lunedì 3 giugno 2013

SOLO DIO PERDONA o LE CONSEGUENZE DELLA PRUDENZA DELLE MANI

Ed è decisamente meglio che all'infinita clemenza si raccomandino gli artefici di tanta infamità, lo si dica chiaramente e fin da subito: il film in questione è una bestialità senza salvezza. Che fosse in concorso a Cannes desta meraviglia, anzi forse meglio sarebbe dire sospetto, tremendo sospetto. O è la burla cinematografica del 21mo secolo oppure qualcuno dovrà molte, moltissime spiegazioni – e sarà meglio che siano convincenti.

Refn ci aveva tutti sedotti, impertinente, in tempi recenti col bellissimo Drive: un'indagine sulla sua produzione precedente aveva lasciato qualche dubbio di costanza di rendimento e purtuttavia pareva di cogliere sicuro il talento, magari ancora alla ricerca di una modalità espressiva (non che mancassero le idee, soprattutto visive) ma presente ed in ascesa. Si apprende dunque con gioia dell'imminente uscita del nuovo suo lavoro, per di più in ribadita accoppiata col suo feticcio Ryan Gosling (eccellente reincarnazione postmoderna di Stallone nel succitato Drive) e con la presenza – preannunciata sulfurea oltre ogni dire – della sempre splendida Kristin Scott Thomas. Concorso a Cannes de rigueur e, a stretto giro di posta, debutto in sala nostrana: tutto concorreva a proporci l'ottimo finale di un fine settimana. S'aggiunga la durata modica (90 minuti, di quelle cose che ti fanno, ignaro, invocare un “ma perché non lo fanno tutti di contenersi nei tempi?” - ottimismo classicamente foriero di sventura) e si deduce l'inevitabilità della scelta: visione, senz'altro.

I 90 succitati minuti sono sconcertanti a dir poco: NWR ha confezionato un'ingiustificabile sequenza di inquadrature ad effetto in salsa rosso scuro (tocchi di blu, rarissimi gialli, una sola scena alla luce del sole), appiccicate con lo sputo ad una trama che generosamente definiremo risibile e con inserti comici (ahi: involontari!) di rara potenza. Tra le hit:
  • la Scott Thomas, un tempo lady di provata eleganza e capacità attoriali, conficcata a viva forza in un ruolo grottescamente sgradevole, con pose da diva anni '40 (perennemente fumante et perennemente schifata dalla sigaretta che tiene a distanza equilibrandosi mirabilmente su tacchi da 15) e vocabolario da scaricatore di porto anni qualsiasi;
  • impossibile da descrivere veramente, comunque (in sostanza): scena di karaoke tra poliziotti, peraltro iterata con lievi alterazioni per tre volte in altrettanti momenti cruciali (mah) del film: se non altro non veniamo beneficiati di sottotitoli quindi ci risparmiamo la traduzione di quella che, verosimilmente, è una hit neomelodica Thailandese (da segnalare che il capo-cantore si commuove della propria stessa intepretazione, ad un certo punto);
  • su tutto e tutti: Gosling, in perenne stato di confusione, evidentemente abbandonato in luoghi sconosciuti ed in balia di ignoti si lascia andare a faccine buffe d'ogni sorta e si guarda attorno stranito (commovente nel suo non avere un'idea), costantemente sull'orlo di una crisi di panico (verosimilmente per essersi trovato a Bangkok senza preavviso e nel mezzo di un disastro cinematografico di proporzioni ragguardevoli, per giunta).

Non vorremmo privare il pubblico dei piaceri della trama (scriverlo senza ridere è impresa non da poco) quindi ci limitiamo a sintetizzare: dei bianchi trapiantati a Bangkok (per motivi che verranno, circa, chiariti in seguito) gestiscono ufficialmente una palestra di Thai Box (“quel covo di froci” KST dixit) in realtà scontatissima copertura per giri di stupefacenti e puttane. Il fratello senior, viziosetto, gira nottetempo la città in cerca di sesso con minori, cosa che dovrebbe non essere tanto difficile nella parte del mondo in questione ma che egli trasforma in un casino immane a base di stupro ed omicidio (“avrà avuto le sue buone ragioni”, sempre KST). Rimasto bellamente sulla scena del delitto incorre nelle ire (giuste?) di un non ben qualificato (“lo sai chi è lui?” no, francamente) descamisado che gira a capo della polizia locale, o se non altro di un gruppetto non esattamente ligio alla procedura. Costui è un attempato ma combattivissimo autoctono che cammina come un minus habens (braccia lungo i fianchi, palmi rivolti all'indietro) ma domina i bassifondi a colpi di uno spadone/coltellone che estrae sanza colpo ferire da non si sa bene dove (zona fondoschiena, comunque) e maneggia con maestria da Campione Mondiale di Wok alle verdure: fantasiosi i modi in cui affetta coloro su cui impartisce la sua (a voler essere pignoli un po' sommaria) giustizia. Ne seguirà un vortice di vendette incrociate nel quale precipitano la premurosa mammina frettolosamente recatasi nel sudest asiatico (appunto la Scott Thomas con extensions bionde, braccia cicciotte e tendenze sado-maso-porn-incestuosomicide) e da subito incline ad inimicarsi i locali (“ ho volato 16000 km, sono in piedi da 30 ore e questa puttana non vuole darmi la stanza”), lo stesso figlioletto Gosling che pure cercava di fare il bravo risparmiando l'esecutore materiale del primo delitto (e presentando alla genitrice la sua “fidanzata”: peccato che KST la sgami immediatamente come prostituta – fatto non troppo ragguardevole considerando che sono tutte puttane, nessuna esclusa, le abitanti di Bangkok secondo Refn – e come tale la apostrofi a cena) ed appunto il misterioso attempatello che spadroneggia su madamini e malfattori di cui sopra (con accoliti, è chiaro).

Grande spreco di simbolismi psicanalitici d'accatto, di sangue (i sicari di scarsissima precisione al tiro e poco valore materiale sono bene comune, pare, in loco) e modi di estrarlo, di allusioni sessuali (non sempre velatissime “tuo fratello aveva un cazzo enorme, non potevi competere con lui” KST a cena, le buone maniere anzitutto); e poi tentativi di scene epico-iconiche e di sfruttamento dei volti a la Sergio Leone (ma lo sguardo perduto di Gosling lascia perennemente interdetti e sospesi su un vuoto di senso e speranza) che culminano in una scazzottata onestamente troppo a senso unico (era chiaro che il 60enne asiatico avrebbe pestato il 30enne biondocchiazzurrato, ma così è veramente troppo: peraltro il tumefatto Gosling che ne esce, con occhi pesti e naso cubista, quasi convince più della versione precedente). Insomma un pasticcio autentico, una crasi impossibile (ed ingiustificabile, appunto) tra misticismi occidentali e pizze in faccia orientali, stilemi onirici con enormi eccessi pulp, qualcosa che sarebbe potuto uscire da un mostruoso ibrido cinematografico (Bruce Lynch, tipo) qualora avesse digerito molto ma molto male (eccesso di soia e spezie, sicuro).

Nel finale un sempre più tristo Panda Gosling ottiene almeno la castrazione che anelava fin dall'inizio tra allucinazioni ed impotenze varie: il taglio delle mani con cui aveva fatto male a papà – e che gli prudono durante tutta la storiaccia, guarda un po', e del resto di cazzotti si occupa, vedi il caso – ma insomma Oidìpus Tyrannos fu scritta 24 secoli fa e riesce meglio in salsa greca che Thai, garantito. Se non altro, appare improbabile un sequel: dio scampi e liberi, valà.

