venerdì 26 dicembre 2008

The Spirit

Poiché siamo in clima natalizio, stavolta non calchiamo la mano. Perché, a dirla tutta, "The Spirit" poteva pure non essere recensito, visto che qualche risata la strappa e non è noioso. Sapete però che questa è una rubrica di servizio, dunque non si tace nulla.
Frank Miller, che aveva promosso il fumetto a soggetto estetico con "Sin city", ci riprova: passa direttamente alla regia (ma di una storia non sua), replicando suggestioni cromatiche ed inquadrature dell'esordio. Peccato che il risultato non collimi con le aspettative. Perché non bastano primi piani, dettagli e silhouette per fare un film. Il decor anni '30 (che già ci aveva alquanto irritato nell'insopportabile "Sky Captain and the world of tomorrow") è una scommessa troppo facile, e di eroi mascherati che tentano di emulare Batman, anziché svaccarla come Alec Baldwin nell' "Uomo ombra", ne avremmo piene le palle.
Anche lo Spirto, infatti, benché concupito da fior di fanciulle - Eva Mendes, Scarlett Johansson, Paz Vega, solo per citare le più note - tenta di copulare col cuore nero della City, non Gotham ma Central, innamorandosi di ogni vicolo, palo o tombino piuttosto che accettare la propria umanità. E l'interprete, che sembra il nipote tonto di Ray Liotta, di certo non aiuta. Meno male che contro di lui si scaglia un villain più volitivo, l'Octopus di Samuel L. Jackson, ormai una garanzia di carnevalata dai tempi di "Snakes on a plane".
Non sappiamo, tuttavia, chi abbia concepito la sceneggiatura. Per tutto il primo tempo sembra chiaramente di trovarsi in un film di Tinto Brass, data la quantità industriale di frasi allusive, ammiccamenti e pruriti vari, nonché, a corollario, alcune trovate degne di miglior sorte: Eva Mendes che si fotocopia il culo, Scarlett Johansson (braccio destro, anzi, tetta destra, del nemico) in versione sado-nazi, e uno stolido ciccione perennemente clonato, torturato e ucciso. In certi momenti, riaffiora persino l'ombra di Mel Brooks.
La storia, di per sé, dice poco. Lo Spirto è circondato da donne più o meno perse di lui dai tempi dell'infanzia, e per un incantesimo che condivide col suo nemico (il suddetto Octopus, che saltuariamente lo gonfia di pugni per puro piacere personale), riesce a sopravvivere alle più terrificanti mazzate. Dovrà tuttavia evitare che il suo alter ego s'impossessi del sangue di Eracle, fluido che dona l'immortalità, agognato, per motivi più terreni (leggasi: soldi), anche dalla sua vecchia fiamma Eva Mendes. Riuscirà - per il momento - nell'impresa, lasciando dietro di sè svariate vittime femminili: l'affascinante fantasma acquatico che ne reclama l'anima (la Morte in versione Avion Travel), la dottoressa che ne cura le ferite, sperando invano che lui curi le sue, la gelosa danzatrice di Parigi ecc.. Si chiude, ovviamente, con l'eroe solitario che saltabecca fra i tetti della città, con tanto di panegirico alla periferia della voce fuori campo, e una ridicola cravatta rossa a contrastare i toni del grigio. Non è una porcata, non è nemmeno un bel film.
LA SCHEDA
The Spirit
In una frase: "stai parlando come un folle. Un folle che dice follie"
Sconsigliatissimo:
a chi ha gradito "Sin City", e ancor di più "Salon Kitty".
Giudizio:
Kk (è lo Spirto natalizio, che credete?)

venerdì 28 novembre 2008

Titoli in programmazione

Magari saranno pure dei bei film, però. Oggi, alla ricerca di qualche novità cinematografica per il weekend, ci imbattiamo nei titoli dei multiplex segnalati da internet. Leggiamo: "Bolt". Apriamo il link. Trama: "Bolt è un cane". Chiudiamo. Poi: "Max Payne". Apriamo: "Tratto dall'omonimo videogame". Richiudiamo. Infine: "Solo un padre". Apriamo: "La vita di Carlo, dermatologo trentenne...". Spegniamo. Questo fine settimana si sta a casa. Piove pure.

domenica 16 novembre 2008

Awake - anestesia (del cinema) cosciente

Vi avvisiamo. Il film di oggi è incommentabile. Dunque, ci limitiamo ad elargirvi la trama, con un paio di note qua e là. Se volete farvi del male e andare a vederlo, liberissimi. Grazie comunque di essere capitati qui.
Continuiamo, per chi è rimasto. Si chiama "Awake: anestesia cosciente", la bieca operazione, e riecheggia, in chiave moderna, un mito antico: quello della sepoltura prematura, già indagato, con ben altra tecnica, da Poe. Qui siamo dalle parti della sala operatoria, in cui, come ci ammonisce la didascalia d’apertura, può succedere che una leggera percentuale di pazienti (trentamila su qualche milione) non si addormenti durante l’intervento. Naturalmente, col senno di poi, andrebbe anche specificato se sentano o meno dolore. Ma secondo il trailer “il corpo è sedato”, dunque ci fidiamo. Trama.
Un giovane di immense speranze (lo svagato Hayden Christensen) ha ereditato una fortuna dal padre e dà da vivere a milioni di persone compravendendo aziende. Assistito dalla premurosa madre (Lena Olin, l’unica credibile) e sollazzato dalla splendida infermiera-segretaria-amante (certo, Jessica Alba) ha un solo, piccolo, problema: dovrà subire un rischioso trapianto di cuore. Decide quindi di rivolgersi a un amico chirurgo, imputato di ben quattro casi di colpa medica, del quale, con evidente idiozia, si fida ciecamente. Nel mentre, è vittima di alcuni conflitti familiari: col padre morto, verso cui nutre un complesso d’inferiorità, e con la madre, cui rivela solo alla vigilia dell’operazione (che lei vorrebbe compiuta dall’amante primario di fama, e non dal predetto scalzacani) l’amore per Jessica Alba, non all'altezza, agli occhi di lei, dei meriti del figlio.
Dopo quasi un tempo di film (compreso il matrimonio del nostro con la polposissima collaboratrice) lo operano. E qui comincia il grottesco. L’anestesista non è quello previsto ma un sostituto, un assistente molto affidabile che gira con una fiaschetta di whisky nella tasca del camice. Strano a dirsi, sbaglia qualcosa, e il protagonista, anziché addormentarsi, continua a sentire le voci dei medici, pur non riuscendo a muoversi. Brutt’affare, soprattutto per lo spettatore, che si gode in serie: voce fuori campo che urla dal dolore (ma non era sedato?), faccia del paziente che dorme, corpo del paziente tagliato in due. Non è gore (non come potrebbe), ma nemmeno thriller, bensì pura ridicolaggine, perché nessuno al cinema s’identifica con i pensieri, men che meno doppiati, quando le immagini non li assecondano. Per dieci minuti, compresi gli inserti di Jessica Alba più o meno nuda (lo stream of consciousness lascia sempre libertà), siamo dalle parti dei 5 Kevin. Peccato finisca il primo tempo.
La ripresa, infatti, torna sui binari della bruttura ordinaria. Il regista capisce che l’ideona del titolo ha già esaurito il suo potenziale ed imbastisce un coacervo di retroscena per riempire la pellicola. Apprendiamo dunque, nell’ordine, che:
- Jessica Alba è in combutta col medico (e tutta l’equipe, salvo l’ignaro ubriacone) per far fuori il neo-maritino e scippargli i miliardi, iniettando del veleno nel cuore da impiantare;
- Il padre del protagonista era un cocainomane che picchiava la moglie, fino a farsi uccidere da lei davanti agli occhi del figlioletto (che, chissà perché, aveva rimosso tutto);
- La madre di Christensen aveva scoperto l’inganno e si era attivata con l’amante chirurgo per donare in extremis il proprio cuore al figlio (avendo lo stesso, raro, gruppo sanguigno).
Seguirà nuovo intervento (e sacrificio) riparatore, nonché cattura dei malfattori da parte della polizia.
In tutto ciò, vi chiederete, che fine fa il paziente? Nessuna. Semplicemente, anziché lamentarsi da sdraiato, si lamenta da spirito, in puro stile "Ghost", o se preferite "S.O.S. fantasmi", scoprendo, tra un chiacchiericcio e l’altro, l’orrenda verità. Poiché però, alla fine dei conti, è la madre a salvarlo, si capisce che la storia dell’anestesia cosciente è totalmente inutile ai fini della trama, e come espediente scenico dura dieci minuti. I peggiori, peraltro, dell’intera stagione. Complimenti.
LA SCHEDA
Awake - anestesia cosciente
In una frase: (dopo la fine del primo tempo) "andiamo a vedere l'horror che comincia adesso?"
Sconsigliatissimo:
a chiunque sia incuriosito dal titolo. O ami, a seconda dei casi, gli attori o le attrici avvenenti. Hayden, torna a Naboo. Jessica, torna a Sin city.
Giudizio:
KKKK

lunedì 10 novembre 2008

Quantum (non multum) of solace

Liberi di credere che abbiamo dei pregiudizi su Daniel Craig. Liberi di pensare che, dopotutto, un film su James Bond non possa essere così brutto. Liberi, conseguentemente, di andare al cinema.
Ma per conto nostro "Quantum of solace" (traduzione italiana: un quanto di sollievo, o di sicurezza, o di sollazzo, non s’è ancora capito) è un film noioso, piatto e monocorde. Certo, se vi piacciono gli spari, le corse in macchina, le risse sulle impalcature che crollano, l’operazione non vi deluderà. Ma se vi aspettate un’avventura ironica, arguta e un po’ british, accomodatevi in un’altra sala.
Perché Craig, che forse in contesti più grezzi non sfigurerebbe, non ha nulla di 007. Nulla. È massiccio, torvo, tedesco (nonostante sia britannico). E non può permettersi un sorriso, dunque nemmeno il sesso. Quello che gli servono è pura tappezzeria.
Splendida, invece, Olga Kurylenko, l’ultima Bond–girl, e riuscito, almeno sul piano fisionomico, l’antagonista Mathieu Amalric. Ma poiché il regista, lo svizzero Marc Forster, non poteva permettersi barocchismi, e nel team di sceneggiatori figura Paul Haggis (autore di "Crash", dunque garanzia di polpettone), la vicenda scorre come un normale spin–off del ciclo di Bourne, privato del montaggio magico. Ossia pugni, pugni, pugni.
L’ideale, dunque, per Craig, a cui, nel corso dell’opera, attribuiscono anche più crimini di quelli commessi (o almeno lo fa Judi Dench, una M in crisi di autostima), proiettandolo a far danni un po’ ovunque: Palio di Siena, party ad Haiti, caserma boliviana. Con dialoghi ossuti a complemento. Torna pure Giancarlo Giannini, nel ruolo di Mathis, che in premio viene ucciso da un cattivo e gettato in un cassonetto delle immondizie dal più cattivo Craig, il quale rassicura: “a lui non sarebbe importato”. Vabè.
Per concludere, la trama. Non proprio riuscita. L’ambizione del plot è di affastellare organizzazioni criminali, governi-fantoccio e settori deviati dei servizi segreti. Appesantendo il tutto coi desideri di vendetta di Bond, ancora straziato dalla morte di Vesper Lynd dell’ultimo episodio (Eva Green, per chi si fosse risparmiato "Casino Royale"), e pronto a farla pagare al colpevole. Insomma, una specie di western, di poliziesco, di action. Cioè, di nulla.
LA SCHEDA
Quantum of solace
La frase: "ma che faccia fa?"
Sconsigliatissimo:
a chiunque abbia amato James Bond, quello classico. Aridatece il Vodka Martini. Agitato, non mescolato, brutti zotici.
Giudizio:
KKk

