima. Mancano i fili, poi siamo all’avanspettacolo;
- Da brividi la regia: dall’inizio alla fine fa uso quasi esclusivo del primo piano, neanche si trattasse di un documentario;
- Visto il tema, come titolo “Cheese” ci sarebbe sembrato più coerente.

LA SCHEDA

Smile

In una frase: “sberle dall’inizio alla fine, recitazione pessima da parte di chiunque”. Anzi, scusate, questa era quella di "G.I. Joe". La frase corretta è: “sto rimpiangendo G.I. Joe”
Sconsigliatissimo: a chiunque continui a preferire Tarantino a Mario Bava, nonostante le dichiarate parentele artistiche.
Giudizio: KKKk

giovedì 20 agosto 2009

S. Darko

Donnie avrà anche avuto una sorella, ma "S. Darko", il sequel apocrifo di "Donnie Darko", non è nemmeno lontano parente dell’originale.
Privo delle stimmate di Richard Kelly, autore del primo episodio, il film su Samantha, sorella minore del protagonista (la svogliata Daveigh Chase), non è che una bieca rimasticatura delle idee della storia precedente. Anzi, un saccheggio.
Perché, se di viaggi nel tempo, universi alternativi e sonnambulismi pur sempre si parla, le parti sono cambiate: nella visione di Chris Fisher, regista dell'operazione, non è più il coniglio Frank a indottrinare sulla fine del mondo ma S. stessa, per l’occasione in versione zombie, che lancia anatemi e comandi al malcapitato di turno, un reduce dall’Iraq stravolto di paura (per gli amici Iraq Jack), risparmiato temporaneamente dalla caduta di un meteorite.
Il film è puro abuso di immagini e suggestioni già sperimentate: i wormhole e consimili, che ribaltano la storia due volte (rendendone totalmente inutile la prima parte), le false apparenze (al posto del guru pedofilo c’è il prete pervertito, che creatività), l’ambientazione provinciale (anziché il liceo, la cittadina on the road di Conejo Springs, dove S. e l’amica Corey finiscono per un guasto al motore dell’auto).
Del tutto assenti, invece, i punti di forza del predecessore: a parte il tono malinconico e terrorizzato, sostituito da un uniforme piattume descrittivo, manca la critica sociale, colpevolmente barattata con una sequela di stereotipi (il fantoccio alla James Dean di cui s’invaghisce Corey, il secchione represso che si ritrova per le mani un pezzo del meteorite iniziale, sbarellando di conseguenza, e l’immancabile bambino fantasma). Unica a salvarsi, nel naufragio generale, è Elizabeth Berkeley, nelle vesti di una serial killer timorata di Dio.
Pura volgarità, invece, l’aver reso l’universo parallelo, o per meglio dire la poetica della possibilità, un mero espediente retorico, al punto che S., per l’intera durata della trama, fa la spola con l’Aldilà: prima viva di giorno e morta di notte, poi morta di giorno e di notte, infine nuovamente viva di giorno e, si spera, solo sonnambula per il resto.
Vi chiederete che ne sia stato del coniglio: ebbene, è introdotto a forza nella storia dalla protagonista, che in uno dei suoi discorsi da occhiaie intima al povero reduce di cui sopra di farne foggia per un’armatura, al solo scopo – riteniamo – di ricreare il familiare logo del primo film, ad uso e consumo dei manifesti.
Pare perfino superfluo scrivere che il finale è identico, anche registicamente, all’episodio-pilota: lieve carrellata sulle vite dei personaggi dopo il mutamento dell’antefatto, con ammiccamenti vari ai paradossi temporali. Alla resa dei conti, il meteorite è effettivamente caduto sul soldato (poveraccio) e S. torna alla vita da cui fuggiva (ma senza l’amica, che resta col fantoccio). Quanto al bambino fantasma, tale per pregresso rapimento della Berkeley, lo vediamo guardare attraverso le sbarre del suo nascondiglio. Salvato o meno dal suo destino non è dato sapere.
Sola consolazione (?) è che su Conejo Springs non s’abbatta la pioggia di meteoriti preconizzata dal nerd nel futuro alternativo: si tratterebbe – ipse dixit – dell’arrivo di non ben chiariti “tesseranti”. Chi ci capisce è bravo.

Note a margine:
- Tra le vittime della Berkeley c’è anche il fratellino del fantoccio. Circostanza buona per creare un’empatia con S., anch’ella sconvolta per la morte di Donnie. Peccato che il regista non ci dedichi più di un minuto;
- Iraq Jack è nipote di Nonna Morte. Sappiamo che morivate dalla voglia di saperlo.

LA SCHEDA

S.Darko

In una frase: “ho dormito dieci minuti buoni”
Sconsigliatissimo: a chiunque, dopo Donnie Darko, voglia conservare il ricordo di un film originale e intelligente. Non lasci che questo seguito ci precipiti sopra.
Giudizio: KKKK

martedì 2 giugno 2009

Battle for Terra (Battaglia per la Terra) - 3d

C'è un film di cui non ho mai sentito parlare (minimamente, giuro), c'è una settimana alle spalle con circa 3 ore di sonno per notte, c'è un amico che – amante dei pupazzetti e profeta del treddì – propone serata al cinema, c'è un multisala attrezzato con le più nuove e spettacolari tecnologie, ed un localaccio attiguo ove rimpinzarsi di hamburger e patate fritte. Gli ingredienti son tutti lì, basta mescolare e servire. Il risultato è stato, decisamente, straniante. Provo a renderne conto, per quanto possibile.

Battle for Terra viene (brillantemente, come sempre) tradotto e distribuito in italiano come Battaglia per la Terra. Valà, pensavo che in inglese si dicesse Earth, non si finisce mai di imparare. Entro in sala avvolto nell'ignoranza più totale riguardo al prodotto che mi accingo a sperimentare. Entriamo in sala e non c'è la maschera a fornire i preziosissimi occhialini per la visione tridimensionale (cominciamo benissimo), ci si siede e lo scarso pubblico è di quelli indecifrabili, che non consentono di prevedere che tipo di film si sia finiti ad affrontare. Passano i soliti trailer 3d, ed inizia lo show. Sconvolgente.

Su un pianeta che non è il nostro (mmm) il lungometraggio si apre con una scena bucolica – se accettate di applicare la definizione ad una specie di tapiro con le ali che svolazza (funzione: insetto) da una all'altra di una serie di strutture vagamente simili ad anemoni con le ali (funzione: fiori), si suppone impollinandole. Il paesaggio, per dirla tutta, è discretamente desertico (e lisergico, pure), ma insomma pare di capire che sia un posto felice. Abitato, oltre che dagli insettazzi e dalle piante (mah) di cui sopra, da due o tre altre specie animali e vegetali. Gran bell'ecosistema, complimenti. Si viene a scoprire che ci sarebbe pure la fatidica specie intelligente, personificata nella fattispecie da una razza di strane bestie, sorta di incrocio tra Snorky e tavole da surf (la definizione non è mia, ma calza da dio) – che, indovinate?, pure sanno fluttuare. Loro, tirando delicati ma efficaci colpi di coda (a forma di surf, appunto) e galleggiando nell'aere. Hanno occhioni grandissimi (secondo me son tutti fatti come biglie, ma loro negano) e animo delicato. Vivono in pace con la natura. Guidano specie di mega aquiloni per spostarsi più velocemente – il che regala scene memorabili, come quella in cui due giovani virgulti di questa fetente razza svolazzano in compagnia di una sorta di balena dei cieli. Della quale, peraltro, siamo gratificati con diverse inquadrature; inclusa una dettagliata del suo complicatissimo sfintere. Wow.

In tutto ciò giunge sulla scena una gigantesca nave spaziale, che oscura il sole e getta in un immotivato timor panico gli inquilini dell'unica, minuscola, città del pianeta – gli incolti credono trattarsi di dei venuti dal cielo. Più prosaicamente, si tratta degli umani, emigrati dal nostro pianeta a seguito di guerra distruttrice in cerca di nuovo spazio vitale. E per niente disposti a negoziare. Poco furbi, però, dato che, invece di nuclearizzare o altrimenti spazzar via gli autoctoni, passano a volo radente con delle navicelle e li rapiscono uno per uno – allo scopo, pare, di capire come inalino un'atmosfera per noi particolarmente irrespirabile. Nell'espletare la suddetta nobile missione uno degli eroici piloti si schianta malamente. Viene salvato dalla virgulta della razza aliena (che lui, con commovente gentilezza, apostrofa ripetutamente “mostro”), interessata non tanto alla di lui manzitudine (particolarmente sexy le orecchie a sventola del nostro) ma a convincerlo a salvare il proprio padre, prigioniero nell'ultimo raid umano. A rimorchio del fessacchiotto sta un robottino insettiforme e saccente (ma, in fondo in fondo, molto buono). Nasce rispetto, amicizia, fiducia e cazzi varii. Lui torna a casa, i.e. sull'astronave madre, con la compagnia di lei (che, peraltro, è dotata di innato genio meccanico, nonostante appartenga ad una razza volontariamente arretrata – pianeta che vai, usanze che trovi). Si scopre che il pacificissimo popolo di scarrafoni malcresciuti un tempo era guerriero come e più di noi, prima di ravvedersi. Che istruttivo. Incidentalmente, sono più che pronti, gli imenotteri sproporzionati, a riprendere in mano le armi onde cacciarci – giustissimamente – a calci in culo. Sul fronte umano, un generale fascistoide ed ingrifato dalla conquista sferra l'attacco finale, desioso di impiantare un gigantesco siringone sul pianeta e renderne così l'atmosfera degnamente ossigenata – garantendoci la vittoria per asfissia dell'avversario. Peccato che l'eroico pilota sia ormai conquistato dalla bella ed intelligente mostriciattola, e si vada a schiantare contro l'ultima speranza della nostra razza onde salvare gli indigeni. Il porco traditore. Ma, come sempre c'è un ma.