Voto: KKKK perché diverse inquadrature brutte non sono, la fotografia è professionale e se non altro la durata è civile. Insomma, per simpatia e generosità del recensore.

La battuta: “vuoi combattere?” Gosling 5 minuti prima di essere ridotto a carne macinata da un signore che potrebbe essere suo padre se suo padre fosse piccolo e giallo - a riprova che non ci capisce una mazza dall'inizio alla fine.

venerdì 24 maggio 2013

La Grande Bellezza - Una piccola recensione

Mai avremmo voluto scrivere su questo blog di Paolo Sorrentino. Mai avremmo voluto ammettere che uno dei nostri registi più talentuosi e spregiudicati, l’unico della presente era che sarà ricordato anche al di fuori degli italici confini, è sprofondato nella propria maniera, specchiandosi nell’abilità visiva e tralasciando ogni scrupolo narrativo. Ma già dal titolo “La Grande Bellezza”, sua ultima fatica, evoca presagi minacciosi. Si parla di Roma, sì, scenograficamente (e ben venga, comunque, un autore che ne sfrutti una volta tanto il suo maestoso impatto visivo), ma più in generale della capacità, di ogni essere umano, di cogliere uno sprazzo di immensità fra le strettoie della quotidiana miseria. Tema non nuovo, già indagato programmaticamente in “American Beauty”, ma qui filtrato attraverso una “Dolce vita” di mezzo secolo più tardi, dopo “Cafonal” e il botox, le febbrili appariscenze televisive e il desiderio di dimenare a più non posso il corpo, a riempire la desolazione dello spirito.
Ha 65 anni Jep Gambardella, protagonista della pellicola (interpretato, more solito magistralmente, da Toni Servillo), giornalista di costume noto per un romanzo di successo di 40 anni prima, mai più replicato, e abbastanza ricco da potersi concedere una residenza con sconfinata terrazza vista Colosseo, dove organizza feste notturne a base di discobar e disperazione. Vive da dandy disincantato, senza ambizioni se non quella di eludere la noia, e con la sola compagnia, a casa, di una colf.
Per buona parte delle sue giornate, assai più meridiane che mattutine, non fa che girovagare per le strade della Capitale, a volte per lavoro, più spesso per svago, sfoggiando una combinazione sempre diversa di spezzato, pochette e sigaretta a mezz’asta. Conquista donne, anche senza volerlo. E l’unica che potrebbe complicargli la trama, Ramona (un’ottima Sabrina Ferilli, finalmente recuperata al cinema, col solo rammarico degli zigomi a palle da tennis, eredità dell’epoca-calendario), se ne va a metà dell’opera.
Non gli succede nient’altro, salvo condividere le tristezze altrui: per esempio quella dell’amico Romano, drammaturgo fallito, a cui Carlo Verdone presta faccia e cliché della sua versione più adulta, cioè l’uomo sensibile, insicuro e sconfitto che alla fine si rassegna alle asprezze del mondo; oppure di Viola, madre di un ragazzo problematico che finirà per suicidarsi, impersonata da una credibile Pamela Villoresi. L’unica che sembra salvarsi, nella girandola di ordinari frustrati e infelici che frequenta, è Dadina, la direttrice della rivista per cui lavora (interpretata, per motivi oscuri, da una nana).
In mezzo a questo stiracchiato incedere, Sorrentino piazza le consuete sciabolate di istantanee, carrellate e scherzi di montaggio, qui particolarmente invadenti, vere primattrici, forse vera dissimulata “bellezza” del film. Sono puro estetismo, per dire, la gita di Servillo e Ferilli in un antico palazzo romano, rischiarato dal candelabro di un custode fuori orario (fa molto “Paziente inglese”) o l’insistita, interminabile, sequenza iniziale del party in terrazza. Ed è esagerato il richiamo, in varie forme, alle figure delle suore, un’autentica ossessione, sublimata nel personaggio finale della Santa, una centenaria “sorella” in visita a Roma, che della fede in qualcosa di diverso dall’ordinaria mondanità dovrebbe essere simbolo e sacrificio.
Alla fine, non si tratta di un’opera corale (la solitudine è da sempre una cifra stilistica del regista) ma nemmeno di una biografia, per quanto dolente: piuttosto, ed è la cosa più triste da constatare, di un insieme di luoghi comuni sulla fine del primo amore, sul passaggio del tempo, sull’inesorabile scacco a qualsiasi pretesa di speranza. Il tutto, con l’aggravante di futili riferimenti a certi padri spirituali: passi la citazione dell’introduzione al “Viaggio al termine della notte” di Celine (che tuttavia parlava di guerra, schiavi e pezzenti, non di feste altoborghesi) o il gratuito riferimento a Dostoevskij, ma davvero non si comprende a cosa serva la chiusura di stampo heideggeriano sul chiacchiericcio quotidiano che seppellisce la vera realtà, coi suoi patimenti e spasimi.
A Sorrentino, si sa, basterebbe qualche immagine per dire tutto – ne è esempio lo splendido cortometraggio “La partita lenta” – senza bisogno di cercare ad ogni costo la frase o il personaggio ad effetto, spesso slegati dal contesto. Per questo fa rabbia vedere che, accanto a trovate geniali, come la scelta di far interpretare a Serena Grandi una debordante, sfatta frequentatrice dei ritrovi serali di Jep (una specie di Anita Ekberg al contrario, per restare in tema felliniano), venga totalmente sprecata la risorsa di Roberto Herlitzka, costretto alla macchietta di un inutile prelato che ammorba gli interlocutori con ricette della più varia risma.
Certo ci sono, come sempre, alcuni momenti in grado di ripagare il biglietto: per esempio la strepitosa performance del padre di Ramona, che imperterrito sgrana come ghiaia parole sulla propria, e altrui, decadenza, oppure il ritorno del protagonista a casa del marito della sua prima fidanzata, morta da poco, in cui, fatta conoscenza con la nuova compagna dell'uomo, e con le loro banalissime abitudini serali (televisione e a letto), esclama partecipe: “che belle persone che siete”, in puro stile “Amico di famiglia”. Ma non basta, se tutto il resto non va oltre un vago, benché reiterato, riferimento alla morte. E se non era richiesta la profondità della “Notte” di Antonioni, controcanto lugubre alla “Dolce vita”, quantomeno era lecito aspettarsi maggior coraggio e umanità. Ossia, più semplicemente, il contenuto.