martedì 4 novembre 2008

The burning plain - Il trailer

Se ultimamente siete andati al cinema e siete arrivati puntuali, vi sarà senz'altro capitato di sorbirvi il pastone di 20 minuti di trailer prima del film (almeno se il cinema è un multiplex). E, fra questi trailer, vi sarete probabilmente imbattuti in quello di "The burning plain", l'ultima fatica (?) di Charlize Theron e Kim Basinger. Lo sappiamo, siete morti di noia. La recensione, infatti, non è per voi, ma per quelli che corrono ancora il rischio di vederselo, rovinandosi l'umore prima della proiezione.
E' difficile che un trailer sia palloso. Stantz diceva di averne visto uno, una volta: quello di "Master and commander", con Russell Crowe. Ma almeno lì c'era un po'd'acqua, un po'di mare, un minimo di casino. Qui nulla. Calma piatta. Soap-opera a chili. E una melliflua colonna sonora da pubblicità dell'AIDS, di quella coi contorni viola.
In mezzo, frasi interlocutorie, gente di spalle, scene da un presunto tradimento. Charlize Theron seminuda (l'unico motivo di reale interesse), Kim Basinger scoperta mentre telefona, continui campi e controcampi di sguardi con didascalie originali tipo: "il passato non si cancella" e "ma ogni giorno è un nuovo inizio". L'unica certezza, però, è che non si capisce nulla, e il solo momento dinamico, l'esplosione (burning) di una casa, arriva troppo tardi per salvare lo spettatore dal rincoglionimento.
Per la cronaca. Non andremo a vedere il film, ma se a qualcuno interessa sappia che è dello sceneggiatore di "21 grammi". Il trailer, naturalmente, pesa qualche tonnellata in più.
LA SCHEDA
The burning plain - Il trailer
La frase: "adesso arriva un bambino che rutta"
Sconsigliatissimo:
a chiunque sia puntuale al cinema. Compratevi dei popcorn, piuttosto. In versione Jumbo.
Giudizio:
KKKk

domenica 2 novembre 2008

Pride and glory - Il prezzo (Euro 7,50) dell'onore

Se il cinema italiano ha la mafia, quello americano ha i poliziotti corrotti. Due malattie che rimbecilliscono la sceneggiatura e deprimono la regia. "Pride and glory", di Gavin O'Connor, appartiene alla seconda categoria. E, come tutti i film del genere, intreccia l'illegalità sul lavoro alla - falsa - moralità della vita privata. A capo della famiglia, stavolta, hanno messo Jon Voight, veterano della squadra investigativa, che osserva impietrito (e a tratti sbronzo) il degenerare delle carriere dei figli. Prima, di Edward Norton, che a dispetto dell'aria sofferta - Dio, che spreco - è un onesto difensore della legge, finito a ruminare carte alla "persone scomparse". Poi, di Noah Emmerich, erede designato di Voight, che incappa in un tragico incidente di percorso, quando quattro uomini del suo team (la Narcotici, as usual) vengono trovati morti in un oscuro palazzo di periferia.
Norton si rimetterà in pista, scoprendo i loschi affari non solo del fratello, ma soprattutto del cognato Ray (un Colin Farrell da tappezzeria), anch'egli in divisa, implicatissimo con la malavita portoricana e dedito a corruzione, ultraviolenza e traffici di droga. Sullo sfondo, i classici matrimoni con figli. Di Farrell, periodicamente interrotto nel menage da strane visite di brutti ceffi (delinquenti o colleghi, tutto fa brodo), e di Emmerich, che alla fine troverà il coraggio di redimersi per rispetto alla moglie, malata terminale. In tutto questo, Norton vive da solo su una barca che fa acqua, e sta per separarsi. Forse, l'unico debito pagato all'attore, ormai in caduta libera.
Il resto della trama è immaginabile: cosa accade quando un detective si accorge che suo cognato (o fratello, o figlio), nonché collega, è uno stronzo? A chi resterà fedele? Al Corpo della Polizia o al suo sangue? Siccome è una rubrica di servizio, ve lo sveliamo noi, senza che vi sorbiate 125 minuti di tedio. A dispetto di Voight, che vorrebbe insabbiare (come ogni patriota della prima ora), Emmerich decide di vuotare il sacco, congedandosi dall'uniforme, e Norton va ad arrestare Farrell, vincendone la riluttanza alle manette a suon di sganassoni e palle da biliardo sulla tempia. Il retroscena, peraltro, è perfino peggiore: mentre sta per consegnarlo alla giustizia, il nostro viene avvicinato da una masnada di portoricani armati di spranghe. Rassicurato sul fatto che "vogliamo solo lui", abbandona Farrell al suo orrendo destino. In pratica, l'unico momento di vera gloria del film.
Quanto all'onore, lasciatelo a casa: tecnicamente, l'opera è piatta, scontata e didascalica. E, a parte un po' di steadycam iniziale, affonda negli stilemi più vieti. Un premio alla regia: in una sequenza di dialogo fra Emmerich e Norton, le teste dei due, ripresi in totale, sono bellamente tagliate. E non è - purtroppo - un errore del proiezionista.
LA SCHEDA
Pride and glory - Il prezzo dell'onore
La frase: "questo film mi è passato più veloce dell'altro"
Sconsigliatissimo:
a chi, dai tempi di "Training day", non va più a vedere un film sulla polizia americana.
Giudizio:
KK

lunedì 8 settembre 2008

Film bello dell'anno - The wrestler

Abbiamo ritenuto opportuno, in un blog che si occupa esclusivamente di film brutti, dare spazio, una volta all'anno (non di più, ci mancherebbe), all'eccezione che conferma la regola: una recensione positiva. Per il 2008, consapevoli che non ci sarà di meglio, la scelta è caduta su "The Wrestler". Buona lettura.

di Ray Stantz

Abbiamo visto un film, ieri. Prima che qualcuno rompa le palle, non si tratta di plurale maiestatis: eravamo in tre, abbiamo. Fresco vincitore del Leone D'Oro alla Biennale di Arte Cinematografica di Venezia (che, coerentemente, si tiene ogni anno - altrimenti, trattandosi della 65ma edizione, dovremmo dedurre che sia iniziata nel 1878, con qualche problema quanto all'arte del cinema). Anche se qui siamo (ecco, QUESTO è un maiestatis) su primatiguardopoitirovino, ci sentiamo liberi di parlare di un film che ci è piaciuto, molto. Gran cosa The Wrestler. Molto ben fatto. Molto Aronofsky: bravo regista, già autore di buone cose, questa in particolare somiglia a mio parere a Requiem for a Dream - non tanto per le tematiche o lo stile quanto per la mancanza di redenzione. Stile personale, ottima cura dei dettagli. Molto, moltissimo Rourke. Riuscire a recitare, ed a farlo a questi livelli altissimi, praticamente senza faccia è prova davvero straordinaria. Buono anche il resto del cast, in particolare la Tomei - e non vi fermate a guardarle le chiappe, maiali! Eccezionali le musiche - un flash nel metal e negli anni '80. E lo ammetto: c'è un momento, nel finale, un momento quasi di redenzione e svolta e amore e comprensione e vita, un momento in cui Micky dice - come solo lui, con quella sua non-faccia e quegli occhi così, può dire - dice "E' là fuori che io mi faccio male", un momento in cui siete convinti che non importa la qualità del film, la veridicità, il dolore, l'arte e la catarsi o qualsivoglia altra stronza considerazione profonda, tutto cambierà e tutto andrà bene e si salveranno a vicenda dalle loro vite storte. Ed invece, quando in sottofondo parte il riff di Sweet Child of Mine, quando vi ritrovate di colpo a vent'anni fa e non sapete nemmeno come ma in un attimo tutto è di nuovo e per sempre chiaro, invece allora sapete come andrà e sapete che è giusto così. Non moralmente, no. E' solo placido realismo. Intanto vi siete commossi, magari. E magari fareste meglio a non dirlo in giro. Teniamocelo per noi.

In tutto questo il punto era un altro, però, e sarebbe il caso che lo esternassi. Il film di cui parlavo sopra ha vinto il Leone d'Oro - assegnato da una giuria presieduta da Wim Wenders. Wenders ha girato dei film splendidi, negli anni che furono. In tempi più recenti lui come molti altri grandi è - ahinoi - assai decaduto. Ma evidentemente non ha perso l'occhio per il cinema, il vero cinema, quello che accade sempre più di rado. Soprattutto, non ha perso il coraggio. Ce ne voleva, per premiare questo film in una mostra che ambisce a coniugare un po' di sano divismo a scopi pubblicitari (sennò che cazzo portiamo Brad Pitt - o altro manzo a scelta, a seconda dell'annata - al Lido a fare?) con premiazioni sempre più insopportabilmente intellettuali. Questo film americano (anche se indipendente), questo film di Aronofsky (che è bravo e si sa, ma mica è nato in Kyrgizistan, quindi non può esser regista da Leone d'Oro!), questo film con Mickey Rourke, orrore! orrore!, questo film onesto e vero e magnifico ma col difetto cinefilicamente mortale di non essere palloso.