La giovine creaturina ha appreso la lezione e l'insegna a destra e a manca: meglio convivere in pace che massacrarsi a vicenda. Rifiutandosi, quindi, di lordare di sangue le mani di tutti, propone soluzione di compromesso. Costruiamo un enorme tendone che, per virtù del tutto inesplicabili al sottoscritto recensore, riuscirà a trattenere sotto apposita cupola ossigeno in quantità sufficienti a garantire il prosperare degli umani. Prosperare, oddio, sembrano sorci in gabbia o uccelletti in voliera, ma tanto si può avere e di tanto si accontentano.

I dettagli mi sfuggono, stante che ho vagato tra sonno e veglia per metà visione – del resto, risultava piuttosto difficile accorgersi di essere al cinema di fronte alla messe di improbabili baggianate che scorrevano sullo schermo. Il pensiero che si trattasse di digestione pesante e conseguenti vaneggi privati addolciva il tutto. Ma fatemi pensare, dimentico forse qualcosa?

Ah, si. Terra è il nome che i nostri, lontani millanta anni luce dal sistema solare, han dato (loro che parlano inglese, of course), al pianeta che volevano parassitare. Quello degli Snorky, si. Bella la traduzione. Peccato il film.

LA SCHEDA

Battle for Terra - 3d

In una frase: "i disegni son fatti anche bene, ma queste bestie non si possono guardare".
Sconsigliatissimo: a chi ama i buoni lavori in CG: Pixar, Dreamworks, etc. O i cartoni tradizionali stile Disney. O quelli giapponesi. Insomma, avete capito. Gli altri, che ve lo dico a fare?
Giudizio: KKKK (non vorrei eccedere, mi son perso qualcosa dormendo)

S. Valentino di sangue - 3d

Dapprincipio: Harmony, ridente cittadina della provincia americana. Ridente, ridente un Kaiser: è posto squallido, vuoto, privo di motivi ed interessi, che gira tutto attorno ad una miniera, un supermercato ed un motel da pochi soldi ove infrattarsi con locali battone (più o meno professioniste) – tutti tòpoi classici dell'horror, che verranno male impiegati in seguito. In compenso la città (si, insomma, più o meno) è abitata da un monotono sottobosco di fessi, cornuti e psicopatici (difficile, in onestà, dire quali delle tre categorie prevalga, demograficamente).

In tale idilliaco scenario si innesca la tragedia: un giovane bighellone (magistralmente malinterpretato da tale Jensen Ackles), in qualità di figlio del padrone della baracca, viene inopinatamente messo a lavorare in una miniera. A seguito della sua assolutamente totale dabbenaggine, un gruppo di sei minatori rimane coinvolto in un'esplosione (causale: gas) e sepolto sotto il crollo. Ne verranno estratti ma, sfortunatamente, delle sei vittime del disastro 5 hanno ricevuto altrettante amorevoli picconate al cranio dal sesto uomo, l'amabile Harry Warden – il quale si è così riservato l'ossigeno rimasto, fino a poterne uscire vivo, sebbene in coma.
Un anno dopo il buon Harry si sveglia, in ospedale, e non ha per niente dimenticato o metabolizzato bene la faccenda: anzi, massacra allegramente (a mani nude? Oppure gli avevano, cortesemente, lasciato il piccone tra gli oggetti personali? Mah) personale ospedaliero assortito, lasciando agli attoniti poliziotti un pout-pourri di corpi smembrati (letteralmente: torso da una parte, gambe dall'altra, voilà), casse toraciche squarciate, cuori estratti, delicatessen varie insomma.

Tale ardore non viene senza scopo, chiaramente: il fiero picconatore vuole imbucarsi ad una festa con tutta la peggio gioventù locale, tenuta sagacemente nella miniera di cui sopra (creatività dei teenager indigeni) onde vendicarsi del maldestro giovane responsabile dell'incidente (a nome Tom, so che morivate dalla voglia di saperlo) etc etc. En passant, squarta variamente tutti coloro che incontra, forzando un ricambio generazionale non previsto. Sventuratamente per Harry – e per voi, che vi sareste risparmiati ben oltre un'ora di film – alcuni imberbi oppongono resistenza, rallentando il massacro fino all'arrivo della polizia. I quali poliziotti inseguono il mascheratissimo (sembra un Darth Vader ante litteram, soprattutto per il respiro appena appena pesante che lo precede in ogni dove) killer su & giù per la miniera, lo smitragliano di pallottole, infine riemergono vittoriosi. Pare.

Dieci anni dopo, veniamo riportati ad Harmony e, sorpresa! Non è cambiato un cazzo! Il posto è sempre immerso nell'identica, spessissima coltre di inutile squallore. Solo Tom se ne è andato, avendo perso un po' di serenità col massacro di San Valentino. Ritorna, il furbone, al fine di svendere la miniera paterna (chissà come mai, poi, con tanti bei ricordi che ci aveva). Viene accolto, a seconda dei casi, come colui che porta la morte (tutti convinti che Harry Warden sia defunto ma ritorni prestamente ad inseguire l'ex giovane, ancora e sempre maldestro), o come colui che si vuole riscopare la ex fiancè, ora moglie dello sceriffo. Insomma, un benvenuto carico di affetto. Ciononostante si ferma (a scopo sessuale, è ovvio), ed effettivamente i massacri a picconate riprendono. Con essi ha inizio la ridda di ipotesi su chi sia il malvagissimo responsabile. Dapprima gli scommettitori si concentrano su Harry Warden. Si, quello ucciso dieci anni prima. Onde far crollare le quote un manipolo di vecchiacci (ex capo della polizia, ex dirigente della miniera, etc) conduce i giovani protagonisti sul luogo ove diedero (i vegliardi), con le proprie manine, sepoltura al fu picconatore principe di Harmony. Peccato che la fossa sia vuota. In compenso, veniamo a sapere che era stato sepolto con maschera e piccone. Un tocco di classe, il rispetto per i defunti (ammesso che lo fosse). Si sprecano le scene ridicole, ed il 3d viene sistematicamente impiegato in effetti a dir poco scolastici. La gente viene bucherellata con modalità ripetitive (grossa preferenza per cranio e cassa toracica), l'affannoso respiro del misteriosissimo killer (alitosi? Sospettiamo di si) lo annunzia sempre e ovunque con debito anticipo. Fortunatamente ha anche letto la grammatica minimale degli horror movies, quindi si palesa comunque e solo quando ce lo si aspetta. Mamma, che paura! La trama, in compenso, si rifiuta di dipanarsi, rimanendo incollata in eterno allo stesso, stantio, punto.

Giunge il finale, e qualche pietoso tentativo di sviarvi non vi ha certo impedito di mantenere salda la convinzione che dietro la mascherona (e l'asma) dell'assassino si celi una certa persona – ci avete messo circa 9 secondi a capirlo, e non vi sbagliavate. In compenso gli abitanti sono tutti di comprendonio durissimo, e non ci arrivano finché non si trovano un piccone piantato in qualche organo più o meno vitale. Selezione naturale, vien da pensare. Qualcuno si salva per culo smodato, o per meriti non propri. Il culmine si ha, somma sorpresa, nella miniera (l'avessero chiusa, gli stolti). Dalla quale usciranno una coppia (canonica, uomo & donna, niente di innovativo, non ci sperate) di sopravvissuti moderatamente eroi. E, come si conviene, il killer stesso. Domanda: ma davvero in America poliziotti, pompieri, soldati non si accorgono se uno dei loro si allontana dal luogo della tragedia con una maschera che gli cela il volto, barcollando e grondando sangue? Sarà l'addestramento speciale...

Una considerazione estetica, in chiusura: la prossima volta che fate un horror 3d, per il canonico ruolo di vittima-donna-nuda, scegliete una con due tette più esuberanti. Sennò l'effettone della tridimensionalità mi rimane mortificato. Grazie.