Giudizio: KK

sabato 27 aprile 2013

Come un tuono - La sintesi, innanzitutto

“Se guidi come un fulmine ti schianti come un tuono” non è un proverbio, né una frase particolarmente acuta, ma un brano di sceneggiatura sufficiente a dare il titolo (italiano) all'ultima fatica di Ryan Gosling, ancora pervaso dall'aura di “Drive” e perfettamente spendibile per un po' di maledettismo gratuito. In “Come un tuono” (la versione originale è “The place beyond the pines” e naturalmente non c'entra nulla con l'altra), del non fantasioso Derek Cianfrance, il nostro eroe abbandona la macchina per inforcare una moto da cross, corredandosi di tutti gli ammennicoli del genere: capello ossigenato, bicipite scolpito, tatuaggi lungo il corpo (uno sullo zigomo a forma di pugnale lo rende un singolare Pierrot della suburbia) e sigaretta perennemente pencolante tra le labbra, come a dire: recitare no, ma per un poster siamo in prima fila. Stupisce che il film sia a colori, in un certo senso.
La trama, estenuante, è la seguente: Gosling si guadagna da vivere facendo lo stuntman nelle fiere di paese, quando al termine di un'esibizione viene avvicinato da una sua ex di un anno prima (Eva Mendes, bellissima e basta), scoprendo che ha da poco messo al mondo un figlio suo. La cosa gli ingenera un mostruoso senso di colpa (il padre, quand'era piccolo, l'ha lasciato solo) e lo costringe a restare a Shenectady, un posto boschivo e senza dio dalle parti di New York, mollando la compagnia di giro per cui lavora per crescere il pargolo. L'impresa, tuttavia, si presenta da subito disperata: la Mendes, in sua assenza, si è sistemata con la madre e il bimbo a casa del suo nuovo uomo, di colore, che non vede esattamente di buon occhio il ritorno di fiamma. Per di più Gosling non ha un soldo e indossa solo t-shirt bisunte, benché sia ancora chiaramente amato da lei.
Per rimediare si impiega allora da un meccanico del luogo il quale gli consiglia, per sfondare nella società, di rapinare banche: data la sua abilità con la moto, è anche disposto a fargli da complice. Il nostro ci mette poco ad accettare e inizia una nuova carriera, riaccreditandosi a suon di bigliettoni agli occhi della famiglia. Il precipizio, però, è dietro l'angolo: una mattina, Gosling fa una sorpresa alla suocera e si presenta con dei regali per il figlio, compreso un lettino nuovo. In pieno bricolage si imbatte però nel rientro del padrone di casa e, invitato ad andarsene, lo colpisce con una brugola e finisce al fresco per lesioni aggravate.
Il resto è pura discesa agli inferi: il complice gli paga la cauzione ma non vuole più partecipare a nessun colpo, la Mendes si rifuta di vederlo perché – stranamente – inquietata dalla sua impulsività e, come non bastasse, il suddetto ex partner gli sabota pure la moto a scopo dissuasivo (ritrovandosi, per tutta risposta, con una pistola in bocca, lieto di dargli i soldi per comprarsene una nuova). Bisogna far da soli: ma all'ultima rapina qualcosa va storto e l'improvvisato fuorilegge finisce con la polizia alle calcagna. Si rifugia allora in una casa, inseguito dall'agente di turno (un improbabilissimo Bradley Cooper con capello a spazzola e rasatura da poppante) che, con un'incursione da manuale, lo fredda proprio mentre sta dettando le sue ultime volontà al telefono alla Mendes: non parlare mai di me a mio figlio.
Già basterebbe, ma sono passati solo tre quarti d'ora: defunta la prima star, la storia passa – purtroppo – nelle mani dell'altra, e parte un secondo giro di rimorsi: ribaltata la verità nel rapporto ufficiale (anche Gosling ha sparato, ma solo per reazione alla maldestra irruzione del poliziotto, ferendolo alla gamba), l'implume è celebrato come eroe dal distretto ma viene a scoprire che la sua vittima aveva un figlio di un anno, come lui. Per di più i colleghi (sostanzialmente una cricca di mafiosi capitanata da Ray Liotta – e chi se no?), per allietargli la convalescenza, lo conducono a una perquisizione illegale in casa della famiglia della Mendes, sequestrando i proventi delle rapine e spartendosi con lui il bottino.
Ormai moralmente devastato, Cooper decide quindi di spifferare tutto (beh, a parte la propria responsabilità) al commissario il quale, anch'egli uomo d'onore, gli consiglia per il suo bene di tenere la bocca chiusa. Liotta, scoperta la soffiata, gli tende invano un agguato nel bosco (è forse quello il “place beyond the pines” del titolo), inducendolo a un cambio di strategia: consigliato dall'arcigno padre giudice (e dàgli), andrà a denunciare le malefatte all'ispettore capo, in cambio di un posto di viceprocuratore (Cooper è laureato in legge e pare che questo in America sia più o meno equivalente ad aver separato il Mar Rosso) e dell'immunità sempiterna.
Il piano funziona e ci consente, se non altro, di giungere alla terza e ultima parte del film, ormai di una pesantezza intollerabile. Sono passati quindici anni, Bradley Cooper è diventato Bradley Cooper (cioè col capello giusto, i completi su misura e la barba di un giorno) ed è in piena campagna elettorale per farsi eleggere procuratore generale: al funerale del padre, apprendiamo che si è separato dalla moglie e che suo figlio, ora 17enne, vuole andare a vivere con lui. Ennesimo rapporto problematico, se mai l'antifona non fosse sufficientemente chiara.
L'obiettivo si sposta allora sugli eredi dei due protagonisti, che ovviamente si incontrano a scuola e fanno amicizia, a suon di canne e pasticche di ecstasy. Sorpresi nel bel mezzo di uno spaccio finiscono al commissariato, e lì Cooper scopre che il figlio ha conosciuto la persona sbagliata. Scontato l'effetto-domino successivo: tra una confidenza e una ricerca su internet, l'amara verità verrà a galla, spingendo il successore di Gosling a procurarsi una pistola e far giustizia del passato. Riuscirà soltanto a trascinare Cooper nel già citato “posto oltre i pini” (o giù di là), intimandogli di mettersi in ginocchio e chiedere perdono, e scucendogli con l'occasione il portafoglio. Vi troverà i soldi necessari per comprarsi una moto ed emulare i vagabondaggi paterni, nonché – con sua sorpresa – una foto di famiglia col padre che lo tiene in braccio, trafugata all'obitorio dal poliziotto a (vana) redenzione del proprio crimine. La spedirà alla madre come ogni ribelle che si rispetti, mentre Cooper, sano e salvo, festeggerà la propria elezione con gli applausi filiali. A conti fatti, tre film, due ore (e venti) di durata, una sola idea. La sintesi, innanzitutto.

Note a margine:

  • Rivedibile il casting per la parte del figlio di Gosling: in teoria, all'inizio del film, dovrebbe avere non più di due-tre mesi, ma il bimbo scritturato è chiaramente più grande (oltre ad essere di lineamenti nordici, con buona pace delle origini latine della madre);
  • Esilaranti le riprese delle fughe in moto: per rendere il tutto più concitato, il regista crea un effetto accelerato tipo comiche di Benny Hill: bastava un po' di montaggio action;
  • Del tutto inverosimile la svolta della prima parte: prima di entrare in banca per il suo colpo fatale, il protagonista scopre di aver dimenticato il bavaglio. Tuttavia va avanti lo stesso: c'è un'altra ora e mezza di trama, non si può aspettare;
  • Assoluta la sequenza dell'inseguimento: il poliziotto che avvista per primo Gosling descrive al millimetro l'evolversi della situazione alla centrale e, quando finalmente è giunto a mezzo metro dal ricercato, anziché spianargli la pistola davanti preferisce continuare la radiocronaca stile “tutto il calcio minuto per minuto”, cedendo poi la linea a Cooper;
  • Memorabile il momento in cui due poliziotti, brandendo la pistola, urlano al cadavere di Gosling di alzare le mani.