Ricordiamocene, sarebbe il caso.

giovedì 31 luglio 2008

Dante 01

Ci dispiace, lo diciamo sinceramente, dover parlar male di Marc Caro. Assieme al collega Jeunet aveva messo insieme, circa quindici anni fa, un film onirico e pieno di idee come "Delicatessen". Adesso invece (sarà stato il transito per la saga di "Alien") eccolo affondare in un’operaccia vuota, insensata e volgare. Senza nemmeno la redenzione visiva, che a volte rianima autentiche brutture come "The Cell".
"Dante 01" (riferimento non richiesto alla "Commedia"), infatti, è un pasticcio che mescola simbolismo di bassa lega, claustrofobia stile "Alien3" (ahi) e sofferenza gratuita. Con un montaggio in stato confusionale e una regia dopata dal computer.
Di fatto, si tratta né più né meno che di un colossale "Grande Fratello" (quello moderno, imbarbarito dal reality) su una colonia di detenuti in una stazione orbitale, sui quali, grazie all’arrivo di una nuova ricercatrice, carina quanto spietata, si conducono raccapriccianti esperimenti. Sarà tuttavia una delle cavie, appena aggregata ai compagni di sventura, a frustrare gli intenti della novella Mengele.
Il film si snoda, per una lunghissima ora e mezza, fra la sala monitor e gli interni delle galere, in un balletto di sguardi fra prede e carcerieri interrotto soltanto dalle risse fra i detenuti e gli esperimenti degli scienziati. Questi ultimi meritano una citazione a parte: quando più loro aggrada, addormentano i malcapitati con apposito gas, poi ne scelgono uno a caso, inoculandogli un terribile virus che fa strazio delle sue interiora, ed esaminano tranquillamente la scena.
Ciò, perlappunto, fino all’arrivo del suddetto Salvatore, il quale, grazie a poteri prodigiosi, viene in soccorso dei colleghi estraendo ed inghiottendo personalmente i vermi solitari che allignano nei loro corpi, passando il resto del tempo a sudare e contorcersi per il dolore. Il nostro, come se non bastasse, riuscirà anche a salvare le sorti dell’astronave-prigione, destinata a schiantarsi su Dante 01 (nome del pianeta infernale che dà il titolo al film), mettendosi autenticamente in croce (!) nello spazio (!!) e assorbendo le fiamme (!!!) provenienti dall’atmosfera.
Vi risparmio altri dettagli insignificanti, come la solita morte dei cattivi (ricercatrice figa e partner innamorato) che nel tentativo di fuga finiscono risucchiati da Dante, oppure i misteriori titoli tra una sequenza e l’altra (“secondo anello”, “terzo anello”, nemmeno fosse un plastico dello stadio di San Siro), perché il riferimento cristologico basta e avanza.
Solo, per finire, un appunto sul design. Passi per la forma dei batteri infilati nelle cavie, che hanno l’aria di un delirante pezzo di lego. Ma che siano anche uguali, in scala 1 a 10, all’astronave, sembra veramente troppo.

LA SCHEDA
Dante 01
La frase: "ah, perchè vorrebbero farci credere che lui ha salvato l'astronave. E' ovvio che si schianta ugualmente"
Sconsigliatissimo:
a chi ha già visto "Alien 4" (e conosce il regista), "Alien 3" (e conosce la claustrofobia), "Alien" e basta (e conosce la fantascienza).
Giudizio:
KKKk

mercoledì 30 luglio 2008

Le morti (?) di Ian Stone

Noi ci abbiamo visto "Ghost", "Matrix" e "Ricomincio da capo". Ma c’è chi suggerisce "Dark city", "Final destination" e perfino Harry Potter. Probabilmente però il prestito più autorevole delle "Morti di Ian Stone" è il precedente capolavoro del suo regista, Dario Piana: "Sotto il vestito niente 2". Perché quest’ennesimo teen horror estivo, che sa di afa e sale vuote, si può salvare giusto nel titolo. Per il resto è la solita, macchinosa, rifrittura in cui annaspa tuttora il genere, con tanto di spiegazioni eccessive, buchi nella sceneggiatura e un generale senso di inutilità.
La trama. Beh, auguri. C’è un campione di hockey (Ian Stone) che in un tetro post-partita soccorre un malcapitato nei pressi di un passaggio a livello, scoprendo poi, suo malgrado, che si tratta di un mostro lì per ucciderlo. Muore, piallato dal treno in corsa, per poi ritrovarsi, come per incanto, impiegato d’azienda oberato di lavoro. Torna a casa, finito lo straordinario, e incrocia in ascensore un uomo disperato con valigetta. Lo vede fuggire e poi morto, sul marciapiede, con un affabile sconosciuto che gli succhia via il sangue dalle vene. Finirà, anche in questa vita, ammazzato, stavolta dalla sua fidanzatina. E risorgerà.
I passaggi successivi sono pura legge di Murphy: disoccupato, drogato terminale, malato in ospedale immobilizzato da un’orrenda struttura ferrosa. E con la morte violenta (salvo alla fine, ovviamente) a fare da sipario tra un’esistenza e l’altra. Le domande si accumulano. Chi lo vuole uccidere? Perché si risveglia da un’altra parte? Chi è la misteriosa ragazza che fa da pendant (o da Caronte, a seconda dei punti di vista) tra un decesso e l’altro? Grazie a una prodigiosa delucidazione di un vecchio malconcio – giunta, ahinoi, dopo soli quindici minuti di proiezione - possiamo sapere, insieme allo stralunato Ian, che egli, in una vita precedente (che palle!) era una specie di Angelo della Morte, che sbattendosene della presunta immortalità della sua specie aveva fatto fuori un proprio simile. Causa: l’amore per la ragazza di cui sopra, passata da vittima predestinata (gli Angeli ammazzano gli umani solo per drogarsi della loro paura negli attimi precedenti la fine) ad eroina salvifica.
In tutto questo, le ripetute morti inflitte a Ian sanno, più che di vendetta, di pulsione masturbatoria: tanto non lo si uccide mai del tutto, lo si fa solo soffrire. E non a caso a capo della bandaccia di mostri c’è la solita amante tradita, Angelo-Demone pure lei. Quanto al vecchio di prima, non è né più né meno che un collega del protagonista, anch’egli stufo di succhiare il sangue alla gente, che cospira per fargli ricordare il suo passato, unico modo per uscire dalla spirale di decessi in cui è stato intrappolato. Ottimo, fra l’altro, il trattamento del personaggio: all’inizio del film viene rapito dai cattivi, i quali tuttavia – così dicono – ignorano chi sia la talpa che fornisce al nostro le preziose informazioni. E allora? Per (non) capire bisognerà attendere l'insopportabile pre-finale, con tanto di ulteriore monologo. Il resto è sangue, violenza e malcelato sadismo.

LA SCHEDA

Le morti di Ian Stone


In una frase: "Era meglio 'Hellboy 2' "
Sconsigliatissimo: a chi ha già visto "Ghost" (e i fantasmi sui treni), "Matrix" (e i costumi tenebrosi), "Ricomincio da capo" (e le storie circolari) ed ha un bel ricordo del film
Giudizio: KKK

venerdì 20 giugno 2008

ONORA IL PADRE E LA MADRE - OVVERO "LUMET LUMET PERCHE' NON SEI PIU' LUMET?"

Sidney Lumet ha, durante la propria lunga carriera, prodotto film memorabili (da La Parola ai Giurati a Quel Pomeriggio di un Giorno da Cani). Non vogliamo insistere qui sulla convenienza del ritirarsi all'apice del successo, della qualità del proprio lavoro. Tuttavia, a volte, risulta inevitabile chiedersi cosa abbia spinto un uomo tanto lodevole a non scegliere un buen retiro bensì ad infliggere a se stesso, alla propria carriera, infine pure a noi una tale ingiustizia. Trattasi di debiti? Debiti di gioco? Se la prontezza mentale del fu maestro è quella denunciata da quest'opera, consigliamo affettuosamente di non tentare alcunchè di più rischioso o frenetico di un Totip - già un tresette tra amici potrebbe avere esiti disastrosi.

Vorremmo tediarvi con la trama - e, statene certi, non sarebbe piacevole. Disgraziatamente la messa in scena è peggiore. E, inganno supremo, il primo tempo potrebbe lasciar qualche speranza residua. Ma il secondo vi macina inesorabilmente le gonadi, sfruttando tutte le più letali armi del caso: lentezza, macchinosità, pretenziosità. E ancora: mancanza di pathos, ripetitività, prevedibilità. Sentitevi liberi di proseguire l'elenco, a piacimento. Non commettete però l'errore di volerlo usare come sonnifero: fallisce anche in ciò, e vi rimarrà solo un carico di noia e di pesantezza sufficiente fino all'età pensionabile (Sidney, leggi tra le righe: è ora!).

Tanto per replicare ad ogni immaginabile motivo di interesse:
  • potreste voler apprezzare le doti attoriali di Seymour Hoffman, ma finirete piuttosto con l'ammirarne le cadenti carni (natiche in primis) in una scena di amplesso, e col domandarvi perchè abbia accettato una parte che, pur sulla carta (lì e soltanto lì) potenzialmente interessante, evidentemente lo mortifica nella pratica;
  • potreste voler gustare la piacevolezza estetica e recitativa di Marisa Tomei, ma i nudi (lodevoli!) non bastano a dare un senso a due ore di sopportazione, e tutto sommato potete benissimo scaricarveli da internet - sulla parte tacciamo per eccesso di bontà;
  • potreste voler rimirare il giovin (ancora? ma crescere, no?) Ethan Hawke, ma sinceramente il belloccio si aggira per il set perennemente con espressione un po' così, a mezz'asta (domanda: quante mosche ingurgita, costui, nella giornata media, girovagando con la bocca semiaperta in catatonica contemplazione del nulla?), ed il piagnucoloso personaggio ripugnerebbe anche la più veemente delle sue fan;
  • potreste infine voler pagare un tributo ad Albert Finney, che ha in effetti la classe che ha, ma tra Allen, Burton e Lumet sta partecipando a tanti funerali di carriere altrui da far pensare che forse sarebbe l'ora tumulasse la propria.

Se state ancora pensando che ne valga la pena perchè "è un film di Lumet" ascoltate dei fessi che di tal errore hanno pagato (non solo alla cassa) le conseguenze: non ne vale.

Onde sollazzarvi un poco (chè a noi questi ricordi ispirano tristezza, e noia, tanta noia...) vi raccontiamo brevemente (Sidney, di nuovo, capta il messaggio: brevemente) la vicenda:
due fratelli portano avanti le proprie vitacce come possono. Il maggiore (e grasso) ha un lavoro da grana, ma non abbastanza per le sue ambizioni, ergo maneggia denaro in modo illecito. Nel tempo libero, porta la moglie a Rio per ritrovar la voglia di scopar e si reca da una snobissima checca per bucherellarsi le vene, il ragazzaccio. Il minore è un perdente, in ogni senso - non ci chiedete di parlarne troppo. Basti sapere che si scopano la stessa donna, solo che uno (sovrappeso) la mantiene pure, mentre l'altro (spiantato) non potrebbe. I due, uniti dal bisogno di contante (per sesso & droga e sesso & debiti, rispettivamente), optano per la soluzione che tutti i figli amorevoli di questo mondo sceglierebbero: rapinare la gioielleria degli anziani genitori (per inciso, un plauso ai distributori italiani per la scelta del titolo - mai correre il rischio che il film ci sorprenda in qualche modo, sputtaniamo tutto subito!). Indovinate? Qualcosa va storto, e la vecchia madre ci lascia le penne. Di qui, un'escalation inesorabilmente lenta e prevedibile di fattacci, che l'autore ci propina in ordine cronologico sparso (ohhhh, che espediente! Tarantino salvaci tu!): minacce, estorsioni, morti ammazzati, rivelazioni tragiche. Il ciccione è un merda (il piano è suo, e poi si droga, e poi è grasso quindi come potrebbe esser un buono?), ma vien fuori che da piccolo l'han poco amato, ed allora sì che la psicologia si spreca. Quell'altro è un fallito, un piagnone, un perdente. Il padre è un maniaco giustizialista, ingrifato all'idea di vendicare costi quel che costi l'amata perduta. La madre, probabilmente l'unica decente della famiglia, è andata. Il resto dei personaggi è più piatto dello schermo sul quale, ahinoi, prendono vita (si fa per dire). Sangue ed incazzature il giusto. Servire freddo, trangugiare senza gustare - non ci sono alternative.