LA SCHEDA

S. Valentino di sangue - 3d

In una frase: "era meglio IlMaiNato" - che è tutto dire. In alternativa: "Dai, è lui, chiaramente". Poi, dopo un'ora e poco più: "Te lo avevo detto che era lui".
Sconsigliatissimo: a chi desiderasse andare a vedere un film con degli effetti, e non solo effetti senza film. E a chi si trovasse a disagio con budella in costante bella mostra (delicatini!).
Giudizio: KKKk (per me 'ste due monnezze pari sono)

S. Valentino di sangue - 3d

Forse verrà un momento, in futuro, in cui ci volteremo indietro e ricorderemo l’avvento della terza dimensione al cinema. Come accadde per il sonoro, e il colore. Di certo, ora come ora, siamo in piena fase “nickelodeon”: spettacoli da un soldo messi insieme al solo scopo di sorprendere il pubblico, come e ancor più del famoso treno che bucava lo schermo un secolo fa.
È fatale che, essendosi nel frattempo definiti i generi, il compito debba toccare a due tipologie di opere: gli horror e i cartoni animati, da sempre votati all’estremizzazione delle situazioni. Purtroppo, ciò avviene anche a scapito di regia e sceneggiatura, come nel caso di “My bloody Valentine 3d”. Perché non di film si tratta, bensì di semplice tunnel dell’orrore da luna park di provincia, con tanto di scenario minerario e vagoni (anche se, va detto, il villain di turno è un salutista, e deambula che è un piacere).
Già dalla sigla iniziale apprendiamo che nella cittadina di Harmony (non ci soffermiamo sulla sublime ironia del nome) il minatore Tom Hanniger, per tragica distrazione, ha causato un incidente in un tunnel della miniera. Muoiono tutti i suoi compagni di lavoro tranne uno, Harry Warden, il quale, rimasto in coma per un anno, si risveglia e non trova di meglio da fare che ridurre a spezzatino il personale dell’ospedale (come non è dato sapere, non esistendo mazze ferrate nelle camere dei pazienti), prima di darsela a gambe.
La vicenda (ri)comincia appunto da una festa di S.Valentino, che un gruppo di ragazzi, tra cui lo stesso Hanniger, decide – con ammirevole intuito – di ambientare nella miniera.
Ovviamente, Warden si ripresenta dilaniando corpi per la gioia del 3d, in modo tanto smaccato quanto ridicolo. Anzi, al termine della nuova mattanza, viene pure sforacchiato dai colpi di pistola degli agenti accorsi sul posto. Ma non ucciso, ci mancherebbe.
Hanniger, d'altra parte, è sopravvissuto alla strage e, leggerissimamente scosso dagli eventi, decide di andarsene. Tornerà ad Harmony solo dieci anni dopo, per rivendere la fortunata miniera che era del padre.
Accolto in città con lo stesso calore che si riservava a una strega durante l’Inquisizione (la comunità tiene assai al luogo dell'eccidio), dovrà fronteggiare il marito sceriffo della sua ragazza di allora, nonché un’improvvisa recrudescenza di delitti, perpetrati secondo le modalità predilette dal killer picconatore (ossia squartamenti, dissezioni, massacri).
È ancora Warden? I vecchi del paese giurano di averlo ammazzato, ma nella fossa scavatagli per l’occasione non è rimasto nulla. Dunque, partono le appassionanti ipotesi sull’autore delle gesta (in città sospettano, più che altro per antipatia, che si tratti di Hanniger).
Da illusi, confidavamo in un finale pseudo-logico. Invece, come non bastasse, gli illuminati sceneggiatori (?) utilizzano, una volta di più, il doping del personaggio impazzito. Che fra l’altro, ci viene detto, scamperà all’ennesimo tentativo di cattura, travestendosi da poliziotto e allontanandosi inosservato (nonostante l’andatura caracollante, tipica di chi ha ricevuto una scarica di mitra addosso). Una fortuna.
A chiusura, qualche nota: il film, effettivamente, gronda sugo da ogni poro. Si ha spesso la sensazione, anzi, che i personaggi siano fatti di polistirolo, vista la facilità con cui vengono segati i busti, bucati i crani, slogate le mandibole. Come trucco, niente da dire. Come estetica, è quella tipica degli orrori seriali, con qualche incursione nel sadico e vari tuffi nel trash (memorabile, in questo senso, la sequenza dell’albergo, che assomma tutti i luoghi tipici del genere: nudità esposte, nanismo preso in giro, animali sbriciolati). Quanto alle tre dimensioni, il bilancio è scarno: degli oggetti che ci sono virtualmente arrivati addosso, abbiamo scansato una pistola, e guardato con malinconia un bulbo oculare divelto. I colpi di piccone, invece, ci hanno mancato tutti, ma forse è per via della sonnolenza.
LA SCHEDA
S. Valentino di Sangue - 3d

In una frase: "non avevo capito che fosse sua la miniera"
Sconsigliatissimo:
a chiunque ami gli horror (è indicibilmente noioso), le tre dimensioni (sono sprecate) e la festa di S. Valentino (mettete dei fiori nei vostri picconi).
Giudizio:
KKKK

IL MAI NATO

Dopo gestazione indicibilmente lunga, eccomi infine qui (spinto da sensi di colpa, insistenze di Egon, fancazzismo endemico, odio insanabile nei confronti degli horror che ci propinano oggidì) a partorire la recensione dell'ennesimo film di infima qualità che ci sciroppammo per risparmiare il tormento a voi, fedeli aficionados. Avvertenza: ho esaurito la verve umoristica con i sagacissimi riferimenti alla maternità corsivettati nella prima frase – il caldo, si sa, mi rende financo meno ilare del solito. Di conseguenza, da qui in avanti avrete una fredda cronaca dell'esperienza cinematografica costituita dal vedersi l'horror cul (la “t” sarebbe non solo superflua ma sviante, vedasi sotto) dal titolo, come avrete indovinato, Il mai nato.

In compagnia, dunque, del collega - assai più ammaliato di me dal genere – e soprattutto intossicato di puramente cinefilica attrazione alla vista del promettente poster (ove campeggiavano prorompenti e sodissimi i glutei della bonazza protagonista, e solo a margine – giustamente – compariva il pestifero Jumby, quello che vuole nascere, ora etc etc) – ingrifato, insomma, come si conviene, e munito di abbondante sfiducia, mi reco in sala. Segue un'ora e mezza scarsa in cui la vicenda si dipana sullo schermo senza un sussulto che sia uno - suggerimento ai produttori di horror: quando volete far saltare il pubblico sulla sedia NON avvisate sistematicamente con musichetta e inquadratura standard che sta per comparire il mostro cattivo a fare “bu!”. Sennò poi la gente se lo aspetta. E' il 21mo secolo, siamo tutti scafati, blablabla. Il succo della vicenda (invero, assai poco) si può riassumere in quanto segue:

  • il solito manipolo di produttori senza straccio di qualità si riunisce in sessione plenaria e, dopo – verosimilmente – 120 ore di intensissimo brainstorming, propone la fatidica genialata: facciamo un horror. Wow. Ma, attenzione!, vi è la novità. Il tema: bimbi non nati, bimbi che non si vorrebbero far nascere. In sostanza, il primo horror abortista a memoria d'uomo. Brivido, progressismo, benvenuti nell'era-Obama;
  • la protagonista (bonazza opportunamente sventolata al pubblico) è giovane e ingenua, e si vede catapultata in un mondo d'incubo allorquando diverse inquietanti visioni le si affacciano mentre fa jogging: particolarmente spaventosi un botolo grasso con faccia da uomo ed il figlio dei vicini che la squadra arrapato;
  • segue epifania del Mainato eponimo, che manifesta singolare gusto nell'apparire (“bu!”, sistematico) di preferenza dallo specchio del bagno, quando la ragazza si rimira poco vestita la sera – bravo!, bis!;
  • indagando sull'apparentemente tranquillo passato della famiglia, la ragazza improvvisamente rimembra che la madre è morta in manicomio, devastata dalla follia, la nonna non si è mai saputo chi fosse, ci sono diverse cose che non quadrano (un fratello? avevo un fratello gemello che non è mai nato? Ma dai?): il padre, in compenso, se ne sbatte altissimamente, giustamente preso dal lavoro (un po' di etica, perdio!);
  • si svela che la nonna è viva e vegeta, ancorchè vagamente turbata da avvenimenti passati: era stata in campo di concentramento (ah! Ecco l'altro ingrediente nuovo! Horror a tema shoah!), ove il dr. Mengele (voilà, sempre più originale), sperimentando allegro, le aveva accoppato il fratello gemello (daje...), aprendo così la porta alla incarnazione di un demone tipico (così pare) dell'immaginario ebraico – il dybbuk;
  • il quale dybbuk, pervicace fino alla nausea, perseguita da allora la stessa famiglia per generazioni, in cerca di altro veicolo tramite il quale infilarsi nel mondo dei vivi – si può, pare, impadronire di chiunque gli venga a tiro, ma solo pro tempore, ed invece vorrebbe tanto possedere a tempo indeterminato qualcuno (occorre che sia uno di due gemelli, mah), e fatidicamente sceglie la nostra eroina (bravo, di nuovo!) - cui in dono porterebbe un caratteraccio, ma anche degli splendenti occhi azzurrissimi (il sempre valido Mengele aveva ottenuto lo scopo, infine, di arianizzare l'ascendente ebreo);
  • entra in scena l'ottimo Gary Oldman, nella parte di un rabbino progressista e svogliatissimo, che dapprima rifiuta di aiutare la ragazza con un esorcismo cabbalistico (ecco, ecco la novità!), ma poi – perseguitato dai sensi di colpa e dalle visioni del fondoschiena di lei – ritratta la propria posizione, recluta l'indispensabile aiuto di un suo amico di colore allenatore di basket (giuro!) e una dozzina di altre insipienti comparse, e si accinge ad allontanare per sempre il dimonio;
  • la cosa, ovviamente, costa un succoso tributo di sangue e dolori assortiti, ma riesce. Non fosse che la giovine, in un finale che veramente riesce a non sorprendere come poche volte nella storia, scopre di essere incinta: indovinate? Gemelli! Si attendono sviluppi. Ma anche no.