Giudizio: KKKk

sabato 30 marzo 2013

The host - Andiamo a mietere il grano

Ritorna, inesorabile, la rubrica “Stai seria con la faccia ma però”. Ospite del giorno (è proprio il caso di dirlo) “The host” di Andrew Niccol, dalla pluricelebrata (per “Twilight”) Stephanie Meyer. Trattasi di ennesima rivisitazione del sempiterno tema della convivenza tra uomini e alieni, in genere scongiurata a colpi di battaglie apocalittiche quando non risolta dalla colonizzazione in pectore del nostro pianeta (chi si ricorda del mitico “Essi vivono” di Carpenter?). Qui si sceglie la seconda strada, con l'addizione dell'apparente vocazione pacifistico-ecumenica degli ospiti, che una volta giunti sulla Terra pensano bene di bonificarla occupando i corpi dei selvaggi umani di turno.
La prassi è presto detta: stordito che sia il neanderthaliano nostro simile, i raffinatissimi conquistatori, di forma vagamente spermatozoica, vengono inoculati da appositi Guaritori (sic) nelle membra dell'incivile autoctono, invadendone la mente prima che il corpo e lasciando, quale unico segno visibile della loro (com)presenza, un cerchio di luce attorno alle iridi. Nella maggior parte dei casi, l'Anima in transito non trova resistenze nell'umano precedente e lo atrofizza al punto da annullarlo. Ma in alcune, sfortunate, evenienze, capita che il cervello originario continui a funzionare e poco tolleri, come si comprenderà, la convivenza con il nuovo arrivo.
Eccoci quindi al film. Catturata dagli alieni dopo un fallito tentativo di fuga, Melanie (Saoirse Ronan, già nel recensito “Amabili resti”) subisce il trapianto nei propri visceri di tale Viandante (un'Anima di circa mille anni, già stata in svariati pianeti, secondo cui c'è vita anche lì ma, a quanto pare, non così interessante come da noi – saranno le disco) e ingaggia subito una battaglia senza esclusione di colpi con lei. Vuole evitare, in particolare, che la sgradita inquilina, che ha accesso ai suoi segreti, sveli dove si trovano tutti i suoi affetti rimasti (il fratellino Jason e il drudo Jared) alla bieca Cercatrice (un'algida, e piuttosto insopportabile, Diane Kruger).
Ne esce un singolare ritratto della schizofrenia. La nostra combatte coi propri ricordi (amplessi col drudo, per lo più) e trova parecchie difficoltà ad eterodirigere l'Anima in affitto, che comprende la situazione e sviluppa una sorprendente empatia con la padrona di casa. Entrambe, in qualche modo, si coalizzano contro la Cercatrice predetta, che con fare teutonico già medita di spedire l'inefficiente Viandante in qualche altro corpo e insinuarsi lei nel corpo di Melanie. Fiutato il pericolo, e non senza resistenze della timida aliena (sorvoliamo sui dialoghi/monologhi fuori campo della Ronan, pericolosamente sulla linea di confine del ridicolo), la/e protagonista/e trova/no il modo di evadere e scappare verso il deserto.
Qui si rende necessaria una digressione: per riuscire nell'impresa, Melanie/Viandante ruba un'auto a un vecchietto colonizzato, approfittando della sua sincerità e cortesia - “non diciamo mai bugie” – così da ricordarci, inevitabilmente, l'atmosfera fintamente idilliaca del ben più divertente “Demolition man” di quasi vent'anni prima. In quel caso, la San Angeles del futuro non era abitata da extraterrestri, bensì da una nuova classe dirigente, anch'essa ispirata a una new age di pace e prosperità, e a tal punto ingenua da aver sostituito il rock coi jingle pubblicitari. Dietro la facciata immacolata – ogni funzionario andava in giro con uniformi bianche, proprio come gli ospiti elegantoni di cui sopra – covava però una durissima e insopprimibile resistenza di esseri umani vecchio stile, costretti a consumare topoburger nelle fogne pur di sottrarsi all'ipocrisia dominante. Nel film di Niccol, invece, la retroguardia ha scelto una via bucolica: i pochi superstiti si sono infatti radunati sotto il comando di Jeb, zio di Melanie, impersonato da un irresistibile William Hurt versione agreste con cappellaccio, fucile a canne mozze e codino, che per tutta la durata dell'opera elargisce perle filosofiche, ironia non richiesta e pugno duro coi dissidenti. Fiero della propria assurdità, si è anzi rintanato in una grotta sotterranea nel deserto (“non sono io che ho trovato lei, è lei che ha trovato me”) e ne ha fatto un avamposto lealista agli assalti dei conquistatori. Ci coltiva anche il grano, sfruttando il sole attraverso un complicato sistema di specchi girevoli, all'occorrenza oscurabili per sfuggire ai raid aerei degli invasori. Un genio, e un attore finito.
Tanto divagato, ritorniamo alla storia. La fuga ha infine buon esito. Era appunto lo zio l'obiettivo della protagonista. Quando lo ritrova, si innesca tuttavia una spirale di sospetti tra gli accoliti del guru, che non vedono esattamente di buon occhio la reunion, visto che la nipote, con le sue iridi cerchiate, appare un'aliena, e viene subito ritenuta una spia. La situazione si complica ulteriormente perché del gruppo fanno parte anche il fratellino e il drudo di cui sopra, che vive un terrificante conflitto psicologico/ormonale su come approcciare la nuova/vecchia compagna. Perfino il suo sodale Ian – qui la Meyer esagera – si innamora di Viandante (o in realtà di Melanie: beh, del corpo dell'una e della mente dell'altra, se ci credete) e ne ha, ricambiato, un bacio, tra le proteste silenziose dell'originale.
La trama, ad ogni modo, svolta non appena Wanda (il modo in cui l'ineffabile Hart ha ribattezzato l'Anima in prestito) si accorge del segreto scopo degli esseri umani: rapire propri simili ed estrarre gli alieni dai loro corpi, nella speranza di farli tornare come prima. Peccato che il delicato intervento sia messo nelle mani dell'imperito Doc, un onesto maniscalco del bisturi che strappa via le Anime come se mettesse in moto un gommone, sacrificando, con loro, anche i corpi ospitanti. Sarà l'aliena, smaltito il naturale raccapriccio per un simile modus operandi, a spiegare la procedura corretta, rubando agli invasori gli accessori all'uopo (e intascandosi, con l'occasione, una medicina miracolosa che salverà Jason da una ferita in setticemia e le conquisterà, definitivamente, la fiducia del gruppo).
Il resto è fiera dell'ottimismo. La Cercatrice, impazzita di rabbia, usa ogni mezzo per scovare la/e fuggitiva/e, compreso l'accidentale omicidio di un suo sottopancia (nero, come tutti i sottopancia della Kruger, bianca e ariana – ognuno tragga le proprie conseguenze), che gli inimica tutto l'irenico apparato centrale. Quando, disperata, giunge alla meta, Jeb la ferisce e la imprigiona. La sua Anima verrà estratta e spedita nell'aere siderale, a rendere più spiacevoli altri pianeti, mentre Wanda sarà instillata in un corpo diverso da Melanie, così da far contento Jared, che riavrà la sua ragazza, e Ian, che ne troverà finalmente una (la scusa per motivare il tutto è che il nuovo corpo in prestito è di una persona che, precedentemente liberata da un'altra Anima, “sarebbe sicuramente morta” senza un nuovo innesto – mah).
Tanto basterebbe. Ma nel finale ci si racconta insospettabilmente che alcuni alieni, occupati gli esseri umani, stanno iniziando a schierarsi con la resistenza. Le ragioni sono sconosciute: forse un inno alla convivenza, forse, più probabilmente, un tentativo di superare i disturbi bipolari.