LA SCHEDA

ONORA IL PADRE E LA MADRE

In una frase: "però, figa la Tomei" ovvero, per tutto il resto del film "si, ma che palle!"

Sconsigliatissimo: a chi amava Lumet e non vorrebbe smettere, a chi ammira uno qualsiasi dei protagonisti, a chi non ha troppi peccati da espiare - meglio i lavori sociali.

Giudizio: KKK (dovrebbe esser peggio, ma è troppo palloso anche per i Kevin)

martedì 17 giugno 2008

Un grande ritorno - io! E (John) RAMBO...

A 20 anni di distanza dalla sua ultima apparizione sul grande schermo, torna per la letizia di grandi e piccini l'eroe degli eroi, il reduce dei reduci, la mascella ed il labbro più prominenti del cinema di guerra americano - John Rambo è di nuovo tra noi! Venghino siòre e siòri, venghino.

La vicenda (??) si svolge stavolta in una piovosissima ed assai violenta Birmania (avete notato come la location delle avventure di Johnny sia vieppiù decadente? dalla provincia americana ad un sempre valido ritorno al Vietnam ad un Afghanistan ante guerra contro il male by Bush e soci - sarà mica profetico, lo Sly? - a questa sozzura di paese). Stallone ci informa, in fase di presentazione dell'opera (???), che intendeva sensibilizzare il grande pubblico alle guerre invisibili, nascoste, poco presentate dai media. Nobile intento vivificato da una messa in scena indubbiamente all'altezza.

In sintesi: un gruppo di semi-fanatici religiosi si reca laggiù a scopi umanitari, senza ben capire che rimarrà incastrato in una fetente guerra intestina (si informassero prima leggendo la Lonely Planet, come fa il Pentagono). Trovano sulla propria strada un innocente barcaiolo a nome John Rambo, ritiratosi da precedenti attività per godersi la pace del clima fluviale Birmano (in mezzo a pioggia densa come piscio - che non si arresta tranne che nelle scene di massacro, ove giustamente non si vuole rovinare la visuale - soldati inutilmente feroci e ferocemente inutili, lotte mortali tra serpenti et cetera - de gustibus...). Ritengono, i fessi, di poter compiere la propria missione da sè, e si intestardiscono a convincere il pacifico (come un bovino, stando all'espressione) John a condurli in barca alla loro meta. La convinzione ha luogo a mezzo di una avvenente fanatica che, a seguito di intenso scambio di sguardi tra i propri occhioni ed il labbro inferiore di Rambo (che oramai pesa 30 kg, vive di vita propria e merita riconoscimento a parte nei titoli di coda), ne vince le reticenze e, supponiamo, il cuore. Egli dunque li conduce via fiume al luogo desiato, tour ameno a prezzi modici che include veloce dimostrazione di arte del massacro del guerrigliero autoctono. Exeunt i fessi, se ne torna a casa Rambo, entrano in scena i suoi colleghi macellai: nella fattispecie, un gruppetto di assassini stracciabudella (altrui) ingaggiati da un altro prete americano onde recuperare il precedente gruppo di, ovviamente a questo punto, dispersi-rapiti-torturati. Nuovamente convinto dal ricordo (serbato vivissimo dal proprio labbro) dell'avvenente maniaca di cui sopra, il John si porta a spasso per il fiume questo manipolo di "duri" (che non risparmiano battute sagaci, sullo stampo di "e poi mandano un Diavolo - indicando sè stesso - a fare il lavoro di Dio. Ironico, eh?") e, giunto a destinazione, vorrebbe unirsi a loro nel tentativo di recupero - il Soldato Ryan ha fatto scuola, sembra. Schernito dai bruti ("tornatene a casa, barcaiolo!") John lascia la custodia del suo rottame galleggiante ad un giovane del luogo (uno dei pochissimi autoctoni a non lasciarci la pellaccia) e si imbosca onde portare avanti la missione a modo proprio. Naturalmente ciò si rivela il fattore decisivo. Quando la marmaglia di soldatacci di ventura si ritrova alle strette, ecco intervenire Lui: al culmine di una scena (esilarante) in cui i ferocissimi (!!) Birm-cong si sollazzano spargendo mine in una grossa pozza d'acqua e costringendo dei prigionieri a farsi di corsa delle vasche nella medesima fino ad esaurimento del materiale umano, i guerriglieri intervengono, finiscono quasi sodomizzati dalle preponderanti (ma dove?) truppe locali, si vedono infine salvati da Robin Hood-Rambo che, armato di arco e frecce, stermina i cattivi come ai giorni belli. Mirabile il tiro col quale trafigge al collo (da qualche centinaio di metri, per gradire) uno dei malcapitati, facendolo piroettare nell'aere ed atterrare 'n coppa (scusate il napoletanismo) ad una delle mine dallo stesso piazzata poc'anzi. Se non è giustizia poetica questa.

Segue espletamento della missione. Non vorremmo rovinarvi il godimento rivelando troppi dettagli, lasciateci solo dire che la quantità di morti ammazzati, sbudellati, scarnificati, tradotti in ragù di Birmano dal tiro ravvicinatissimo di una mitragliatrice che spara cartucce grosse come piccioni (e meno male che John è coperto da una sorta di parabrezza, altrimenti il conto in lavanderia sarebbe esorbitante) ed insomma variamente sparpagliati per la jungla è assolutamente strabiliante. Una festa per gli occhi. Fuochi d'artificio. Altro che Hana-Bi, Kitano fatti da parte. Chicche di passaggio: il capo dei malvagi è un pederasta ripugnante, al quale però il Rambo riserva una morte relativamente più clemente - lo sgozza col suo machete da passeggio (sarà mica diventato politically correct, lo Sly?). Finale in gloria: ispiratissimo dalla giovine pulzella, il John che fa, finalmente copula dopo 4 film ed una quantità di morti ammazzati che nemmeno il colera? No! Se ne torna negli USA, a vivere in miseria, ma con dignità (non ci crede nessuno). Rimane aperto il concorso per stabilire il nome del parente da cui si reca - sulla ineffabile cassetta della posta prospiciente l'ineffabilissima fattoria sgarrupata svetta la scritta "R.Rambo". Ricky? Rapax? Rihanna? Rognone? Ai posteri, come sempre.

Note a margine (del nulla): controllando su www.imdb.com se mi sfuggisse qualche dettaglio, mi avvedo di due cose.

1- stando ai fan americani la location è Burma, Thailandia. Resto dell'idea di aver sentito chiaramente Birmania. O forse l'assonanza mi ha distratto. O forse han tradotto male in Italiano. O forse potrebbe non fregarcene di meno, dato che il Paese (checcè ne dicesse Sylvestrone) conta meno di un kaiser per il nostro Eroe - sempre musi gialli massacrati sono, dopotutto...

2- il voto medio dei "cinefili" (mah) americani a questo film (mah) è 7.5/10. Sarò io che son prevenuto, pare.

LA SCHEDA

JOHN RAMBO

In una frase: "non sono venuto a salvare Rambo da voi, ma voi da Lui" (si, il primo era il migliore - la frase, profetica in senso cinematografico)

Sconsigliatissimo: non saprei... siete pacifisti? siete religiosi? siete soldati di ventura? siete Thailandesi (o Birmani, insisto)? siete amanti del cinema? sapete almeno leggere???

Giudizio: KKKKk (perchè no, i cinque Kevin non li dò...)