Ce ne sarebbero altre da dire. Si tenta di rivitalizzare un soggetto defunto prima di nascere (già che siamo in tema) con millanta citazioni da classici del genere – ma ogni tentativo di serietà frana miseramente di fronte alla scena in cui un vecchio intronato e semiparalizzato (vicino di stanza della nonna segreta in casa di cura) si trova a zompettare allegro per i corridoi nottetempo, imitando scioltamente su per le scale l'andatura resa famosa ne L'Esorcista. La morale che se ne trae, inequivocabilmente, è che un po' di possessione fa miracoli per l'artrite reumatoide – e per diverse forme di demenza senile. Il resto del cast è composto da persone che si meritano chiaramente di finire ammazzate (vedasi canonica amica scema della protagonista, trucidata dal nanerottolo vicino di casa, che peraltro chiaramente è cattivo dentro, di suo, e la possessione in fondo è tutta una scusa) o che se ne fottono bellamente. Oldman è esemplare in tal senso – ma, se non altro, non vuole vendere il solito “abbi fede e ti salverai”. Che, tanto, non è vero. Lo sanno tutti.

Morale: gli ebrei, cattivoni, abortiscono e si beccano i propri demoni. Forse mi son sbagliato. Forse non è poi un horror così progressista.

PS: una preghiera che viene dal cuore. Basta citare Mengele a sproposito. Ormai è stato protagonista di più opere di fantasia del Conte Dracula e del Mostro di Frankenstein messi insieme. Sarebbe il caso di ricordarsi che non si tratta di un cattivo da fumetto - su, un piccolo sforzo.

LA SCHEDA

IL MAI NATO

In una frase: "era meglio IlMaiNato", in riferimento a SanValentinoDiSangue3D - non saprei, invero: qui avrebbero pure ambizioni elevate, il che è imperdonabile...
Sconsigliatissimo: a chiunque non si spaventi più per un "bu" annunciato. E non si accontenti di poche inquadrature del fondoschiena della protagonista. Almeno quello, abbondate!
Giudizio: KKKk

lunedì 13 aprile 2009

Duplicity

A suo modo è interessante. Interessante in quanto si tratta di un film en travesti. Dal titolo, intuivamo il solito thriller ben confezionato con storia d’amore annessa, e attori abbastanza popolari da esaltare la sceneggiatura. In realtà, si tratta semplicemente di una finta spy-story, nascosta dietro i sorrisi da copertina di Clive Owen e Julia Roberts (molto in forma, va detto), che vorrebbe giocherellare coi cliché, e lascia in dono il solito pugno di mosche.
Tanto per cominciare, è noioso. Inseguimenti al rallentatore, dialoghi sfiancanti, personaggi che convincono solo per via delle facce, non delle parole. Col genere, una volta, si raccontava e basta, senza preoccuparsi della psicologia dei protagonisti. Adesso, invece, si preferisce ripiegare la trama su se stessa, traendone le conseguenze esistenziali, neanche si trattasse di un dramma da camera. Così, ecco che, pure in un contesto scanzonato, la storia non è soltanto quella di due ex agenti segreti implicati nello spionaggio industriale, all’apparente seguito di due aziende nemiche, ma di due persone che vorrebbero innamorarsi l’una dell’altra senza fidarsi troppo del partner.
Lo scenario non è esattamente nuovo, e non è mancato chi, anche in tempi recenti (come il dolente Bob De Niro di "The good shepherd") ha meditato sull’assurdità dei cosiddetti “servizi segreti”: chi sta con chi, chi scopre quando, chi mente meglio, eccetera eccetera. Senza più una causa, se non la stessa abnegazione al lavoro. Stolto balletto, privo di vincitori e vinti, se non, almeno in questo caso, Tom Wilkinson e Paul Giamatti, rispettivamente abile burattinaio e pigmeo ambizioso. Bravi entrambi, e sprecati.
Gliroy, stavolta, non sapeva che pesci pigliare. Se con "Michael Clayton" aveva la barra dritta sul problema del compromesso e dell’idealismo, qui non fa che mescolare le carte con una rimasticatura dell’intrigo. Roberts che frega Owen (in apertura), Owen che frega Roberts (poco dopo), Roberts che flirta con Owen e viceversa, entrambi che flirtano con se stessi, e se ne vantano. Nessuno, pubblico incluso, sa da che parte stia la verità, ma non c’è nulla d’affascinante in questo ghirigoro di bellocci che, ogni dieci minuti, si rivedono, bevono un paio di bicchieri, se la raccontano, non si fidano, fingono di litigare, ne escono, si amano, progettano addirittura una vita insieme contro i propri interessi, confessano d’aver mentito, dillo prima tu, no prima tu, e chiudono con un sorriso consolatorio che sa tanto di presa in giro.
L'intreccio, che dovrebbe essere il vero protagonista e non il pretesto di un continuo chiacchiericcio, riaffiora a tratti, ma è troppo debole per colpire. La sceneggiatura, d’altro canto, non è esattamente quella di "Closer", che aveva gli stessi interpreti ma ben altre idee, e sa molto di terapia di gruppo e poco di divertissement croccante, come forse aspirava ad essere. Regia in prestito (compreso uno stucchevole abuso di split-screen), interpretazione di maniera, manifesto, pure quello, mediocre. Nel complesso, chi si aspettava l’intrigo è rimasto deluso, chi l’ironia l’ha vista evaporata, chi gli attori forse soddisfatto, ma per quello bastava qualche pubblicità di profumi.
LA SCHEDA
Duplicity
In una frase: “se ti dicessi che ti amo, farebbe differenza?”
Sconsigliatissimo: a chiunque preferisca il cinema ai cubi di Rubik portatili.Giudizio: KKKk

giovedì 19 marzo 2009

Film bello dell'anno - Gran Torino

di Ray Stantz

L'hanno detto tutti, lo facciamo anche noi. Sergio Leone, decenni fa, disse che Eastwood aveva due espressioni: con cappello e senza. Verissimo, all'epoca. Nel frattempo l'allora giovane (nemmeno poi tanto, per gli standard Hollywoodiani – soprattutto per quelli odierni) Clint è diventato un'icona a pieno titolo, la sua presenza riempie (“buca”, si dice) lo schermo senz'altro dover aggiungere, la sua non è più mono – o bi – espressività ma recitazione minimale, comunica a livello basilare (animale, nel senso che è prossimo alla parte più istintiva, irrazionale e vera di ogni essere umano) in un modo/mondo privato, fatto di sguardi sbiechi, gesti taglienti e tagliati, parole smozzicate. Quel che è più sorprendente è come l'attore, il divo, sia divenuto un cineasta sublime. Un film-maker, facitore di opere cinematografiche, con la compostezza, l'eleganza, la maestria dei classici. Eppure capace di toccare, trattare, affrontare di petto temi fondamentali ed attualissimi. Le sue ultime prove da regista ne sono costante ed inoppugnabile testimonianza. Stavolta tocca di nuovo i livelli massimi, ed è una gioia darne testimonianza.

Raccontare “la storia” pare quasi uno sgarbo all'autore e ai lettori. Che sono avvisati: se perdono questo film, non faranno altro che danneggiare se stessi. Ma la trama, dopotutto, è cosa minore. Storia di violenza, molto. Passata e presente, fuori scena o illustrata in modo secco (ma mai gratuito). Storia di persone, di esseri umani – diversi eppure tremendamente simili. Che parte dal melting pot americano e si (e ci) trasporta nel presente di tutti noi con efficacia vertiginosa ed inevitabilmente toccante. Storia di un uomo solo, alla fine della propria vita. Colmo di rabbia e soprattutto di dolore, di sfiducia e pregiudizi – tutto evidente, sbattuto in faccia. Ma anche “un brav'uomo”, come lo apostrofa una ragazza, una vicina di casa cinese (di etnia hmong, per l'esattezza), una delle persone che – per puro accidente del caso – si trova ad instaurare un rapporto con lui. Un rapporto che nessuno desiderava, che appariva impossibile principalmente per volontà delle parti in causa. E che pure nasce e cresce, in modo vero, vivo. E serve a mostrare un po' alla volta quest'uomo malato, stanco ed arrabbiato (inferocito, anzi, col mondo intero) eppure pieno di vita, di forza, di insegnamenti da offrire. Ed assieme a lui a mostrare il mondo che lo circonda, le persone così stranamente e repentinamente vicine seppur all'apparenza condannate in eterno ad essere distanti.