domenica 10 marzo 2013

Recensioni d'antan - Greed (1924)

Capita di recente, nella bulimica perversione cinefila, che i vostri recensori si accostino, con esiti alterni, al cinema d'antan. Non lo si fa per intellettualismo occhiuto, né per sofferenza coatta, ma per bieca, torva, curiosità. Può infatti succedere di estrarre perle dall'oblio della celluloide (e.g. "L'uomo con la macchina da presa" del profetico Dziga Vertov), oppure monografarsi un attore più leggendario che reale (i.e. Lon Chaney, che, salva l'esilarante scena della maschera strappata nel "Fantasma dell'opera", è un mago di travestimenti e contrazioni drammatiche), o ancora entusiasmarsi per la modernità di certa produzione svedese di un secolo fa (per informazioni, rivolgersi al "Carretto fantasma").
Ma può pure accadere, lo si dice per onestà, di dormirsi interi brani di comiche, restare in balia di sequenze dagli attori tutti uguali (d'altronde, le immagini sfuocate), fissare con sguardi ebeti improbabili rimandi da una didascalia all'altra (il muto è cosparso di inesorabili ellissi). E, sempre, di restare stralunati ma consapevoli, ché ogni storia percorsa al contrario richiede un po' di tempo per sedimentarsi. Quanto accaduto l'ultima volta, tuttavia, merita un capitolo a parte. E una recensione a parte. 
"Greed", di Erich von Stroheim, classe 1924, è unanimemente ritenuto, dagli aedi della cinefilia, l'esempio epocale di come Hollywood, in omaggio agli altari del commercio, abbia crudelmente castrato gli ideali registici, sforbiciando un capolavoro assoluto della storia del cinema - originariamente lungo 7 o 9 ore, a seconda della pellicola in uso - fino a renderlo una pallida controfigura dell'arte che fu. Oggi, tuttavia, dopo un misterioso ritrovamento di una copia più lunga del film in un centro di igiene mentale, è possibile visionare, oltre alle 2 ore standard rimaste, una ridda di fotogrammi/didascalie della stessa durata con le scene tagliate e distrutte.
Immaginerete, quindi, la sfida. Non solo il muto, anche la paresi fotografica. Roba che neanche un Bazin dei tempi nostri. Ci si è dunque armati per la tenzone e in sole tre sessioni non consecutive, tutte parecchio ostiche, se ne è venuti a capo. Tacendo, naturalmente, dei dettagli (tardi svenimenti, malanimi, commenti rabbuiati quando finivano le sequenze filmate e riprendeva la solfa delle diapo), l'esperienza si è conclusa con un giudizio plebiscitario: "Greed" è un film ampolloso, trito, di sconcertante banalità e ottuso perbenismo, gravato, come non bastasse, da una regia totalmente priva di guizzi, e scandita, forse per risolvere dalla noia imperante, da un ricorso smaccato e protervo alla simbologia.
Vi è stato sempre raccontato, sin dalla traduzione italiana del titolo (Rapacità), che si tratta di un'opera sull'avidità umana, le grinfie, la bassezza a cui il nostro simile si abbandona quando perde la testa per il denaro, il luccichio della ricchezza, il potere. E così è, in effetti. Ma quello che non vi viene – colpevolmente – detto è che, di tutti i modi che Stroheim aveva di spiegarcelo, ha scelto quello immediatamente percettibile anche da uno spettatore di istruzione elementare, financo una scimmia, visti certi pavloviani automatismi registici.
Perché, sì, sorvoliamo pure sulle celebri colorazioni a mano dei lingotti d'oro, sulle scene di raccordo con le braccia scheletrite che agognano di affondare nel monetume, sul filtro giallo della sequenza finale nel deserto (che, forse per via del sole, ci ha ricordato "Seven" ed è l'unico momento passabile dell'indigeribile sbobba) e sul pittato rosso dei denari insanguinati, e blu delle dita in cancrena, morsicate in cerca dei dobloni che trattenevano, e via scarabocchiando. Sorvoliamo anche sulle scene improbabilmente a colori di una delle storie collaterali, saturate in modo osceno, come una sorta di imbellettamento postumo, per esprimere un apparente contrasto tematico con il bianco e nero del resto. Dopotutto, si tratta di folklore.
Ma non perdoniamo, no, mai, lo stile agit prop con cui è usata la profondità di campo (esempio per tutti la scena del matrimonio dei protagonisti, durante il quale, per esprimerne i tetri presagi di sventura, scorre dalla finestra del salone un lento corteo funebre), la deliberata tendenza alla sgradevolezza (banane masticate a bocca aperta, rutti tempestosi, fazzoletti quasi divorati dal nervosismo) e, su tutto, la terribile vocazione ad ammonire lo spettatore, spiattellando tra una sequenza e l'altra interi estratti del libro di partenza “McTeague”, a propria volta, si intuisce, di insopportabile pedanteria.
Questo, intendiamoci, non è realismo (semmai iper-, e in senso deteriore), ma pura fuffa barricadera, come ben si comprende dal celebre dentone pendulo che ballonzola sulla carrozza dell'odonto-ciarlatano mentore dell'antieroe eponimo (idea riproposta, nella consueta citazione terminale, dall'ultimo Tarantino), un rozzo minatore di buoni sentimenti e scarsità cerebrale, assurto agli onori borghesi tramite improbabili abilità nell'estrazione a mani nude dei molari, e di qui proiettato verso uno scandaloso successo.
Non vale nemmeno la pena dilungarsi sulla trama, sull'immotivatamente teutonica Trina Sieppe, originaria paziente del nostro, che lo innamorerà durante un bacio al cloroformio per poi sposarlo, vincere una lotteria e scegliere di vivere in miseria pur di non spartire con lui il gruzzolo con cui è usa titillarsi nei tempi morti. E stendiamo, del pari, un velo sul cugino della suddetta, infoiato di lei all'inverosimile, che per affossare il rivale denuncia urbi et orbi la sua carenza di odonto-titolo, lo precipita nella disoccupazione e ne esplode la nefasta violenza primigenia, inducendolo, al culmine del rapacissimo processo degenerativo, a far fuori l'avida moglie, fuggendo nel deserto con una taglia sulla testa e troppe ore di girato alle spalle.
Omettiamo pure, per compassione, di soffermarci sui vecchietti vicini di appartamento di McTeague, che si concupiscono divisi da una parete senza toccarsi mai, per poi approdare anch'essi alle nozze e alla vita insieme (questa è appunto la saturatissima storia collaterale cui si cennava sopra), terminando tuttavia i loro giorni, ci avverte nichilisticamente Stroehim, in un'esistenza piatta e insensata, unica alternativa alla vita prava censurata per tutto il resto del film. 
Rilanciamo piuttosto una domanda. In che cosa una simile brodaglia avrebbe, in qualunque modo immaginabile, influenzato i cineasti coevi e futuri, come la critica mainstream va da anni predicando? Nell'uso infantile della metafora? Nella prosa grossolana? Nell'avanspettacolo che tutto permea, dalle baracconate stile "The Elephant man" degli esordi di McTeague all'epopea del canarino in gabbia, prima assaltato dal gatto del rivale, poi stecchito nella scena finale, come ogni anima innocente travolta dal flusso della brama? Perché questi, sia ben chiaro, sono mezzucci circensi, non cinema. E l'arte se ne può far vanto allo stesso modo dell'espressività al cospetto di un bolo di cerone.