lunedì 16 giugno 2008

E venne il giorno

Sì, lo ammettiamo. L'abbiamo fatto. Anche se ci eravamo ripromessi di non tornare mai più a vedere un film di M. Night Shyamalan (una bambola, ovviamente indemoniata, a chi indovina la pronuncia del cognome). Avevamo abdicato dai tempi di "The Village", ma eravamo incazzati sin dai gloriosi fasti di "Unbreakable" (chiunque non detesti la pettinatura di Samuel L. Jackson in quel film ha qualcosa da farsi perdonare). E non avevamo visto le imprese di "Signs" e "Lady in the water". Ci erano bastate le critiche degli amici.
Ma l'abbiamo fatto. Ancora. Inconsciamente speranzosi che potesse ripetersi un "Sesto senso", qualcosa di attinente al noir, o mal che vada al thriller. Insomma, c'era pur sempre l'Apocalisse di mezzo, anche se il manifesto, checché ne dica Night eccetera, è identico all'idea di fondo di "The Stand", uno di quei libri scritti da Stephen King quando non era così milionario.
E ci siamo cascati. Un'altra volta. Presi all'amo dell'ennesimo pretesto, le morti senza motivo che al cinema sono un crimine, la fascinazione per l'assurdo a dispetto della storia, dei personaggi. Qualcuno spieghi a Night la sceneggiatura, possibilmente con l'ausilio di qualche spettro rompiglioni e un po'di vento, così si convince più facilmente, visto che - citando un'ottima definizione - "è un fissato del paranormale".
Orbene, siamo buoni oggi, dunque ve lo diciamo subito. Se v'interessa il film non leggete oltre, perché vi spiattelliamo la trama (?), il finto finale, e la mancanza di senso del tutto. Con insulti acclusi, come si conviene.
Siete ancora qui? Allora proseguiamo. La storia inizia con qualche pugno ben assestato. A Central Park, la gente che passeggia improvvisamente si ferma all'unisono. Nell'immobilità, una ragazza su una panchina si accorge che l'amica lettrice ragiona all'indietro. Surrealismo già visto in "Time" di Alessandro Maggia, verificate se non conoscete, che condensava il tutto in dieci minuti, essendo un corto di genere. Ma qui c'è un'ora e mezza almeno, dunque via col sangue.
La lettrice suddetta si infilza con una spilla per capelli, mentre l'amica si sta già orripilando che tutto si è bloccato senza motivo, tutti hanno perso la testa.
Capiremo subito dopo che le persone non si limitano ad arrestarsi. Si suicidano. Ognuno nei modi più acconci alla propria professione, il che è un'ode al grottesco che, lo confessiamo, ci ha parecchio divertito.
In ordine di apparizione:
- Gli operai si infortunano sul lavoro, gettandosi dalle impalcature;
- I poliziotti si sparano un colpo con la pistola d'ordinanza (poi, bella fumante, sfruttata anche dai comuni cittadini: del resto non è questo il senso di "to protect and to serve"?);
- I marines si fucilano decantando le lodi della propria arma (allo stesso modo di "Full metal jacket": Stan, scusaci tanto);
- Le vecchie bigotte si sfracellano la testa sui vetri della propria magione, a suon di preghiere e stregoneschi deliri;
- Gli altri procedono in ordine sparso: c'è chi sta fuggendo in macchina e si schianta con rincorsa contro un albero, chi, più piccino, dice alla mamma terrorizzata parole insensate al cellulare prima di tuffarsi da una finestra, chi si sdraia sull'erba saggiando di persona le virtù di una megafalciatrice.
In tutto questo, una sola scena degna di nota: gli impiccati sul vialetto di una cittadina di provincia, esposti all'improvviso allo sguardo pietrificato di alcuni fuggiaschi. Ma varrebbe di più se non fosse un saccheggio del "Sesto senso", almeno nelle atmosfere.
Per il resto. Una comica esibizione di Mark Wahlberg, nel film un didascalico professore di scienze, che sfodera immancabilmente la stessa espressione perplessa, sia che debba salvarsi da un pericolo imminente, sia che gli chiedano se gli piacciono gli hot dog. Insieme a lui, un'inquietante ragazza dalle pupille dilatate (non ricordiamo il nome dell'attrice, non chiedetecelo, ci fa paura) e un John Leguizamo totalmente fuori parte, passato dai balli luccicanti di Spike Lee alla desolazione della campagna epidemica.
Ci chiederete: e la trama? Mah. La gente prende a suicidarsi, tutto qua. Scappa (non si sa dove), finché non le arriva la tentazione definitiva. Roba deprimente, benché, per fortuna, senza troppa musica. La causa? Scartati i terroristi e le relative armi chimiche, la soluzione starebbe nelle piante, plurincazzate col genere umano, che a suon di vento sbarellano i terrestri grazie a una prodigiosa tossina emessa all'uopo.
Ciò, ovviamente, non spiega perché i protagonisti (Wahlberg e signora, più bambina degli amici resa orfana dai terribili eventi) si salvino, perché la sequela di morti autoindotte si arresti all'improvviso, perché, ancora, il tutto ricominci in altra location, a Parigi, con postilla degna dell'horror classico, purtroppo usata a sproposito, mancando una storia a giustificarla.
Nota a margine:
Non perdetevi due autentiche prodezze registiche:
1- Mark Wahlberg che parla con una pianta di plastica, pura pornografia nel senso già discusso in "Blueberry Nights";
2- Una terrificante vecchiaccia avulsa dal mondo che tiene una bambola orrenda sul letto. Mero inserto horror, ovviamente del tutto inutile. Good Night, Shyamalan.
LA SCHEDA
E venne il giorno
In una frase: "questo film l'ha prodotto Al Gore" (oppure, per i meno pacifici: "incendiamo subito la foresta Amazzonica")
Sconsigliatissimo:
a chiunque cerchi una trama, un senso, una storia. Anzi, parafrasando Vasco, un senso a questa storia.
Giudizio:
KKKk

giovedì 1 maggio 2008

Tutti pazzi per l'oro

Questo non è un blog pornografico (non ancora perlomeno, ci stiamo lavorando), tuttavia la presente recensione riguarda, indiscutibilmente, un film porno. Porno non, nell'accezione comune, quale esibizione di corpi nudi che fanno sesso, ma in quella, più ampia, di svuotamento del significato: immagini che riempiono senza dire, scene che mostrano senza esprimere, storie che avanzano senza raccontare.
"Tutti pazzi per l'oro" è proprio questo: una commedia che non fa ridere, un film d'azione privo di montaggio, un pretesto per esaltare le doti fisiche di Torso McConaughey talmente smaccato da apparire grottesco. Insomma, un bersaglio costantemente mancato.
Il film, ai fini del girato, potrebbe tranquillamente durare 20 minuti: è la solita rimasticatura della caccia al tesoro, con crisi coniugale sullo sfondo, e bellocci a copertura. Si salva infatti il bikini di Kate Hudson, ma è un po'poco, per un'ora e mezza di improperi al regista.
Piuttosto, complimenti agli sceneggiatori (?): idiozie a parte, mettono insieme un meraviglioso pamphlet sulla tolleranza zero. Le donne sono stupide, i gay isterici, i vecchi rincoglioniti (menzione d'onore per Donald Sutherland, si spera che l'Alzheimer l'abbia colpito soltanto sul set), i neri gangster e gli ucraini ucraini. Non si salva nessuno, compresa la forma fisica di Malcolm Jamal Warner, per tutti Theo dei "Robinson", che a occhio e croce ha messo su almeno 50 chili da quando lo coglionava Bill Cosby.

LA SCHEDA
Tutti pazzi per l'oro
In una frase: "Come hai imparato a guidare l'aereo?" "Con la playstation"
Sconsigliatissimo:
a chiunque voglia vedere un porno. Nell'accezione comune.
Giudizio:
KKKK

domenica 6 aprile 2008

My blueberry nights(mare)

Premettiamo una cosa. Prima di giovedì, non avevamo visto un film che è uno di Wong Kar-Wai. Alcuni hanno detto - e scritto - del recensendo capolavoro che si capisce meglio se si conosce anche il resto della filmografia. Ci fa piacere. Ma questa non è una retrospettiva su di lui. Dunque, se volevate i complimenti, girate altrove.
Veniamo a noi. "Un bacio romantico", si chiama. Meglio, l'hanno chiamato. Per renderlo più appetibile a chi non ama i mirtilli (e le torte di mirtilli). Ma il titolo originale è "My blueberry nights", di per sè non privo di suggestione. E di inganno, visti gli esiti.
Storia. Boh. C'è un bar a New York gestito dal piacionissimo Jude Law, con look alla Paolo Maldini. Ci capita Norah Jones, la cantante Norah Jones (non male come attrice, unico aspetto positivo del film), in rottura di fidanzamento. Si conoscono, non si amano. Almeno non ancora. Perché lei, per dimenticare le tristezze sentimentali, va a impiegarsi lontanissimo, in un bar popolato da poliziotti ubriaconi (David Stathairn, tutto mestiere e guance ciondolanti) e relative mogli infedeli (Rachel Weisz, davvero pessima, almeno quando deve recitare). Tornerà solo alla fine del film, diversa e più consapevole, come tutte le donne che tornano alla fine del film.
Il ripieno, se così si può dire, di questo girovagare, sono due sequenze interlocutorie: una, di Jude Law, con una ex che assomiglia a Monica Bellucci, e un'altra, di Norah Jones, con una giocatrice di Texas Hold'em (Natalie Portman, truccata da quarantenne e del tutto fuori parte). Entrambe inutili, non solo ai fini della trama, peraltro inesistente.
Ora, puntualizziamo. Ci piace il cosiddetto cinema "di regia". Ma non i manierismi, le vanità, gli esperimenti gratuiti. Perché le inquadrature dovrebbero comunque raccontare. Avere una storia, e non un pretesto. Non ci importa nulla che Wong Kar-Wai ami lo stile documentario, conosca i segreti di una profondità di campo, azzecchi i giochi col punto di vista. E' roba da poco, senza un'idea in mezzo. E per cortesia, ci risparmi la grammatica: non si può girare un intero film solo coi primi piani, mettere la musica (Otis Redding, e ovviamente Norah Jones) a commento di qualunque scena, sfumare le immagini per puro opportunismo. Così, data anche la tematica, ne viene fuori una versione "happy meal" del peggior Abel Ferrara.
Quanto infine alla sceneggiatura. Se ci dimentichiamo le parentesi pornografiche, ad uso e consumo dell'impaziente regista (memorabile, in questo senso, la scena in cui ad entrambi i protagonisti sanguina il naso), ci resta solo una situazione, degna del miglior sogno erotico: battere al river Natalie Portman, con una scala colore contro un poker di re.
LA SCHEDA
My blueberry nights
In una frase: "e via con Otis Redding"
Sconsigliatissimo:
a chi cerca la scrittura, l'onestà intellettuale, la regia al servizio dei personaggi. Cioè, in una parola: il cinema.
Giudizio:
KKKK

Rec

Pensavate di esservi liberati di noi (e come darvi torto, del resto?), ma parafrasando Carlito Brigante, beh: non siamo ancora pronti a fare fagotto. Quindi, nuova recensione.
Per l'occasione, rispolveriamo il caro vecchio genere horror (ne parlo io, ché a Stantz gli schifa, a differenza dei pupazzetti), mai abbastanza spompato come al giorno d'oggi.
"Rec", signori. "Rec" produzione spagnola, brividi fatti in casa, location condominiale. Ah! Lo sappiamo. Ci aveva già provato Polanski, anni orsono, con "L'inquilino del terzo piano", e lì, in fatto di disturbo, trovate registiche, dirimpettai zombie, eravamo dalle parti del capolavoro.
Ma qui, meglio lasciar perdere. Sì, la protagonista Angela, al secolo Manuela Velasco, è carina (porta benissimo i 32), il programma televisivo in cui lavora ha un bel titolo ("Mentre tu dormi"), l'idea di far partire il carrozzone da una sonnolenta caserma dei pompieri di Barcelona è originale. A parte ciò, l'intera operazione è da dimenticare, per vari motivi:
1- La telecamera a mano che continua a girare in soggettiva per l'intero film, senza staccarsi dalle dita dell'operatore (il fido Pablo), nemmeno di fronte ai pericoli più indicibili, l'avevamo già vista in "Cloverfield";
2- Ci era piaciuta di più;
3- Nonostante questo, confidavamo nella sottile inquietudine dell'orrore artigianale;
4- Ci sbagliavamo. I personaggi sono grotteschi, le scene ridicole, la giustificazione di fondo del caos (misteriosa infezione rabbiosa venuta da chissà dove) risale ai tempi di Romero. Almeno;
5- La scena finale, che riconduce il tutto a una sorta di tana del maligno (bambina, ora ragazza, indemoniata, con concerto di foto sbrecciate, crocifissi e candeline, il tutto in soffitta unta e bisunta), dà solo fastidio, ma in compenso regala la fine del film;
6-Hanno ammazzato Pablo. Pablo è vivo.
P.S.: Vedetevi comunque l'epopea della vecchia che dà la scossa (?) al film. Climax indimenticabile: i pompieri intervengono perché la signora dell'ultimo piano dà via di matto, salgono le scale, la trovano in camicia da notte e insanguinata, provano a soccorrerla, lei si mangia la faccia del capitano e viene - solo temporaneamente - neutralizzata. La ritroveremo alcune scene dopo, più vegeta (viva è una parola grossa) che mai, che gioca a nascondino con l'ennesimo malcapitato, beccandosi una ringhiera direttamente sui denti. Due volte.
LA SCHEDA
Rec
In una frase: "Tranquila, tranquila!". Segue zombie.
Sconsigliatissimo
: A chiunque ha amato "La notte dei morti viventi", ha odiato "The Blair Witch Project", s'è già visto "Cloverfield" (ed è di buonumore) o "Prospettive di un delitto" (ed è incazzato).
Giudizio:
KKk

