di Ray Stantz
L'hanno detto tutti, lo facciamo anche noi. Sergio Leone, decenni fa, disse che Eastwood aveva due espressioni: con cappello e senza. Verissimo, all'epoca. Nel frattempo l'allora giovane (nemmeno poi tanto, per gli standard Hollywoodiani – soprattutto per quelli odierni) Clint è diventato un'icona a pieno titolo, la sua presenza riempie (“buca”, si dice) lo schermo senz'altro dover aggiungere, la sua non è più mono – o bi – espressività ma recitazione minimale, comunica a livello basilare (animale, nel senso che è prossimo alla parte più istintiva, irrazionale e vera di ogni essere umano) in un modo/mondo privato, fatto di sguardi sbiechi, gesti taglienti e tagliati, parole smozzicate. Quel che è più sorprendente è come l'attore, il divo, sia divenuto un cineasta sublime. Un film-maker, facitore di opere cinematografiche, con la compostezza, l'eleganza, la maestria dei classici. Eppure capace di toccare, trattare, affrontare di petto temi fondamentali ed attualissimi. Le sue ultime prove da regista ne sono costante ed inoppugnabile testimonianza. Stavolta tocca di nuovo i livelli massimi, ed è una gioia darne testimonianza.
Raccontare “la storia” pare quasi uno sgarbo all'autore e ai lettori. Che sono avvisati: se perdono questo film, non faranno altro che danneggiare se stessi. Ma la trama, dopotutto, è cosa minore. Storia di violenza, molto. Passata e presente, fuori scena o illustrata in modo secco (ma mai gratuito). Storia di persone, di esseri umani – diversi eppure tremendamente simili. Che parte dal melting pot americano e si (e ci) trasporta nel presente di tutti noi con efficacia vertiginosa ed inevitabilmente toccante. Storia di un uomo solo, alla fine della propria vita. Colmo di rabbia e soprattutto di dolore, di sfiducia e pregiudizi – tutto evidente, sbattuto in faccia. Ma anche “un brav'uomo”, come lo apostrofa una ragazza, una vicina di casa cinese (di etnia hmong, per l'esattezza), una delle persone che – per puro accidente del caso – si trova ad instaurare un rapporto con lui. Un rapporto che nessuno desiderava, che appariva impossibile principalmente per volontà delle parti in causa. E che pure nasce e cresce, in modo vero, vivo. E serve a mostrare un po' alla volta quest'uomo malato, stanco ed arrabbiato (inferocito, anzi, col mondo intero) eppure pieno di vita, di forza, di insegnamenti da offrire. Ed assieme a lui a mostrare il mondo che lo circonda, le persone così stranamente e repentinamente vicine seppur all'apparenza condannate in eterno ad essere distanti.
Un giovane entra per caso, e nel peggiore dei modi, nella vita di un uomo impossibile da avvicinare. Che ne diviene il mentore, la figura paterna (e grazie, mille volte grazie a chi lo dice apertamente, in dialogo, invece che autocompiacersi di sottintesi ridicoli e patetici ritenendosi profondo e sottile). Lo aiuta sulla strada della crescita, del divenire adulto (“devi imparare come parla un vero uomo”), e lotta per proteggerlo dalla violenza insensata e distruttiva che ne contamina la vita – sotto forma di una gang di strada che lo vorrebbe reclutare per la lotta tra “razze” nelle strade di quartiere. L'impossibile accade, ed in modo semplice e concreto. Il ragazzo si vuole redimere (per cosa in fondo da poco, il tentato furto – peraltro impostogli dalla gang come prova iniziatica – della preziosa auto di Clint, la Ford Gran Torino del titolo) e coglie l'occasione per fare molto molto di più: divenire adulto, superare i propri limiti, crescere e vivere. Il vecchio scopre di avere ancora tanto, tantissimo da dare agli altri e di poterne gioire. Ed infine, di poter redimere anche se stesso da una violenza infinita e per sempre bruciante nella sua anima, anche se lontana nel tempo (la guerra in Korea). In mezzo, i rapporti definitivamente guasti con i propri figli e la seconda chance rappresentata da un “muso giallo” senza padre. L'orrenda, sanguinaria stupidità delle lotte di quartiere che si fonda su razzismo, ignoranza, mancanza di valori. Un prete che fa (acuta osservazione di Egon) da contrappunto ai pensieri ed ai sentimenti del vecchio, quasi fosse un coro greco, comparendo solo ed esclusivamente quando opportuno. L'orgoglio e la forza d'animo di chi ha lottato per una vita ma non ha per questo voglia di smettere di farlo – e quelli di chi la chance di lottare non l'ha mai avuta ma, se ha l'opportunità di provare a guadagnarsi una vita migliore, non si tira indietro.
Eastwood carica al 110% il proprio personaggio più classico, che sia il pistolero senza nome degli spaghetti western o Dirty Harry Callahan – e lo fa con autoironia e forza, con cinismo solo in superficie ma con grande e profonda umanità. Domina la scena ma quasi in astratto da tanto è stilizzato. Ha il coraggio, lo stile ed il controllo per affrontare temi nuovi senza cadere nel banale. Parla di (e talvolta con) odio e violenza ma riempie lo schermo di ondate di speranza. Osa mettere in scena sacrificio e redenzione senza mai rischiare il ridicolo. Lascia un monito, una lezione, un messaggio di amore per quel che possiamo essere se non cediamo al nostro lato oscuro – soprattutto quando ci sentiremmo moralmente giustificati a farlo (e qui stupisce, e qui conclude in grandezza un affresco già potente).
Ecco, se i film fossero tutti così non servirebbe questo blog. Ce ne staremmo beati un paio d'ore al giorno a vedere l'arte che si mescola alla vita e ci stimola ed ispira in una sala cinematografica. Purtroppo così non è. Le recensioni, e le distinzioni, servono. Eccome. Perciò, consigliamo: non vi perdete questo film. Se anche fosse l'ultimo di Clint (e preghiamo che così non sia!), dimostrerebbe che a volte un testamento può essere bello, prezioso, luminoso come una vita intera.
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