sabato 9 marzo 2013

GREED - UN GRANDISSIMO STROHEIM

La perversione, è un fatto noto, qualora sia autentica e sostanziata da passione e non già (solamente) da noia, non conosce limiti: se, come direbbero certi acchiappafantasmi, piovono liquami allora nella perversione (lungi dal cercare ombrelle o riparo) ci si trova irresistibilmente a fare Singing in the Rain. Nel nostro caso conclamato di masochismo cinematografico non proviamo più sufficienti brividi al recensire filmetti degli incapaci mediocri d'oggidì; né ci sollazza totalmente il meritato insulto ai presunti grandi autori di quest'era. Vogliamo, no, necessitiamo di più e di peggio, e perciò trascendiamo le barriere della decenza e del tempo, nel tentativo di ricavare da antica pellicola un'emozione nuova: lo svelamento impietoso e la denuncia crudele delle brutture nascoste più spesso di quanto si creda (oh, gaudio!) nelle liste dei Capolavori del Cinema. Per esordire (in)degnamente scegliamo dunque un film epico, presenza fissa nelle Storie del Cinema, partorito da un autore il cui nome è, parimenti, leggendario: Greed (Rapacità), di von Stroheim. E siccome, appunto, siamo dei pervertiti da competizione, non ci accontentiamo della versione smozzicata e da donnicciole, quelle 2 ore e 20 che chiunque sarebbe capace di scollinare: ci piazziamo piuttosto a muso duro di fronte alla versione restaurata di quasi 4 ore. Per chiarire, le parti perdute sono rimpiazzate da fermo immagine (foto dal set) e commenti scritti: un tour de force amplificato, un tormento che ci proietta nell'abisso della sofferenza per esserne poi sputati rinfrancati e pronti alla pugna. Purificati non osiamo dirci, stante la tremenda mattonata al basso ventre: ma non vi inganniate, lettori. Qui non si tratta di artificioso fallimento, di ineluttabilità storico-artistica, di fotogrammi e parole che invano tentano di prendere il posto del grande cinema che fu perduto, e nell'inevitabile insuccesso risultano noiosi: no, qui si parla di un grandiosamente brutto film.

Tratto da un libro che, per carità!, non vi venga mai in mente di leggere (sul serio, le frasi prese dal testo per riempire gli spazi “vuoti” sono tremendissime imbellettature baroccate, morali di assoluta banalità e talvolta esempi di pura stupidità), Greed sarebbe un impietoso ritratto della debolezza umana, della mostruosità che la nostra specie esibisce per Cupidigia, racconto potente e fuori dal tempo. Così dicono le critiche dei grandi esperti della Settima Arte. Quello che omettono, malvagi, è che trattasi di film spietato sì, ma con lo spettatore. Stroheim (il “von” se lo scorda, alla fine della quarta ora) ci propina tutto e tutti, sembra incapace di operare tagli o scelte narrative (e se vi bevete la frottola che questa sia grandeur, addirittura genialità, buon per voi – noi però vi abbiamo avvisati: è solo un modo pessimo di narrare), racconta per filo e segno le gesta di innumerevoli disgraziati. Passino le presenze caricaturali (anche se spingono ai limiti le nostre capacità di sopportazione) in qualche modo giustificate da una loro relazione con chi dovrebbe incarnare principalmente la storia, l'apologo. Ma chiunque venga anche in minimo contatto con McTeague (un bruto dotato di forza erculea e cuore d'oro: per dire, quando un collega minatore maltratta il suo canarino, non esita un secondo a scaraventare il maleducato giù per un dirupo onde proteggere il pennuto) e Trina (giovane rampolla di una famiglia asburgica inspiegabilmente trapiantata in piena California) viene presentato per nome e storia personale. Più inutili sono, meglio è. Lo stillicidio sembra infinito nella prima parte dell'opera, tanto da far sorgere dubbi sull'effettiva convenienza di una visione integrale, ma poi ad onor del vero rallenta nella seconda metà: anche perché parte dei personaggi si autoelimina cominciando a schiattare in malo modo. Il fil rouge di tanta protervia elencativa (ribadiamo: non di narrazione si tratta, piuttosto di pagine gialle senza censure) sarebbe, par di capire, nelle misere vite di americani del 19mo secolo, incapaci quasi per natura di evolvere da creature meschine ed animalesche ad esseri umani moderni e felici. I tentativi in tal senso non mancano, e sono puntualmente destinati al fallimento (quando non alla morte violenta, che pure viene dispensata con liberalità): lo stesso McTeague offre lo spunto di partenza, emancipandosi (su istigazione della madre, ignorante montanara sposata ad un alcolista irredimibile ma dotata di un certo buon senso) dalla triste esistenza di minatore per andare a caccia di un futuro migliore. Nella fattispecie, esegue senza volerlo (e d'altronde ha la costituzione e l'acume di una bestia da soma, quindi la volontà come atto puro di pensiero gli è verosimilmente per sempre preclusa) l'estrazione a mani nude del dente cariato di una donzella e ciò lo porta non già a recitare in un numero di magia o ad invecchiare in carcere (come ci aspetteremmo) bensì ad iniziare una carriera da dentista. Trasferitosi in città e liberatosi dall'ombra del suo mentore (rivelatosi, toh!, un ciarlatano) egli parrebbe destinato alla felicità: incontra invece innumerevoli esemplari di umanità dolente e fisicamente ripugnante, e volentieri si adegua all'andazzo. L'elenco è lungo e tediosissimo (grazie di cuore, Stroheim!), si stagliano a nostro avviso la donna delle pulizie latina sposata con un tizio sicura testa di serie al prossimo campionato Uomo più Brutto del Mondo (per inciso lei è una mitomane che a giorni alterni racconta di chili d'oro sepolti da qualche parte in Messico per poi ritrattare, rendendo folle – di Cupidigia, ovvio – oltreché orrendo il marito) e la coppia non consumata di vegliardi che abitano in stanze attigue nell'affittacamere dove ha anche sede McTeague (si vede che all'epoca i dentisti prendevano meno), i quali si origliano vicendevolmente attraverso pareti di cartone per decenni piuttosto che dirsi “ciao” in pubblico (pudicizia d'antan).