domenica 2 marzo 2008

Prospettive (?) di un delitto

Finalmente un film che parla di un attentato. Finalmente un thriller politico in cui la verità non è quella che sembra. Finalmente una teoria cospirativa.
Perché avevamo ancora bisogno di talpe. Di kamikaze. Di sosia con la faccia del Presidente degli Stati Uniti d'America. Avevamo ancora bisogno del budget, del montaggio adrenalinico, della messinscena.
Soprattutto, avevamo ancora bisogno di rivedere la stessa sequenza per tre, quattro, cinque volte di fila, semplicemente con un'angolazione (ma non una distanza critica) diversa. E del riavvolgimento veloce con tanto di orologio per far capire allo spettatore rimbesuito che si sta parlando sempre della stessa azione, dello stesso evento, dello stesso film che non si muove di un millimetro.

Sono le 12 del mattino a Salamanca, in Spagna, c'è un summit per la pace, parla il Bush di turno. Gli sparano, si scatena il panico, lo portano via. Scoppia una bomba, lontana, poi un'altra, più vicina. Il resto è corsa, travestimenti, conti regolati sotto un viadotto. Sangue, vetri. Noia.

Pete Travis, il regista, all'inizio sceglie una strategia, apparentemente fedele agli "8 punti di vista" del manifesto. L'idea non sarebbe male, se lui si chiamasse De Palma. Ma l'anagrafe dice diversamente e così, preso atto della dura realtà, tutto il secondo tempo si snoda come un normalissimo film d'azione, con un unico osservatore (chi, stavolta?) che fa tesoro delle informazioni sparse durante il continuo review della prima parte (4 o 5 ripetizioni, non 8: boh).

Vediamo dunque cosa succede dopo. Apprendiamo che le prime impressioni erano sbagliate: chi sembrava il Presidente è in realtà un sosia, chi un concierge un kamikaze, chi un turista un terrorista. E che c'è una faida - la solita - tra i killer, che William Hurt, il Bush di turno (vabbè), è ancora vivo, che Dennis Quaid, il Dennis Quaid di turno, lo salverà.

Da segnalare, a margine:
- Sigourney Weaver, totalmente inutile nella parte della regista televisiva;
- Forest Whitaker, integralmente scemo nella parte dello spettatore munito di videocamera, con tanto di cuore d'oro, chili di troppo, e una moglie che l'aveva lasciato e lo riprende al telefono, per puro spirito consolatorio;
- La giornalista carina che muore subito (uno spreco indecoroso);
- La frangia terrorista spagnola (con tanto di dialoghi sottotitolati, che fa molto nemico);
- La guardia del corpo rintronata (il suddetto Quaid, con gli angoli della bocca perennemente abbassati per lo sforzo, come i sollevatori di pesi alle Olimpiadi), che resta fedele al Presidente e sgomina i cattivi, compreso l'infiltrato, suo ex amico, che invece... che palle.

In tutto questo, sappiatelo, gli U.S.A. non bombarderanno mai delle postazioni terroriste in Marocco - che è un paese amico - solo perchè qualcuno ha sparato al (sosia del) Presidente. Quello che conta sono i principi.


LA SCHEDA
Prospettive di un delitto
In una frase: "Questo film l'hanno girato in un giorno"
Sconsigliatissimo:
a chi vorrebbe vedere un film non banale sul terrorismo mediatico (scegliete Cloverfield), a chi ama il poliziesco di classe (tornate a Pakula), a chi vuole un po' di cinema (andate da un'altra parte)
Giudizio:
KKKk

venerdì 15 febbraio 2008

30 giorni di buio - 30 (o poco più) secondi di recensione

Banale. Senza tensione: peccato mortale, in un racconto che avrebbe potuto esser buono, altrimenti. Non fa paura, non fa granchè schifo. Scena finale pessima. Se Hartnett ha deciso di bruciarsi la carriera, che ce lo dica e ci risparmi tempo. I vampiri noi li preferiamo in chiave romantica. I film sui pochi eroi isolati contro i mostri li ha già fatti Romero. Questo, doveva rimanere un fumetto. E risparmiateci le storie d'amore finite ma riprese ma impossibili ma eccetera. Che palle.

LA SCHEDA

30 giorni di buio

In una frase: "'Date fuoco alla città!', lo dico dall'inizio del film!"
Sconsigliatissimo: a chi volesse un brivido. A chi ama le storie di vampiri. Pure alle fanciulle che si volessero godere l'attor giovine. Vedetevi Slevin, è meglio.
Giudizio: KK (non vi meritate nemmeno i Kevin)

INTO THE WILD - Storia di un giovane che sente l'urgenza di andarsene. E se ce lo mandassimo noi?

Vorrei essere sottile, circonlocutorio, ironico più che mai. Ma ho appena aperto una busta paga, e le trattenute IRPEF fanno passare la voglia - riportano, in compenso, a galla la commistione tra sconcerto e rancore (entrambi legittimi) suscitati dal giovine protagonista della nuova pellicola firmata da Sean Penn. Ma andiamo con ordine.

Ingrifati non poco da una serie di fattori - nome del regista (anche se, va detto, più che altro affascinante per il personaggio e l'attore che è), trailer (troppo facile farne di buoni, dovremmo sempre ricordarcelo), l'immaginario del viaggio che sempre ci conquista (troppo facile anche questo, avete ragione) - ci rechiamo infine, dopo diversi tentativi sfumati, al nostro multisala preferito (sempre amare la decadenza!) per gustarci Nelle Terre Selvagge. A proposito: sorprendente come i distributori italiani riescano con puntualità robotica a tradurre i titoli che meriterebbero di esser lasciati in originale e viceversa. Ma transeat. Il film si propone come un rischio, una sfida: due ore e mezza possono essere fonte di grande soddisfazione, se siamo non si dica al capolavoro ma a livelli comunque alti. Possono pure, però, trasformarsi in una sofferenza indicibile. Armati di tutto il nostro coraggio (cinematografico), di grandi aspettative e della fiducia ispirata dalle poltrone del multiplex in questione (ci si dorme non malaccio, volendo), partiamo all'avventura.

Lo stesso dicasi per il protagonista del film: Emile Hirsch (che un link NON se lo merita), giovane ed aitante (aitante? spero lo abbiano ingrassato per la prima metà del film, altrimenti suggerisco di tagliare i MacDonald's) attorino che impersona un ragazzo, un neolaureato, un sognatore ribelle fuggitivo. Un essere umano che cerca la fuga da altri esseri umani, in primis la famiglia e le relative insopportabili costrizioni. Mentre ve ne state ad ammirare (si fa per dire, molto) la prima metà del film, vi prospettate quasi un romanzo di formazione, un racconto con toni zingareschi (e sperate in Kusturica, ma sperate male), una serie di avventure forse non destinate a procurarvi profonde riflessioni sulla vostra vita ma divertenti, varie, piacevoli. Che qualcosa non vada lo potreste subodorare: anzitutto la narrazione alterna flashback di questo attraversamento - piuttosto disordinato, ma l'avventura prima di tutto - di parte del nordamerica con il racconto di quanto accade al termine del pellegrinaggio, in Alaska. In secondo luogo, di quando in quando fa irruzione la voce della sorella del ragazzo, che racconta, seguendo la cronologia del flashback, la crescente preoccupazione, infine disperazione, per la sua scomparsa - il debosciato ha, infatti, deciso di far perdere le proprie tracce al mondo intero, principiando con la famiglia. Dove son finiti i valori, mi domando! Terzo: il fancazzista in questione, dopo aver regalato a qualche - sicuramente losca - associazione benefica i 24000 dollaroni residui del suo fondo per gli studi, fatto a pezzi i propri documenti, abbandonato l'auto in preda ad un'inondazione e bruciato gli ultimi soldi, non contento di essersi trasformato in un essere lurido fin nelle ossa (memorabile scambio di battute con un amabile vecchietto che sarà, più tardi, maltrattato dal giovine delinquente: "vivo qui per mia scelta" "nella sporcizia?") decide di darsi un nome d'arte in qualità di vagabondo. E sceglie Alexander Supertramp. E voi capite che deve schiattare, gli sta troppo bene. Quarto ed ultimo (per pietà, potrei proseguire): avete un comodo accesso internet, oltre che innumerevoli altre fonti di informazione, e sapete che il furbone alla fine muore eccome, deo gratias. Tutto ciò provoca un crescente senso di inquietudine, che però rimane latente nel primo tempo.
Nel secondo il tutto deflagra. Da un lato Penn perde il controllo della situazione, rincorre soluzioni stilistiche anni '60 senza saperle gestire e fa dilagare l'immaginazione sulle avventure (particolarmente sui pensieri) del giovinastro. D'altro canto emerge un dato ormai incontrovertibile: l'imberbe fesso è una specie di saccente, arrogante, presuntuoso guru del cavolo. Si crede e si atteggia ad illuminato, a momenti sembra un angelo o un messia, un rivoluzionario, qualcuno che ha compreso, trovato la verità in sè e nei propri libri (ma poi, ma quando mai Jack London voleva lanciare il messaggio di lasciare tutto e tutti per andare a vivere nei boschi? ma per favore!). Peccato - per lui, e per noi finchè non paga il giusto fio - che sia invece un solenne pirla. Al fine di sintetizzare, illustriamo con il suo ultimo, illuminante pensiero: "la bellezza è reale solo se condivisa". Ora, pur viaggiando in modo convenzionale, non avventuroso e/o cencioso, qualche fuggevole scorcio di mondo l'abbiamo visto anche noi. Abbiamo avuto la fortuna di condividere queste esperienze, il che le ha rese ancor più memorabili. E ce ne rendevamo conto mentre le vivevamo, pensate un po'! Al simpatico (come una colica renale, all'incirca) Alexander Supertramp invece necessita un giro per metà USA (e persino in Messico!), fatto di camminate, autostop, kayak, campeggio, sozzura, lavori improvvisati, abbandono di tutti i beni materiali salvo un paio di occhialini da secchione, durato due anni e terminato (il viaggio ed il suo protagonista, all'unisono) con due mesi di sofferenze in Alaska per comprendere. Una domanda, però, si staglia su tutti gli altri pensieri. Perchè, ma perchè, in nome di ogni divinità possiate voler invocare, il cretino, dopo aver tranciato tutti i propri documenti di identità, bruciato denaro, ucciso di frodo animali, partecipato ad un'interminabile teoria di attività illegali, valicato senza permesso (nè, ovvio, documenti) in due sensi il confine USA-Messico, perchè diavolo si rifiuta di accondiscendere alla profferta amorosa di una giovane, bellissima fanciulla (per di più impegnata song-writer) con la motivazione che è "troppo giovane"? Come lo apostrofa un più anziano (e saggio) amico hippy: "quella povera ragazza è lì che si farebbe un palo della recinzione, e tu sei qui che ti fai gli addominali dell'asceta". Il palo della recinzione va usato in un solo modo. Sul protagonista.