Un giovane entra per caso, e nel peggiore dei modi, nella vita di un uomo impossibile da avvicinare. Che ne diviene il mentore, la figura paterna (e grazie, mille volte grazie a chi lo dice apertamente, in dialogo, invece che autocompiacersi di sottintesi ridicoli e patetici ritenendosi profondo e sottile). Lo aiuta sulla strada della crescita, del divenire adulto (“devi imparare come parla un vero uomo”), e lotta per proteggerlo dalla violenza insensata e distruttiva che ne contamina la vita – sotto forma di una gang di strada che lo vorrebbe reclutare per la lotta tra “razze” nelle strade di quartiere. L'impossibile accade, ed in modo semplice e concreto. Il ragazzo si vuole redimere (per cosa in fondo da poco, il tentato furto – peraltro impostogli dalla gang come prova iniziatica – della preziosa auto di Clint, la Ford Gran Torino del titolo) e coglie l'occasione per fare molto molto di più: divenire adulto, superare i propri limiti, crescere e vivere. Il vecchio scopre di avere ancora tanto, tantissimo da dare agli altri e di poterne gioire. Ed infine, di poter redimere anche se stesso da una violenza infinita e per sempre bruciante nella sua anima, anche se lontana nel tempo (la guerra in Korea). In mezzo, i rapporti definitivamente guasti con i propri figli e la seconda chance rappresentata da un “muso giallo” senza padre. L'orrenda, sanguinaria stupidità delle lotte di quartiere che si fonda su razzismo, ignoranza, mancanza di valori. Un prete che fa (acuta osservazione di Egon) da contrappunto ai pensieri ed ai sentimenti del vecchio, quasi fosse un coro greco, comparendo solo ed esclusivamente quando opportuno. L'orgoglio e la forza d'animo di chi ha lottato per una vita ma non ha per questo voglia di smettere di farlo – e quelli di chi la chance di lottare non l'ha mai avuta ma, se ha l'opportunità di provare a guadagnarsi una vita migliore, non si tira indietro.

Eastwood carica al 110% il proprio personaggio più classico, che sia il pistolero senza nome degli spaghetti western o Dirty Harry Callahan – e lo fa con autoironia e forza, con cinismo solo in superficie ma con grande e profonda umanità. Domina la scena ma quasi in astratto da tanto è stilizzato. Ha il coraggio, lo stile ed il controllo per affrontare temi nuovi senza cadere nel banale. Parla di (e talvolta con) odio e violenza ma riempie lo schermo di ondate di speranza. Osa mettere in scena sacrificio e redenzione senza mai rischiare il ridicolo. Lascia un monito, una lezione, un messaggio di amore per quel che possiamo essere se non cediamo al nostro lato oscuro – soprattutto quando ci sentiremmo moralmente giustificati a farlo (e qui stupisce, e qui conclude in grandezza un affresco già potente).

Ecco, se i film fossero tutti così non servirebbe questo blog. Ce ne staremmo beati un paio d'ore al giorno a vedere l'arte che si mescola alla vita e ci stimola ed ispira in una sala cinematografica. Purtroppo così non è. Le recensioni, e le distinzioni, servono. Eccome. Perciò, consigliamo: non vi perdete questo film. Se anche fosse l'ultimo di Clint (e preghiamo che così non sia!), dimostrerebbe che a volte un testamento può essere bello, prezioso, luminoso come una vita intera.

sabato 7 marzo 2009

Watchmen

L’alibi è sempre lo stesso: “è identico al fumetto”. Come se la fedeltà all’originale (ammesso che possa realmente esistere) fosse di per sé un pregio, e assolvesse un film tratto da una graphic novel, cult o meno che sia, da ogni critica. Perché, parliamoci chiaro: non amiamo le vignette (salvo quelle di "Topolino", da piccoli) e non conosciamo la serie. Però andiamo al cinema, e ci aspettiamo di vedere un’opera che non si rivolga soltanto agli addetti ai lavori.
Sbagliamo, senz'altro. E nutriamo false speranze. Anche sul regista, Zack Snyder, che in “300” non ci era dispiaciuto, benché l’operazione fosse apparentemente analoga a questa. Ma ve lo diciamo subito: “Watchmen” si merita le nostre ire, per tutta una serie di ragioni.

Anzitutto, è troppo lungo. 2 ore e 43 minuti di immagini sono buone per un kolossal, non certo per un gioco a base di pupazzi. Poi, è sbilanciato. Preoccupato di illustrare le biografie di alcuni dei protagonisti (un manipolo di supereroi americani in piena era Nixon, prolungata al 1985 e spalancata su un conflitto nucleare con l’Unione Sovietica), perde spesso di vista la trama. Inoltre, è volgare: nella psicologia dei personaggi, tagliata con l’accetta, e nell’esposizione della violenza, efferata e gratuita.

Non bastasse, c’è pure un uso barbaro delle musiche: una compilation di capolavori sparsa come il peggior mangime per il pubblico. Passi per “The times they are a-changin’” della sigla iniziale (peraltro straniante, per un neofita della vicenda) o per l’inserto di “All along the watchtower”, ma ridurre “Hallelujah”, per di più nella versione di Cohen, a sfondo porno-soft la dice lunga sulla pochezza culturale dell’insieme.

A conti fatti, l’unico che s’interroga davvero sul male è Rorschach, antieroe che va in giro in trench, cappello e sudario maculato, che spogliato di costume si rivela un conservatore di ferro, dal ghigno irlandese poco rassicurante, ma una qual certa coerenza. E che non a caso, alla fine, si fa disintegrare, più per disperazione che per spirito sacrificale. Gli altri idoli, invece, sono una desolante sequela di banalità: su tutti il superuomo blu privo di iridi (Dottor Manhattan) risultato del solito, terribile, incidente in un centro di ricerche, che divenuto semidio si stanca delle umane sorti ritirandosi su Marte, con tanto di insopportabili solipsismi filosofici. Poi, sulla stessa linea, il Comico, una sorta di deriva vivente del sogno americano, che stupra e uccide con lo smile appuntato al petto (memorabile la scena in cui spara alla donna incinta di lui, rimproverando poi Manhattan di non averlo fermato), oltre a generare la nuova eroina Spettro di seta, concupita prima dal superuomo poi da Gufo Notturno, un Batman dei poveri con l’indole da contabile.

La storia non serve dettagliarla: i Watchmen, custodi mascherati dell’ordine americano e quindi mondiale (avevamo bisogno di un altro sfondo imperialista, grazie), vengono esautorati, perché scomodi, da un decreto di Nixon e ridotti all’anonimato. Uno di loro (Ozymandias), però, cova progetti di dominio universale, e comincia a liberarsi di nascosto degli ex colleghi prima di dare corso alla sua nuova, originalissima, idea: scatenare l’Apocalisse su New York, e incolpare il Manhattan di cui sopra, onde creare una concordia nel mondo tra le potenze nemiche contro di lui. Il progetto, almeno inizialmente, riesce, col beneplacito del capro espiatorio, che abbandona per sempre la Terra, e l’uccisione di Rorschach, che preferisce la propria morte alla rivelazione della verità. Sarà un suo diario postumo, finito nella redazione di un giornale, ad occuparsene.

Annotiamo a margine alcuni episodi che, benché forse importati dal fumetto, troviamo inesorabilmente ridicoli, tipo:

- Il Dottor Manhattan che atomizza tranquillamente dei Vietcong girando in sospensorio (nella vita privata, invece, la regia ci propina la versione “nature”. Come a dire: sterminare sì, ma discreti);
- Il Comico che fredda Kennedy dalla prospettiva Zapruder;
- Kissinger che confida terreo a Nixon (fra l’altro, identico alla relativa maschera di "Point Break"), poco dopo l’attacco di Ozymandias, “non sono stati i russi”.

Concludendo. Se andate a vederlo, non aspettatevi l’universo alternativo alla Gotham city, nè la saga fantapolitica di "V for Vendetta". "Watchmen" è tutte queste cose e niente. Ma con una distinta preferenza per niente.