La storia, per così dire, si incentrerebbe su McTeague e la sua ricerca di una vita migliore, ed i personaggi che incontra nel cammino – a partire dall'oggetto del suo amore, tale Trina Sieppe (sventurata ipertricotica cui viene scheggiato un dente per foga altalenistica dal cugino che tenta di sedurla e la porta, errore fatale!, a farsi curare dal suo amico Mac – tutto vero, giuro) di chiara e sfortunatamente esplicitata discendenza teutonica. Invariabilmente, tutti cadono vittima del desiderio di oggetti luccicanti, bruciano di passione per l'accumulo fine a se stesso di (assai relative) ricchezze e finiscono malissimo. Di epico vi sono le lungaggini, di innovativo praticamente nulla, di involontariamente buffo parecchio, di noioso quasi tutto. La rappresentazione è grandemente banale, i personaggi sono o divengono quasi tutti brutti & cattivi (non è chiaro se siano cattivi e quindi brutti o viceversa) e la gran trovata (a parte “mostrare la deformità di corpo e spirito”, abbiamo capito) sta nell'aver fatto colorare a mano parte dei milioni di fotogrammi (sicuramente manodopera minorile sottopagata) per far risaltare lo sbrilluccicante ORO (in sé o metaforico) che tutti bramano, ed in alcuni intermezzi con braccia e mani scarne che arraffano montagne di monete, monili e quant'altro, stile Gollum in casa de' Paperoni: non malaccio, ma decisamente troppo poco. Anche perché è a fronte di una regia piattissima – Stroheim non muove la cinepresa nemmeno sotto tortura, conosce solo due inquadrature (ne osa una terza, nei momenti clou) e insomma detto francamente sono più dinamici alcuni fermo immagine della maggior parte delle sequenze – e di una recitazione bambinesca. Trina, soprattutto, vittima di uno sfacelo psicosomatico progressivo, inarrestabile e fastidioso, si porta un dito alla bocca e mette lo sguardo a fuoco sull'infinito ogni volta che si ingrifa pensando ai soldi (e meno male che vince una lotteria, strada facendo!). Per chiudere in gloria: la sceneggiatura in quanto atto di sceneggiare, di adattare il libro al mezzo cinematografico, era evidentemente pratica sconosciuta o invisa all'autore. Stroheim pretendeva di non tagliare nulla (qualche benemerito ha amputato a più riprese le 9 ore originariamente messe insieme dal folle), di girare solo nei luoghi reali, di essere maniacalmente fedele ad un romanzo già “naturalistico”. Ma mettere in scena sciocchezze e sconcezze acriticamente (sul serio mi devo sorbire il fatto che Mac, per far scucire dei soldi alla tignosissima moglie, le morda le dita con espressione ebete? E, ad aggravare, che lei in seguito si veda amputare per questo mezza mano – non prima di averla colorata fugacemente di blu con variante sulla tecnica di cui sopra? Sul serio è un dramma imprevedibile, architettato da un malvagio antagonista il fatto che un analfabeta instauratosi in uno studio cittadino senza autorizzazioni o licenze e spacciantesi per odontoiatra faccia prima o poi incazzare la locale associazione dentisti?) e ancora filmare tutto senza filtri ma del pari senza invenzioni (di tecnica o di idee) non è, piaccia o meno ai santoni, fare grande cinema. E' a malapena fare cinema, a parer nostro. Una chiosa sulla morale proposta: gli unici immuni al desiderio irrefrenabile di possesso materiale sono i due vegliardi vicini di stanza di Mac. Essi, concludendo un corteggiamento silente durato decadi, infine cedono le poche proprietà di qualche valore e, dopo aver parlato una volta una ed abbondantemente pianto sulle rispettive spalle, convolano. Gioia, riscatto, speranza? Direste di sì, dato che son loro dedicati alcuni fotogrammi a colori. Ma la didascalia, impietosa, specifica che finiranno così insieme i giorni delle loro vite vuote, senza accadimenti di rilievo. Insomma, in un modo o nell'altro siamo tutti perduti. Speriamo almeno che, all'inferno che ci attende, la programmazione cinematografica sia migliore.

PS: l'unica soddisfazione è che, al vedersi i primi 10 minuti o giù di lì, scoprirete cosa stava citando Tarantino all'inizio di Django, ovvero da dove venga il carretto col dentone d'oro. Poi, spegnete.

mercoledì 27 febbraio 2013

ZERO DARK THIRTY (UN PO' TARDI, ARRIVA ANCHE LA MIA)

Kathryn Bigelow è una regista di film d'azione generalmente per nulla disprezzabili. La precedente definizione serve a sottolineare come, benché svolgendo vari temi e quindi ad un'analisi superficiale prestandosi all'idea di aver attraversato vari generi, ella ha sempre unicamente fatto ricorso alla regia da film d'azione. Montaggio, movimenti di macchina, inquadrature: tutto è sempre fedele alla stessa grammatica: ed anche se i risultati variano in qualità (alcune punte di gran divertimento, altri momenti più dimenticabili) senza dubbio si riscontrano coerenza e padronanza del mestiere. Quanto testé detto riassumeva la sua carriera fino ad un paio di anni fa, allorquando le capitò la disgrazia di dirigere un film più bello ed originale: The Hurt Locker. Tale produzione, premiata altresì dalla critica, si distingue dalle precedenti per l'uso del reale come elemento di sceneggiatura, per l'aver imperniato la trama sull'analisi psicologica dei personaggi (semplice, in quanto si tratta di esseri anomali e quasi costituiti da un solo tratto caratteriale: ma pur sempre di approfondimento e riflessione psicologica si tratta) e per la scelta di adattare lo stile (che rimane quello del film d'azione, ma per la prima volta in tutta la sua carriera esula dal confine del fantastico) alla storia e non viceversa, in una ricerca della spettacolarizzazione del realismo e dell'attualità che è risultata interessante e (almeno nel panorama del cinema occidentale contemporaneo) innovativa. In seguito a ciò, la poveretta si è (pare) convinta di potere o forse dovere segnare il proprio cinema in tal senso, e purtroppo univocamente in tal senso: si è magari persuasa di avere una nuova, efficace freccia al proprio arco e di saperne trarre risultati che fossero appaganti al botteghino ed al vaglio dei critici, completando così un canonico en plein nel suo cuore di regista. Il parto più recente di questo mostruoso processo è il film, inevitabilmente deforme (pluri-candidato agli Oscar e però, lietamente, pauci-premiato), intitolato Zero Dark Thirty.

Trattasi, purtroppo non per caso, della spettacolarizzazione della caccia ed infine la cattura (meglio: l'uccisione) di Osama bin Laden ad opera di una task force della CIA (con al centro una roscia dal carattere di ferro ed una vita privata di tipo cimiteriale) coadiuvata da alcuni muscolari dotati di ogni sorta di diavoleria elettronica onde performare l'assalto al buio. L'opera è spezzata, composta com'è da una lunga prolusione fatta di tutte le pallosissime fasi di indagine, ricerca, frustrazione, lotta coi superiori ottusi (condire con l'occasionale attentato dinamitardo, mescolare male, servire tiepido) a cui viene poi appiccicata una mezz'ora finale di sequenze di azione in stile documentaristico-spettacolare - evoluzione dello stesso Hurt Locker e rialzo sulla puntata di allora dato che non si tratta più “solo” della guerra ma della missione che elimina il capo dei cattivi in persona. Ci sarebbe di che criticare diversi aspetti della pellicola, e da ammorbare con un racconto di epica lungaggine sullo svolgimento della ricerca (lo fa la Bigelow, non lo posso fare io?) ma ci accontentiamo in questa sede (generosità, nostro grande vizio) di tratteggiare i greatest hits:
  • la complessità del carattere dei vari personaggi è totalmente e disperatamente assente: nessuno ha una personalità, nessuno evolve, tutti sono prevedibili e squadrati dal primo all'ultimo istante, esseri immutabili e noiosissimi (un Pantheon del rimbambimento, tipo);
  • la rossa cacciatrice, in particolare, non ha altro nella vita a parte il lavoro: che non presenta esattamente molte occasioni di socializzare, ma insomma dandosi un po' da fare, magari con lo speed-dating o altro...
  • piange, però, quando han fatto fuori il Male impersonificato (un vecchio barbudo e mal vestito che vive rinchiuso in una villa bunker ma assai poco lussuosa in mezzo a dei contadini in Pakistan, per la cronaca) e le chiedono dove voglia esser trasportata ora: realizza, sospettiamo, di non avere mai dato da mangiare al gatto in un decennio;
  • le scene coi corpi speciali che vanno a tanare bin Laden saranno anche belle e realistiche e fatte con dispendio di mezzi ma (a parte che fa venire un po' il mal di mare il continuo passare dalla visione verdina degli occhiali hi-tech al semibuio delle riprese “oggettive”) presentano alcuni momenti di sommo ridicolo involontario: ne scegliamo due
  1. dopo esser giunti nel bel mezzo di un paese straniero con un intero gruppo d'assalto su due elicotteri (stealth, però, quindi anche se volano a 20 metri dal suolo in una città nessuno li nota) i nostri eroi pensano bene di schiantarne uno nel giardino della villa del Signore del Male: non si sveglia nessuno, salvo una capra;
  2. una volta penetrati nel villone-bunker, i buoni in mimetica debbono trovare i residenti e ridurli al silenzio: nel dubbio, sparano e poi chiedono chi-va-là (cowboys, tipico) ma poi, per stanare i più coriacei, si inventano uno stratagemma diabolico: li chiamano per nome nel cuore della notte dopo aver ammazzato a fucilate 5 o 6 dei loro cari. Eccezionale la scena in cui l'esecutore materiale della Giustizia Americana cerca di ingannare il diabolico bin rintanatosi all'ultimo piano della torretta del Male (mini-Mordor, per capirsi) chiamando il suo nome al buio “Osama! Osama!” - il malvagissimo sovrumanamente resiste all'impulso di presentarsi al carnefice gridando “son qua, cazzo!” ma, ahilui, mentre tenta di deambulare rapidamente al buio viene scoperto ed impallinato. Game over, iniziate il prossimo livello.