LA SCHEDA

Into the Wild - Nelle Terre Selvagge


In una frase: "Penn non sa cosa sia successo realmente. Anzi, probabilmente non sapeva mai cosa stesse succedendo."
Sconsigliatissimo: a chi si aspetterebbe riflessioni, bellezza, passione per il viaggio, amicizia, conoscenza. E pure a chi si ritiene di essere il solo fulcro del mondo, come Alex Supertramp. Statevene a casa, no?
Giudizio: KKKk (perchè le immagini di viaggio ci piacciono sempre, e per limitare un po' il rancore, non si sa mai che dovessimo reincarnarci in un americano pirla)

sabato 9 febbraio 2008

Scusa ma ti chiamo amore - Il trailer

Scusa ma non ti chiamiamo autore, Federico Moccia, anche se non abbiamo letto una riga dei tuoi libri, che ci è bastato l’estratto: "bacio sull’onda", "bacio non si può", "bacio c’è gente", cosa mai significa "bacio c’è gente"? Ma perché non ti hanno assunto a Cosmopolitan, a Grazia, a Donna moderna, condannandoti al gossip, alle rubriche di moda, o semplicemente alle didascalie? E ti hanno perfino promosso regista, che per qualcuno questo sarebbe addirittura il tuo “esordio”, ma noi ben ci ricordiamo, Federico Moccia, di un’altra impresa leggendaria, "Classe mista terza A", il previous movie (?) da te diretto, col ciccione interrogato che diceva: “l’infinito di Leopardi? leopardare”. L’hai scritta tu, Moccia, questa perla? questa battuta che fa il paio con la pioggia di lucchetti a Ponte Milvio, che li tagliassero di nuovo, e crollassero i lampioni sotto il peso dei lucchetti, e crollassero anche i ponti, Step dopo Step (a proposito che bel nome, Step, per un protagonista, che neanche fosse un cane, ma tanto l’importante è che sia inglese, adolescente e appiccicoso) ma pietà per gli Scamarcio, pietà per i Raul Bova, pietà per tutte le Michele Quattrociocche, Quattromoccie di questo mondo, così Moccioso, pieno d’inflessioni romanesche che già “non è la RAI”, così ricco di momenti da cornetto Algida, che al confronto Stefano Accorsi e Cristiana Capotondi sono intellettuali, così fortunatamente breve, perché si tratta pur sempre di un trailer, che nel pastone cinematografico di questi giorni precede, come una nemesi, la reclame di "Caos Calmo" e quel simpatico accompagnamento easy in sottofondo che ci riconcilia col cinema, Isabella Ferrari e il mondo, anche se non andremo a vedere nemmeno quello, e non ci si provi, Pino Quartullo, che bastava continuasse a doppiare Jim Carrey, a dirci che nell’impresa mocciana c’è pure lui: perché, piuttosto che vederlo, scusa ma ce ne andiamo altrove.

LA SCHEDA

Scusa ma ti chiamo amore - il trailer

In una frase: "Ciao, sono Niki"
Sconsigliatissimo:
a tutti, a tutti.
Giudizio:
KKKK (è un'invettiva, voi capite)

martedì 5 febbraio 2008

Senilità (Woody was a genius)

Lo so, Spengler vi ha ricordato che avevo promesso Apocalypto. Ma quale bassezza sarebbe deludere i nostri lettori con qualcosa di così banale come il mantenimento di una promessa? Procediamo dunque (la vita va avanti, pare) su altri binari, e vi parliamo (sì, uso il plurale maiestatis, per chi non se ne fosse accorto) di un film nuovo, appena uscito al cinema, fresco fresco di distribuzione. Ahinoi. Torna sugli schermi uno dei miei, dei nostri, autori preferiti. Allen ha sfornato, nel corso di ormai quattro decadi, gran copia di film, molti dei quali memorabili. E' stato autore, interprete, regista. Brillante, a volte insuperabile nel primo ruolo, adatto alla propria comicità nel secondo, altalenante ma capace di buone performance nel terzo. Da anni, ormai, sappiamo che l'apice della sua verve comica è passato - peccato, dato che l'aveva condotto ad essere definito (probabilmente non a torto) il maggior umorista vivente. Nondimeno, le sue opere si guardano sempre - con stima, devozione ed aspettative enormi, ormai impossibili da soddisfare. E pazienza se poi tocca tornare a casa e metter su il dvd (o la cassetta: in quanto amanti di Allen avrete anche il buon gusto di essere un po' retrò) di Manhattan per ricordarci cosa era veramente Woody.
Altra tendenza degli ultimi anni della sua produzione (ipotizzo: proporzionale all'inaridirsi della sua vena comico-umoristica) è il tentativo di invadere, esplorare altri territori rispetto a quelli già ben noti. Il nostro, dunque, non si limita a delle sortite nel tragico (già ben rappresentate nella sua carriera - vedansi Hannah e le sue sorelle e Un'altra donna), ma cerca di costruire storie morali e corali. Il risultato, quello sì, è tragico. Esempio perfetto la pellicola attualmente sugli schermi: Sogni e Delitti (ma il titolo originale è meglio: Cassandra's Dream). Premettiamo: non ci era piaciuto, decisamente no, nemmeno Match Point. Dostojevski (o Dostoesvij, o come diamine volete trascrivere il suo nome) riletto in chiave fighetta e spoglia, delitto senza castigo non ci entusiasmano. Ed il protagonista (per la cronaca: Jonathan Rhys Meyers) ci stava decisamente sulle palle. Eccellente il decolletè della Johansson, certamente, ma poco altro. Ed il sospetto che Allen regista non avrebbe mai più raggiunto le vette (non assolute, ma nemmeno disprezzabili) degli anni d'oro - diciamo i '70. Ci siamo risparmiati il passo successivo (Scoop) solo per cadere, stavolta, in una trappola ben peggiore - della precedente, e di quanto fosse lecito temere. Non tanto per colpa degli interpreti. McGregor, che pure agli esordi non dispiaceva, ha evidentemente smarrito le doti attoriali da qualche parte lungo la Galassia Lontana Lontana, combattendo contro l'Impero del Male. Farrell, simpatico manzo con unica espressione sconfortata (sopracciglia che si innalzano all'unisono al centro della fronte, molto intenso), ce la mette tutta. Ma ne han ben poca. 6 per la buona volontà, sul resto tacciamo (e, tacendo, ci domandiamo se si possa parlare di un passo avanti rispetto ad Alexander, allorquando il buon Colin si faceva notare soprattutto per la disinvoltura con cui portava la ricrescita sotto la tinta bionda). Il resto del cast è puro contorno - e passi, soprattutto per Hayley Atwell (bona, si! - il logorio dell'età non impedisce al sig. Konigsberg di mantenere un valido occhio da maiale) che almeno è bella da vedere e per Tom Wilkinson che almeno è bravo.
Però è sconcertante come tutti i personaggi entrino ed escano dalla storia in modo impalpabile, diafane ombre funzionali più ad una scena che ad un costrutto ampio ed articolato (i genitori dei due bellocci - ancorchè imbolsiti assai - protagonisti, ad esempio, transitano saltuariamente sullo schermo salvo poi scomparire quando hanno esaurito la funzione). Le interpretazioni sono appiattite, e verrebbe da pensare che sia una scelta autoriale, tesa - appunto - a puntare sulla coralità e non sulle singole performance. Sventuratamente, piatta è pure la regia. E piatta è la sceneggiatura. Ci viene suggerito che potrebbe trattarsi di una scelta tesa alla mimesi della banalità del quotidiano. Per amor di patria ammettiamo possa essere vero, ma senz'altro non è scusa sufficiente per le innumere mancanze del film. Troppo teatrale per essere realista, troppo piatto per incidere, prevedibile e scontato, riesce a calare nel secondo tempo (ed è un'impresa, visto il primo). Si finisce con l'impressione che Farrell abbia davvero deciso, strada facendo, di attaccarsi alla bottiglia, onde scordarsi del pasticcio in cui si era imbarcato. Che McGregor abbia definitivamente perso quel poco di forma giovanile - se imbolsisce con costanza, tra qualche annetto potrebbe uscirne un discreto Nero Wolfe - nel fisico, soprattutto, ma anche nella recitazione. Che Allen non può tornare ai suoi livelli storici nella commedia, ma non deve in alcun modo perseverare in questa via perniciosa. Che la Johansson gli abbia tirato un memorabile pacco per il ruolo della fidanzata di Colin - la ragazza deve aver fiutato l'aria, brava lei. Soprattutto, che ci abbiano fregato 7 euro e 50, ed un altro po' dell'idea che abbiamo noi di Woody the genius.

LA SCHEDA

Sogni e Delitti

In una frase: "Non c'è niente, non c'è niente, non c'è niente..." (ad libitum)
Sconsigliatissimo: a chi ride per Amore e Guerra, apprezza anche Settembre, rivorrebbe tanto Annie Hall, e persino a chi è piaciuto Match Point. Insomma, a tutti. E soprattutto ad Allen. Mai più, Sam.
Giudizio: KKKk (perchè è Woody, sennò...)

venerdì 1 febbraio 2008

Tetrospettive: Ti lascio, ti odio, ti...