LA SCHEDAWatchmen

In una frase:
“mi hanno detto che eri su Marte”
Sconsigliatissimo: a chiunque pensi che gli eroi in costume non siano necessariamente sinonimo di carnevale.
Giudizio: KKKK

mercoledì 11 febbraio 2009

Operazione Valchiria - Hi, Hitler

Non volevamo recensirlo. Davvero. È un film che, a dispetto del tema, passa piuttosto inosservato. Regia senza guizzi, storia didascalica, recitazione di mestiere. Insomma, il classico poliziesco. Girato in costume per via dello scenario: Germania hitleriana allo sbando, anno 1944.
Però. C’è sempre un però. Perché se dietro la macchina da presa metti Bryan Singer (e alla sceneggiatura Christopher McQuarrie, il suo compare dei “Soliti sospetti”). Se davanti ci metti Tom Cruise. E se lo agghindi con una benda, un braccio monco e una pettinatura stile Groucho Marx. Se fai tutto questo, devi aspettarti qualcosa, nel bene o nel male. Certo, preferibilmente nel male.
Si parla, immaginiamo lo sappiate, di un fatto vero. Una congiura che mira ad uccidere Adolf Hitler, ordita dal colonnello della Wehrmacht Claus Von Stauffenberg (Cruise, ovviamente), in pieno declino dello strapotere nazista. La guerra si sta perdendo, e già prima di essere bombardato a un campo base (rimettendoci occhio e mano), il nostro medita di ribaltare il Fuhrer. Raduna, non senza fatica, vari adepti, chi più chi meno implicato col regime, per riscrivere l’”Operazione Valchiria” che dà il titolo al film: si tratta di un piano per convocare la riserva militare del Reich in caso di invasione alleata. Il colonnello decide di stilarla cambiando la premessa: non più un attacco esterno ma un colpo di stato. Con annessa morte di Hitler, e soppressione successiva delle SS. Idea ambiziosa, che verrà firmata (guai a non leggere da cima a fondo quel che passa sulla scrivania) dal Cancelliere in persona. La storia ci informa che, per un disguido, il complotto non sortirà gli effetti sperati. L’attentato (una bomba innescata da Stauffenberg ed esplosa nella “tana del lupo”, il bunker di Hitler, nel corso di una riunione di alto profilo) non ammazzerà il Fuhrer. Basterà tuttavia per indurre il suo autore, di ritorno a Berlino, a diffondere la falsa notizia della morte per prenderne il potere. L’inghippo riesce solo all’inizio, finché Hitler non comunica ai gerarchi che è ancora vivo, e che l’esercito deve punire i traditori.
Ora, che fosse difficile girare un thriller conoscendo già il finale, era intuibile. Che la storia si afflosci di brutto nella seconda parte, dopo l’attentato fallito, era prevedibile. Ma che nonostante questo nessuno abbia segnalato a Singer che era successo qualcosa di terribile col casting, onestamente no, non si poteva immaginare. Perché passi per la scelta di fare interpretare il protagonista a Tom Cruise (che è americano, ma pure famoso), ma che tutti i co-protagonisti, nel ruolo di generali tedeschi, siano britannici, è assolutamente inaccettabile. In serie: Tom Wilkinson (inglese), Bill Nighy (inglese), Terence Stamp (inglese). Più Kenneth Branagh (nordirlandese). Perfino Hitler (cioè l’attore David Bamber) è inglese. Ben presto viene il sospetto che la sceneggiatura sia di Churchill (sospetto subito sventato, visti gli esiti del plot).
Il resto? Non migliore. E non tanto perché non siano approfondite le ragioni personali del leader dei congiurati (come avrebbe voluto qualche critico, che forse pensava di trovarsi di fronte ad un documentario). Ma perché proprio Cruise, che lo impersona, non è evidentemente a proprio agio. Ridotto all’obbedienza dalla benda nera, maschera repressioni e ire da par suo, indossando l’occhio di vetro solo dinanzi al Fuhrer. Ma non può resistere al ridicolo, almeno in due scene: una, in cui la segretaria lo guarda dopo la stesura della prima riga dell’Operazione (“Adolf Hitler è morto”), vero e proprio monumento all’imbarazzo, un’altra, indimenticabile, in cui urla a tutto schermo, levando il moncherino, “Heil Hitler”. Hi, visto il cast, sarebbe stato più appropriato.
Non va meglio al Cancelliere, peraltro. Meno geometrico di quanto auspicato, risulta titubante e rincoglionito, aggirandosi per le scene col piglio del segugio che non identifica quello che annusa. E venendo, a seconda dei casi, indottrinato o palesemente preso in giro. Oltre che bombardato, come già si sapeva. Del resto, sembra il minimo: l'esercito della Regina ha ormai preso possesso di Berlino, mentre il Fuhrer, nel suo buen retiro, sorseggia amabilmente una tazza di tè.
LA SCHEDA
Operazione Valchiria
In una frase: “ogni secondo che perdiamo è un secondo perso”
Sconsigliatissimo:
a chiunque pensi che un film sul nazismo debba avere, perlomeno, un protagonista biondo.
Giudizio:
KKK

sabato 7 febbraio 2009

Viaggio al centro della terra 3d

3 dimensioni – 2 recensioni! Perché, anche in tempo di crisi, non ci facciamo mancare nulla – e poi, chi cazzo si credono di essere quelli della New Line?

Avviso: ho un impulso potente a polemizzare con Egon. A non limitarmi a riferire il mio parere bensì a contrastare il suo, contrapporre i punti di vista, sovrapporre l'opinione, insomma scatenare la rissa critica. Così, perché son simpatico. E perché il film, diciamocelo subito (via i denti – quelli del T-Rex, che “fanno male”, come ci informa l'ineffabile Fraser – via i dolori!), è porcata integrale ed insalvabile. E mi ci ha trascinato lui, l'amico Spengler, in cerca di emozioni 3D. Quindi medito e merito vendetta tremenda vendetta. Ma cercherò d'essere obiettivo e, soprattutto, di concentrare il rigurgito verso la squallida vaccata circense e non verso il collega recensore. Imo, dunque, al centro della melma.

Domanda: come si parla del nulla? Seguiremmo Wittgenstein e concluderemmo, rapidi ed affossanti, che di ciò di cui non si può parlare è d'obbligo tacere. Ma vogliamo esser generosi (falso, trattasi di logorrea), e procediamo comunque a disquisire. Nel caso in esame abbiamo 93 minuti (secondo l'internet movie database: non vi pensiate che mi sia messo a controllare il display di un orologio o cellulare, desolatamente bidimensionali, durante l'esperienza 3D) di assoluta vacuità, di sceneggiatura inesistente puntellata col ridicolo, di effetti speciali rozzi a se stessi, di pochi ed irritanti esseri umani, di violenza efferata ai danni dell'opera di un grande scrittore.

Riassumendo: un manipolo di fetenti produttori, sceneggiatori e registi ha letto (controvoglia) una riduzione per bambini di un libro di Jules Verne. Colpiti da illuminazione prematura han deciso di farne un blockbuster – ma non sia una cosa banale, diamine, facciamolo dunque in 3D! Ché la tecnologia ha fatto passi da gigante e, laddove il talento è oramai estinto, possiamo sopperire con la computer grafica. Hoplà imbarchiamoci nel baraccone e coinvolgiamo il simpaticissimo (e panzuto) Brendanfraser-quello-della-mummia, con contorno di attori sconosciuti e svogliati oltremisura. Mettiamo lui, l'infallibile Brendàno, nel ruolo di un professore di geologia. Bizzarro, nella vita e nella ricerca, ed in preda a psicotica ossessione per un fratello scomparso 12 anni prima perseguendo qualche insana passione per la fantascienza in una cava islandese. Sull'orlo del totale collasso sul lavoro ed oramai allo sfascio nella vita privata egli viene salvato dall'arrivo del nipote: tredicenne nano ipertecnologico, scazzato dallo zio ma ingrifato da ogni forma di vita femminile, viene sbolognato a Fraser dalla oramai ex moglie del fratello defunto vogliosa di andare a cercar casa in Canada. Il sottosviluppato (il ragazzino, non l'adulto), nonostante sia eroicamente disinteressato al lavoro dello zio (lavoro, vabbè...), si rivela più sveglio di lui nel notare che su un monitor campeggiano 4 e non 3 lucine intermittenti. Questo, incrociato a numeri del lotto segnati dal fratello-padre su una stantia copia di Viaggio al centro della terra, induce “o professore” a pagarsi, tramite collezione di monetine che gli occupa il tavolo di cucina, un viaggio aereo fino all'islanda, trascinandosi dietro il pargolo. Ivi giunti conoscono la gnocca di turno (grammatica elementare dei film d'azione, suvvia!), di mestiere guida di montagna, anch'ella orfana di parente (il vecchio padre) a causa Verne e geologia (combinazione che fa più morti del vaiolo, pare). La convincono, non con la retorica e l'amore per la scienza ma scucendo dei bei soldoni, a guidarli alla bocca di un vulcano in cerca dell'origine della lucina. Di qui in poi, si svacca davvero. Il trio prima finisce prigioniero di una grotta serrata, quindi percorre miniere a cavallo di un carrello sulle orme di Indy, infine saggiamente si mette a passeggiare su uno strato di moscovite (roccia sottilissima, per chi di voi non avesse un dottorato in geologia) onde fare incetta di diamanti. Frana la moscovite, cadono i nostri per un tempo infinito lungo un tunnel che conduce, indovinate?, al centro del pianeta. Ove atterrano sani e salvi (ok...) e scoprono un mondo meraviglioso. Il che equivale, per lo spettatore, ad un'ora buona di tortura in digitale. Nulla è reale e tutto, invece, è potentemente ridicolo. I passerotti son fluorescenti e benevoli, i pesci zannuti ed aggressivi, il fratello morto e sepolto in riva al mare, il calore – per i protagonisti – insopportabile. E meno male che soffrono, perdio! Ancora: Brendan eradica, afferrandola per i testicoli, una pianta carnivora formato gigante, l'oceano infestato viene navigato tramite una specie di aquilone gigante (che poi si trascina via il nano, in una scena esilarante soprattutto per l'urlo di dolore di un Fraser palesemente in fase digestiva), il tirannosauro invece di divorarsi il tredicenne preferisce sbavargli addosso di sorpresa. E poi muore, da fesso qual è, franando ignobilmente su uno strato di sottilissima moscovite – lo vedi, a non studiare, cretino?