Nel complesso, un film con grandi debolezze, pochi aspetti convincenti (prettamente di natura tecnica), sventurate cadute nel buffo e, soprattutto, poco o nulla da dire. Avessero dato un oscar di quelli grossi a questo, c'era speranza per tutti.

domenica 10 febbraio 2013

Zero Dark Thirty

Amiamo Katryn Bigelow dai tempi di "Blue steel" e "Point Break" e ci dispiace parlarne male, ma la sua ultima fatica, "Zero Dark Thirty", è, almeno per due terzi (salviamo la mezz'ora conclusiva), di una noia mortale. Certo, il tema della cattura e uccisione di Osama bin Laden è roba da maneggiare con cura (non a caso non lo si vede mai in faccia, nemmeno dopo la morte: se ne colgono solo i tratti essenziali, come la barba lunga), ma la scelta di farci un film implica comunque delle responsabilità cinematografiche: per esempio girare un documentario, o invece una fiction tout court, ma non, ecco, l'amorfa messa in scena, pencolante tra action e reportage, servitaci qui.
Si ha la continua sensazione, assistendo all'inesorabile sgranarsi di torture, agguati e intercettazioni, che, non potendo affrontare di petto la questione – tuttora sostanzialmente top secret, twittate dei vicini di casa a parte – del raid di Abbottabad, Bigelow se ne sia tenuta in disparte, preferendo approfondire, piuttosto, il funzionamento dei servizi segreti. E tuttavia, non disponendo degli scenari metropolitani che fecero grande Pakula (le location sono mediorientali e polverosissime), né di particolari possibilità registiche (il montaggio deve fare i conti con l'ingombrante proliferare dei dialoghi), si sia limitata a svolgere un compito diligente e privo di rischi (esemplare, in tal senso, un banalissimo dialogo tra addetti ai lavori sull'incidenza della religione nel conflitto tra i popoli, fuoriuscito direttamente dal più frusto immaginario collettivo).
Il risultato è, prevedibilmente, un insieme disorganico e indeciso, che affligge la stessa trama: per buona parte della vicenda, pare che l'unica ossessione della protagonista, la diafana funzionaria Maya (un'estenuata Jessica Chastain), inviata dalla CIA in Pakistan, sia la cattura di tale Abu Ahmed, uno dei principali accoliti della rete di bin Laden, poi però, non appena la faticosissima ricostruzione di facce, sospetti e indizi porta la nostra a scovare il nascondiglio del re del terrore, ecco che la storia vira decisa sul contrasto tra lei e l'apparato centrale, restio ad organizzare la retata definitiva, visto il decennio di inseguimenti falliti alle spalle.
In compenso, lo spettatore è già da tempo caduto sul campo, costretto com'è stato a sorbirsi per due ore buone l'ostensione integrale di tutta l'attività giornaliera di spionaggio: la detective, e non solo lei, istupidisce a guardarsi quintali di vhs, matura un paio di occhiaie da competizione, assiste atterrita, e a volte partecipa, agli umilianti interrogatori dei sospettati, si sciroppa un'interminabile serie (ci sono ellissi, ma si intuisce l'andazzo) di false piste, “errori umani” e scetticismi dei superiori, non demordendo mai.
Si è quasi grati anzi che, più o meno a cavallo dei due tempi, Bigelow si ricordi di essere una regista e movimenti lo scenario, e la nostra catalessi, con un paio di esplosioni: la prima, molto riuscita, è l'attentato al Marriott di Islamabad, che sorprende Maya e la collega Jessica (Jennifer Ehle, caratterizzata da un perenne, incomprensibile entusiasmo) nell'unica conversazione sull'inesistente vita privata della protagonista di tutto lo script. La seconda è l'autobomba scoppiata alla base americana in Afghanistan, che se non altro toglie di mezzo la sovreccitata di cui sopra, a tal punto felice di torchiare il terrorista di turno da chiedere improvvidamente alle vedette di non disarmarlo.
Non va meglio, peraltro, con l'ulteriore collega di Maya, Dan (un divertito Jason Clarke), che esordisce scamiciato e barbuto maltrattando un arabo riluttante alla confessione e tiene banco con sevizie assortite per un tempo intero, salvo poi, di punto in bianco (più o meno quando gli ammazzano le scimmie con cui era solito condividere il gelato), tornare alla base elegante e rasato. Sparirà sostanzialmente dal film, tranne una puntata a Kuwait City, nuovamente scamiciato e barbuto, per convincere uno sceicco a scambiare una Lamborghini con preziose informazioni.
Nel mentre, Jessica Chastain ha sperimentato ogni sorta di disagi en travesti - parrucche, pashmine, chador - ed è pure sfuggita rocambolescamente a un attentato, ma nonostante tutto è ancora costretta a pugnare col corpulento, e stolido, direttore CIA (un James Gandolfini parecchio idiota) per convincerlo ad organizzare l'attacco al bunker di bin Laden. Memorabile, in questo senso, l'astuto suggerimento del capoccia per monitorare la presenza del fuggitivo: posizionare una telecamera su uno degli alberi di fronte al compound, talmente brillante che financo l'ultimo dei sottoposti glielo cassa senza pietà.
Alla fine, dopo che Maya ha quotidianamente scarabocchiato i vetri dell'ufficio del suo superiore col numero dei giorni di attesa per il fatidico raid, questi si decide a muovere il culo delle forze speciali e ci fa respirare, se non altro, una mezz'ora di cinema a visore notturno degna dell'autrice. Ma non basta a giustificare un'operazione che, per certi versi, sembra una lastra al negativo del suo bellissimo predecessore The hurt locker. Lì, non c'erano troppe paturnie geopolitiche e del contesto, anziché un trito resoconto, si faceva vero e proprio campo di battaglia, con tanto di tensione e montaggio serratissimi. Per bin Laden meglio ripassare, magari convocando Michael Moore.

Giudizio: KKk