Lo so, Stantz vi aveva promesso "Apocalypto", ma è ancora troppo impegnato a rielaborare il lutto per la morte del giaguaro (anzi, dello stuntman travestito da giaguaro) nella scena-clou dell'opera per recensire a dovere. Dunque ci intromettiamo, inaugurando così la rubrica delle tetrospettive (per intenderci: film non solo brutti, ma anche vecchi), per parlare di un altro spreco di pellicola di alcuni mesi orsono: "The Break Up", tradotto rovinosamente in italiano col titolo "Ti lascio, ti odio, ti...". Sostituite pure i puntini con una minaccia a caso, ed avrete la nostra idea sull'opera.
Perché non è credibile che una ragazza come Jennifer Aniston (premettiamo che ci piace Jennifer Aniston: è magra, spigolosa, non bellissima, perfetta come finta intellettuale) pianga tutte le sue lacrime per uno come Vince Vaughn, che passa le sue giornate sul divano a duellare col cretino di turno a una variante poor della playstation. Non è credibile che dopo avergli giustamente dato del coglione in apertura di film non decida di lasciarlo e trasferirsi da mamma e papà e/o amica e/o nuovo drudo a scelta, ma insista a condividere con lui la magione. Nemmeno è credibile, fra l'altro, che il suddetto impieghi quasi un'ora e mezza per scusarsi del suo comportamento (anzi del suo ruolo) intollerabile, a ciò indotto dalla filosofia da bar dell'ennesimo amico del cuore obeso, di cui certo non si sentiva la mancanza.
Potremmo, sì, soprassedere su molti aspetti irritanti: il plagio del gay da galleria d'arte da "Beverly Hills Cop" (e volendo, pure della pittrice vaginale del "grande Lebowsky", qui soltanto pittrice, monologhi a parte), gli spasmi della sceneggiatura che inventa (?) addirittura un gioco di società come ulteriore occasione di litigio, quasi non fosse chiara l'antifona, il definitivo oblio di Vincent d'Onofrio, che dopo Palla di Lardo, Orson Welles e l'alieno scemo, è finito ad interpretare un contabile con turbe nascoste. Potremmo, ma non lo facciamo. Perché in questo film non si ride mai. Mai. E per fortuna che è catalogato come 'commedia', con due attori scafati nei ruoli brillanti, e gli opportuni cliché di complemento.
Ma ecco, dopo un centinaio di minuti passati a sentire dialoghi piatti, assenza totale di storia, isterie da coppia che attende, in agonia, di scoppiare, l'unico rammarico è di aver sperato in una battuta valida. Non si capisce dunque perché Jennifer Aniston si sia tanto adirata per la diffusione del suo topless nella scena in cui, per distrarre - beata lei - il bovino, passeggia nuda per la casa, senza peraltro distoglierlo dalle sue fondamentali occupazioni col joypad. In definitiva, è l'unico motivo di notorietà di un'operazione scialba, banale e fasulla. Aridatece Ben Stiller e Owen Wilson. Anzi, aridateli a Vaughn, e tiratelo su da quel cazzo di divano.
LA SCHEDA
Ti lascio, ti odio, ti...
In una frase: "Io voglio che tu voglia lavare i piatti"
Sconsigliatissimo:
a chi vuole ridere, a chi vuole piangere, a chi vuole restare serio senza covare una rabbia sorda.
Giudizio:
KKK

sabato 19 gennaio 2008

Umorismi da Leggenda ed altri piccoli fatti

Cari tutti,
se ci siete sappiate che siamo ancora vivi - salvo discussioni più approfondite sulla definizione di "vita", ma per un blog di metafisica rimanderemo altrove, in un qualche futuro - e l'iniziativa prosegue. Non abbiamo, in sostanza, abbandonato la missione - anzi! Brevemente, i motivi per cui abbiamo taciuto: vacanze e relativa voglia di fare un beneamato, mancanza di film veramente brutti da recensire, nostra totale, indecente ma insindacabile tendenza a svicolare da ogni sorta di impegno, inclusi quelli che ci creiamo da soli. Ma questa impresa non verrà abbandonata, ed anzi questo post serve, oltre che a mandare un segnale vitale, a presentare ulteriori aspetti di questo nostro servizio. Anzitutto, come detto, non abbiamo visto film orrendi, di recente. Ciò non significa che non siamo andati al cinema - ci mancherebbe! Semplicemente, ci siamo una tantum rifiutati di regalar denaro alla causa di chi il cinema lo fa col culo (scusate il francesismo) invece che col cuore o con altre, comunque più adatte, parti anatomiche a scelta. Ed abbiamo avuto la fortuna di incocciare in un paio di film piacevoli. Per la precisione: I Am Legend ed American Gangster. Fedeli al nostro credo, allo scopo di questo blog, alla missione affidataci dall'alto, non li recensiamo. Vi invitiamo ad andarli a vedere, con qualche piccolo caveat: sono film di genere, e come tali vanno scelti e fruiti. Non sono capolavori. Per quelli, rivolgersi altrove. Preferibilmente, ad una videoteca. Ma sono gradevoli, ben realizzati. Meglio Denzel Washington (bravo, si) nel filmone (due ore e mezza, ma passano senza troppa sofferenza - dote rara e tantopiù apprezzabile, in questi tempi nefasti) di Scott che Will Smith nello stravolgimento del romanzo di Matheson. Perchè di stravolgimento si tratta, siatene avvisati. Se amate il libro (che, ad ogni modo, vi consigliamo vivamente) preparatevi a diverse sorprese, non tutte gradevoli. Per godersi il film, siete pregati di dimenticare l'originale e prenderlo per ciò che è: un buon prodotto, modernizzato, con un finale scandalosamente hollywoodiano ma pazienza. Dopotutto, avreste potuto finire peggio. Tipo: nella sala dove proiettano Pieraccioni. O Bova. O Vaporidis. Ed è meglio fermarsi qui.
Va, invece, condivisa una riflessione che non riguarda i film ma il pubblico in sala. I Am Legend l'abbiamo visto un lunedì sera. La sala, capiente, era piena in ogni ordine di posti. Bel segnale, verrebbe da dire - il ritorno al cinema del pubblico. E, pochi secondi dopo, vi dovreste mordere la lingua fino a farla sanguinare, onde autopunirvi di tale immonda idiozia. Il pubblico in questione, in effetti, è numeroso. Ma è, questa, la sola qualità di cui sia in possesso. Si tratta, per lo più, di un'accozzaglia di intollerabili incivili, presentatisi in sala con l'unico scopo di impedire ad altri la fruizione serena dello spettacolo. L'eterogeneità di costoro è sorprendente: si attraversano le fasce d'età e, ci pare di poter dire, i ceti sociali. Fintantochè la gentaglia in questione si limita ad andarsene a spasso in piccole mandrie (appropriato, data l'affinità intellettiva con alcuni quadrupedi) incapaci di localizzare i posti a loro designati, transeat. Si spera che, all'inizio della proiezione o poco dopo, trovino infine la pace in qualche posto in fila F, numero 23, anche se avrebbero dovuto recarsi nella M, sedile 7 (ma la seconda metà dell'alfabeto non è che la rammentino così bene, ed allora...). Purtroppo, alcuni dei signori in questione ritengono indispensabile esternare i propri divertentissimi commenti per l'intera durata dello spettacolo. A noi è toccata la fortuna di sedere a distanza minima da un terzetto di siffatta natura. Alcune perle:
"hanno tutti la meningite" (in riferimento ai mostri del film, con apprezzabile colpo di fioretto sull'attualità)
"ragazzi, merda per merda per 3 e 14" (alla fine dell'intervallo, è ignoto cosa abbia scatenato la passione per la geometria dell'intellettuale in questione)
ma, soprattutto, un momento si eleva nella nostra memoria, stagliandosi sugli altri. Breve e doverosa introduzione: il protagonista (Robert Neville, appunto Will Smith) è dotato di famiglia (moglie e figlioletta) e cane. Inseparabile, l'animale da compagnia. A nome Samantha. Un po' oltre la metà del film, un altro personaggio, vedendo una foto della fanciulletta con in braccio il cane (versione cucciolo), si rivolge a Neville con "E' molto bella. Come si chiama?". A quel punto uno dei nostri amabili vicini ha commentato "Samantha". Per la prima, ed unica in 100 minuti di film, volta era, cioè, stato in grado di elaborare una freddura che, se non degna di Woody dei tempi d'oro, poteva suonare non disprezzabile. Dopo qualche secondo di silenzio imbarazzato, ha aggiunto "il nome del cane". Suscitando un modesto risolino di compassione nei suoi sodali. Sintetizzando: l'unica battuta degna della sua serata (e, avendo sentito le altre, supponiamo del semetre) ha dovuto sottotitolarla. Si dice che l'ispirazione attraversi l'universo sotto forma di minuscole particelle, che colpiscono sostanzialmente a caso, talvolta terminando la propria corsa nel posto più sbagliato. Quanto è vero.
La reprimenda di cui sopra serve ad illustrare un concetto: il cinema (l'arte) è meraviglioso.
Il cinema (il luogo) può essere meraviglioso. O, a momenti, decisamente sgradevole. Il ritorno del pubblico nelle sale non può che farci piacere, nella speranza (vana, lo sappiamo, ma se non fossimo idealisti non saremmo qui) che incentivi un innalzamento del livello delle produzioni. Solamente gradiremmo una selezione migliore. Ad esempio, quella effettuata dall'epidemia nel succitato I Am Legend. Riassumendo: la sopravvivenza dell'1% circa della popolazione.
O, se preferite un approccio buonista, che sopravvivano tutti e se ne vadano pure al cinema. Ma fate i trailer in modo onesto, e non ci mandate branchi di analfabeti in cerca di azione e sbudellamenti ed orrori assortiti a vedere un film tutto sommato riflessivo. Che poi lo splatter ci sta, sia chiaro. Ma vorremmo poter fruire dei film nel modo opportuno, e se poi scegliamo di indossare la canotta di ordinanza di Bruce Willis/John McClane o i guantacci alla Freddie Kruger o in qualsiasi altro modo sfogarci, lo faremo anche noi - auspicabilmente, con humor un minimo più ficcante.
Questo per iniziare l'anno con la dovuta dose di acrimonia, cari amici. Per proseguire, vi annunciamo che, oltre a segnalarvi (quando sia il caso) qualche film non sgradevole, apriremo anche un'altra nuova strada, di qui a poco. Ovvero inizieremo a recensire film "vecchi", non attualmente nelle sale. Ne conosciamo, va da sè, a centinaia che meritano il giusto sputtanamento. Ve ne presenteremo una selezione. Possiamo promettervi fin d'ora l'impegno, la dedizione, il livore che ci contraddistinguono quando siamo appena usciti dalla sala. E, salvo imprevisti, anche il titolo del primo protagonista di questa nuova rubrica: Apocalypto. Dio mio, che infamia.
A presto dunque, con un'ultima avvertenza: commentate, se e quando e su cosa gradite. Come anticipato, non ci faremo scrupoli ad essere ingiusti e dittatoriali e ad epurare tutto quel che non ci piaccia. Ma questo blog non vuole limitarsi a dar sfogo al nostro (pur eccelso) risentimento verso molto cinema d'oggi - vogliamo, speriamo di, condividere e stimolare discussioni, pareri, insulti da parte di chiunque, come noi, desideri partecipare alla missione. Buon cinema a tutti - se siete fortunati!