Alla fine del viaggio il trio, nonostante ripetuti tentativi del professore di sabotare la sua e la comune sopravvivenza, giunge a salvezza sotto forma di comodo geyser ascensore locato al termine di un fiume. Navigano, per la vostra inesauribile soddisfazione, sull'enorme mandibola di un dinosauro convenientemente adattata a gondola dall'avvenente islandese (che, nel frattempo, ha moderatamente rivisto le proprie posizioni sulla sanità mentale del defunto genitore). Sbucheranno dal Vesuvio, che scopriamo esser coltivato a vigneti da un autoctono – che però parla un po' di siciliano, per gradire. Tanto, viene tacitato (e placato nella sua disperazione per la devastazione della vigna) dall'offerta di uno dei diamanti imboscati dal tredicenne.

In conclusione Fraser passa da fallito sul lavoro e nella vita privata a scienziato di successo ed eroe d'azione (benchè sovrappeso), per di più dotato di gnocca bionda europea e di soddisfazione per aver riabilitato la memoria del fratello demente. Il nipote, invece, ha trafugato un uccelletto luminescente e se lo perde in città col risultato verosimile di devastare irreparabilmente il nostro ecosistema. Non contenti di ciò, si salutano ripromettendosi di incontrarsi nuovamente presto e col regalo di un libro su Atlantide. Temo un sequel. Non c'è scelta, dovrò strapparmi un occhio – privo della visione binoculare dovrei, se non altro, scampare al maledetto treddì.

LA SCHEDA

Viaggio al centro della terra 3d


In una frase: "si, vabbè, sputami in faccia, cazzo!" - segue sputo di Fraser verso la macchina da presa. In 3D.

Sconsigliatissimo: Verne era il mio scrittore preferito, da bimbo. Non credo necessiti aggiungere altro.

Giudizio: KKK (uno per ogni dimensione, e son generoso)

Viaggio al centro della Terra 3d

Dobbiamo ammetterlo. Non saremmo mai stati incuriositi da “Viaggio al centro della Terra” se nel titolo qualche esprit de finesse non avesse aggiunto la dicitura “3d”. Tre dimensioni! Da quanto tempo non andavamo a vedere un film in tre dimensioni! L’ultima volta era successo a Eurodisney, con un corto di Landis chiamato “Captain Eo”, dove Michael Jackson, ancora nero, si dimenava senza timore che gli cadesse il naso. Ma la prima (ed unica) al cinema era di qualche anno prima: “Nightmare 6 – la fine”, un’autentica bruttura che riusciva tuttavia a peggiorare nelle sequenze conclusive, quando veniva dotata di profondità grazie a dei prodigiosi occhialini. Beh, occhialini: più che altro squallide montature di cartone con delle pellicole colorate al posto delle lenti. Ottime, al massimo, per chi volesse godersi un’eclissi di sole, benché indispensabili: senza, tutti i personaggi sarebbero somigliati a Pizza Margherita, quella di “Spaceballs”.
Oggi, però, i tempi sono cambiati. Gli occhiali non sono più cartonati ma plasticatissimi ed ipertecnologici, stile operaio siderurgico. Vi costano un euro in più sul prezzo del biglietto, ma ne vale la pena, perché il munifico multiplex vi abbona pure i trailer in tre dimensioni (tutti pupazzetti, peraltro). Non vi resta che entrare in sala, rivolgervi allo scazzatissimo addetto al divertimento e prendere in consegna, in sacchetto sigillato, i magici arnesi. Indossate, e godete. Ma poi, per cortesia, restituite, perché in tempi di crisi non si regala nulla, ed è un peccato. Quelli di una volta erano pret-a-porter.
Trama. Eh, diciamocelo: la storia, almeno quella buona, l’ha già scritta Verne, quindi faremmo un torto a lui, a voi e a qualche recensore più analitico se ve la raccontassimo per filo e per segno. Ci limitiamo dunque all’essenziale: c’è un sismologo fallito (il probabile Brendan Fraser) che deve ospitare, suo malgrado, il nipotino tredicenne a casa propria per qualche giorno. Insieme a una scarica di insulti dell’affabile marmocchio (doppiato misteriosamente da un 35enne, forse per suggerire maturità al cospetto dell’infantile zio), gli arriva anche uno scatolone con gli effetti personali del fratello, padre del rompipalle, scomparso in circostanze misteriose durante una spedizione in Islanda. Tra uno yo-yo e qualche aggeggio ridicolo, il nostro eroe scopre la presenza di un’edizione unta e bisunta del “Viaggio al centro della Terra” di Verne, glossata con strani geroglifici che – vai a capire il caso – richiamano pari pari le sue ricerche scientifiche. Eccitato dalla coincidenza, decide di partire col nipote per l’Islanda, tutto preso dai fanatismi del predecessore: il fratello, infatti, era un verniano, ossia un bizzarro individuo convinto che i racconti di Verne siano veri, e che sotto i nostri piedi esista effettivamente un altro mondo, non – com’è noto da secoli – i gironi danteschi.
Giunto a destinazione, incontra un’autoctona molto carina, pure lei implicata in parentele scomode: è infatti la figlia di una specie di Chester Copperpot post-litteram, morto da qualche anno, ed anch’egli – ahinoi – verniano duro. Tra una pagina ingiallita e l’altra (riposa in pace, Jules), i tre decidono di mettersi in marcia per far luce sulle scombicchierate teorie dei visionari. E qui comincia lo spasso (?). Il film, infatti, per tutta la prima parte, è incentrato sulla dabbenaggine di Fraser, che all'inizio si attira addosso dei fulmini, poi genera una frana che intrappola lui e i suoi compagni di sventura in una caverna, infine tenta di portarli fuori dando, immancabilmente, suggerimenti sbagliati e pericolosi.
La morale del seguito è intuibile: le teorie di Verne sono ultravere, dunque i nostri si ritrovano effettivamente nel calorosissimo centro della Terra, alle prese con creature che al piano di sopra sono estinte da secoli, o al più ipotizzate nei libri di (fanta)scienza. Nel mentre ritroveranno anche i resti del fratello dell’eroe, affronteranno rischi di ogni sorta, e riusciranno a risalire in superficie, precipitando sulle pendici del Vesuvio.
Vi chiederete: e il 3d? Beh, non tradisce. Dopo una sequela di avvisaglie (Fraser che ti sputa addosso, collega di Fraser che sguaina un metro, yo-yo che ti piomba in faccia), arriva lo spettacolo: carrelli sui binari morti, fungoni gigantoni (sic), pennuti al neon, pesci volanti dentuti (ottimi per giocarci a baseball), pietre sospese e, dulcis in fundo, tirannosaurus rex che ti risputa addosso, più e meglio di Fraser. Insomma, una rimasticatura di "Indiana Jones", o piuttosto di certe imprese di Nicholas Cage, impreziosita da alcuni buchi nella sceneggiatura (gli zaini dei protagonisti scompaiono e riappaiono magicamente, a seconda delle necessità) e da una perla assoluta, preannunciata nei trailer: Fraser, biologo di fama, che alla vista di un ribollente fiume rosso chiarisce: “è lava!”. Grazie, lo capivamo anche in due dimensioni.
LA SCHEDA
Viaggio al centro della Terra 3d
In una frase: "Vado su Google a 9000 metri"
Sconsigliatissimo:
a chiunque, vedendo la performance di Fraser ne "la Mummia" teneva per la Mummia.
Giudizio
: KK (avvertenza: se indossate gli occhiali, diventano quattro)

venerdì 30 gennaio 2009

Il libro di Shining

Un certo Phil Buehler ha ben pensato di dare alle stampe il libro dello scrittore impazzito di "Shining", popolato dalla frase ricorrente "All work and no play makes Jack a dull boy" in svariate combinazioni grafiche. Ora, considerato che Buehler non è Dylan Thomas né Samuel Beckett, l'unica speranza è che Jack Torrance gli chieda i diritti dell'opera. Possibilmente con un'accetta in mano.

giovedì 22 gennaio 2009

IMAGO MORTIS

Prefazione doverosa: non mi piace l'horror. Egon, amico sincero ed amante del genere, mi ci trascina alla ricerca di recensioni facili per sé. Essendo un cultore del genere si adira infatti spesso e volentieri di fronte alla monnezza che gli vien propinata in questi anni. Ma stavolta il prodotto è tale che anch'io, né amatore né conoscitore dei canoni, posso fruirlo appieno. E ve lo avviso: non mi trovate incazzato, tutt'altro. Direi che sono ancora estasiato dall'esperienza.

Terrificante. Questo, in una parola, quel che direi del film. Non funziona niente, non si salva alcunché. E sono generoso. Come un bimbo cui sian dischiuse le porte del paese dei balocchi mi guardo in giro sbavando e non so da dove cominciare. Per rispetto ai lettori, fornisco un riassunto della trama.

In una imprecisata location, che ad occhio potrebbe incarnare la Transilvania indorata da un clima tipo stagione dei monsoni perenne, con pioggia a secchiate da mane a sera (non che si distinguano) e sottobosco composto da specie di salici piangenti nani di una tristezza intollerabile, sorge il Murnau Institute. Trattasi di prestigiosa (si, ok...) accademia di cinema. O qualcosa del genere. Ivi svernano studenti provenienti da ogni luogo della terra – abbondano infatti cognomi spagnoleggianti, intervallati però da germanici, probabili italiani, qualche provenienza slava e, financo, dei cino/giapponesi del tutto immotivati. I fortunati condividono, godendo peraltro di condizioni di comfort tipo braccio di isolamento ad Alcatraz stagione '55/'56 e di igiene tipo peste manzoniana, le gioie e gli occasionali dolori dello studiare cinema in tale atmosfera d'elite. Le attrezzature sono, verosimilmente, fondi di magazzino dei fratelli Lumière, gli insegnanti uno sparuto gruppo di pensionandi psicolabili, l'edificio fatiscente, i dintorni – se non altro – invitano al suicidio. Tra loro si aggira, inquieto, il nostro protagonista – Bruno Marquez, dotato di un invidiabile repertorio di ben due espressioni facciali. Nella prima, che utilizza soprattutto in presenza della sua amata Arianna (una dentuta ma moderatamente piacente Oona Chaplin), ride estasiato dalla propria imbecillità insanabile. La seconda è quella del terrore immotivato – a meno che non senta anche lui la risibile, insistente musichetta con cui ci viene annunciata per 2 o 3 minuti l'imminente comparsata di un fantasma (finesse autoriale, si capisce). Già, perchè ci sono i fantasmi. Dipanando l'intricatissima (certo!) trama, vi svelo che la proprietaria del funebre maniero riadibito a dormitorio per adolescenti (tal contessa Orsini, interpretata da Geraldine Chaplin – secondo me, avevano dei debiti di famiglia), animata da innocente curiosità, anni or sono comprò macchinari e documenti che costituivano il lascito di un certo Girolamo Fumagalli (del Brambilla, verosimilmente, si farà menzione in altro film). Costui, nel tentativo di rendere il mondo un posto peggiore (nonché di sviare l'attenzione da alcune sue rivedibili scelte in materia di copricapi), dedicò la propria esistenza a cercare di fotografare l'ultima immagine vista da un essere umano prima della morte. Sfortunatamente riuscito nel suo intento, costruì un aggeggio dal fantasioso nome di Tanatoscopio (indecifrabile, per l'acuto protagonista, che sentiamo chiedere “cos'è, a cosa serve?”). In sostanza, si fa accomodare un volontario di fronte ad una composizione a nostra scelta. Indi lo si uccide piantandogli una vite nel cranio e simultaneamente gli si strappano i bulbi oculari, tramite i quali verrà poi impressa l'immagine finale su una lastra di vetro. Quasi comodo come una polaroid, bravo Fumagalli. In tempi più recenti, tentativi di sfruttare il marchingegno a scopo di lucro fruttano, invece, morte e follia. Schiatta Tanatoscopata la protagonista di un film, schiatta suicida il di lei moroso, figlio d'un professore (forse, altrimenti solo di un vecchio che abita in mansarda). Il quale però infesta il luogo in qualità di fantasma. Ed infesta pure le giornate del Marquez – che già ha i suoi problemi. La famiglia gli è appena morta in un incidente – ma questo pare il male minore dato che, in causa di ciò, la benevola Orsini spinge il rettore prof Olinsky (Álex Angulo , un idolo) a riprenderlo come gestore del puzzolente, maleolento, polveroso ed inutile archivio della scuola. Una delle massime aspirazioni del giovane, che per il resto:

  1. cerca vanamente di sedurre l'incisiva (ma anche canina, premolare...) collega Arianna, che pur ci starebbe facile ed è tutto dire, stante che lui è chiaramente una scimmia male addestrata;

  2. stringe rapporti di amicizia con un piccolo trafficante alcoolizzato dotato di monocolo e del simpatico nome di Orfeo (amicizia a base di Assenzio, sia chiaro);

  3. esegue brillantemente i compiti assegnati in classe, per dire presentando come fotografia sul tema “tempo” il ritratto di un uccellaccio smangiucchiato e marcito;

  4. alla faccia della vena di allegria.

In tutto ciò viene prescelto dal fantasma per ricevere indicazioni su dove si trovi il Tanatoscopio. Sorpresa! Sta, nemmeno sepolto ma appoggiato per terra, a 5 metri si e no dall'ingresso di una grotta sul retro della villa della Orsini. Lei ed il suo entourage lo cercavano da circa 40 anni. Il Marquez, però, non sa a cosa va incontro. Perde il marchingegno, si inimica l'Olinsky (che, fine nella sua ripicca, convoca assemblea plenaria della scuola per definire Bruno “un poveraccio con dei problemi” con cui bisogna esser buoni dato che gli è appena morta la famiglia ed è psicolabile), assiste impotente ad una serie di morti. In verità, alcune se le sogna. Se non altro, si intuisce che si sdraia infine l'odontofascinosa amichetta. La quale viene poi via via insospettita dagli accessi di demenza del Nostro. Lui, prima di capirci qualcosa, lascia che muoiano deoculati innumerevoli colleghi (e pure il misero Orfeo, si sospetta – ne resta solo il monocolo). Infine si fa infinocchiare dal cattivo di turno, e sta per perdere non solo la vita sua (sticazzi) ma anche quella della Chaplin dai denti a sciabola, che sarebbe pure un peccato. Ma il vecchio Astolfi, padre del giovine suicida/fantasma, interviene a ritmo di liscio e salva la situazione, autotanatoscopandosi in faccia a chi di dovere.

Imago Mortis Per Oculos Tuos, dice, e libera tutte le anime dannate. Obbedienti alle sue ultime volontà, Bruno ed Arianna (che nel frattempo, satura d'amore, lo ha soprannominato Calavera, ovvero teschio di morto) sviluppano la tanatografia – perfetta, pare. Son soddisfazioni. Alla fine Olinsky porta a casa il filmato del tutto e con lui si congratula (con mano malferma assai, ma decisamente granitica in confronto a quella di Astolfi) la Chaplin vecchia. La giovane e l'inguardabile protagonista invece fanno le valigie e lasciano il Murnau. Per la prima volta in settimane non piove. Ennesimo sottilissimo tocco di classe.

In tutto ciò, un profluvio di sconcezze cinematografiche come se ne vedono rarissimamente. Premesso che non è dato essere esaustivi, segue breve elenco:

  • montaggio secondo la scuola ad minchiam: alternativamente si segue il ritmo cardiaco di una vittima di attacco ischemico multiplo o lo si tratta come una scomoda incombenza;

  • sceneggiatura clamorosa – si raggiungono autentiche, sublimi vette di comico involontario;

  • recitazione a livelli assoluti, su tutti si staglia però Álex Angulo AKA Olinsky – egli, forte di una somiglianza con il grande prof Wittemberg di .Hans, si lancia giù per il dirupo dell'arte, alternando sguardi attoniti che strappano la risata immediata a movimenti totalmente casuali delle mani (memorabile il confronto con Astolfi durante il quale, a metà di una frase, prende a far roteare senza motivo alcuno l'avambraccio destro con mano aperta e rigida);

  • non è il solo, però, a lanciare improvvisi ed angoscianti sguardi in macchina;

  • la Chaplin vecchia è palesemente sotto stupefacenti per l'intera durata della cosa;

  • colonna sonora men che dilettantesca;

  • ammiccamenti cinefili da 0,2 soldi a piene mai: Murnau, Caligari, ma per favore!

e molto altro potremmo aggiungere. Ci si permetta solo di precisare: Stefano Bessoni, pare, insegna Regia a Cinecittà. C'era da scegliere tra questo ed il virus Ebola. Per una volta, agli africani è andata di gran culo.

Inevitabile postfazione: durante la proiezione ho avvertito dei brividi. Pensavo si trattasse di sindrome di Stendhal. Le successive 36 ore con febbrone equestre e sintomi assortiti mi han convinto che l'influenza giocasse invece un suo ruolo. Ma credetemi, è davvero qualcosa di spettacolare. Sfortunatamente il finale non sembra preludere ad un sequel. In caso contrario, in omaggio alla regola secondo cui tali prodotti son peggiori degli originali, a vedere Imago Mortis 2 avrei portato parenti ed amici, organizzando un rinfresco di benvenuto. Altro che il giorno della mia laurea.


LA SCHEDA

IMAGO MORTIS

In una frase: "[così facendo] si libereranno tutte le anime, ma soprattutto si realizzerà la perfetta tanatografia"...


Sconsigliatissimo: boh? io in realtà lo consiglio. Ho riso da morire. Ecco, forse se amate l'horror non è il caso. Proprio no.

Giudizio: KKKKk