Amiamo Katryn Bigelow dai tempi
di "Blue steel" e "Point Break" e ci dispiace parlarne male, ma la sua ultima
fatica, "Zero Dark Thirty", è, almeno per due terzi (salviamo la mezz'ora
conclusiva), di una noia mortale. Certo, il tema della cattura e uccisione di
Osama bin Laden è roba da maneggiare con cura (non a caso non lo si vede mai in
faccia, nemmeno dopo la morte: se ne colgono solo i tratti essenziali, come la
barba lunga), ma la scelta di farci un film implica comunque delle
responsabilità cinematografiche: per esempio girare un documentario, o invece
una fiction tout court, ma non, ecco, l'amorfa messa in scena, pencolante tra
action e reportage, servitaci qui.
Si ha la continua
sensazione, assistendo all'inesorabile sgranarsi di torture, agguati e intercettazioni,
che, non potendo affrontare di petto la questione – tuttora sostanzialmente top
secret, twittate dei vicini di casa a parte – del raid di Abbottabad, Bigelow
se ne sia tenuta in disparte, preferendo approfondire, piuttosto, il funzionamento
dei servizi segreti. E tuttavia, non disponendo degli scenari metropolitani che
fecero grande Pakula (le location sono mediorientali e polverosissime), né di
particolari possibilità registiche (il montaggio deve fare i conti con
l'ingombrante proliferare dei dialoghi), si sia limitata a svolgere un compito
diligente e privo di rischi (esemplare, in tal senso, un banalissimo dialogo
tra addetti ai lavori sull'incidenza della religione nel conflitto tra i
popoli, fuoriuscito direttamente dal più frusto immaginario collettivo).
Il risultato è, prevedibilmente,
un insieme disorganico e indeciso, che affligge la stessa trama: per buona
parte della vicenda, pare che l'unica ossessione della protagonista, la diafana
funzionaria Maya (un'estenuata Jessica Chastain), inviata dalla CIA in
Pakistan, sia la cattura di tale Abu Ahmed, uno dei principali accoliti della
rete di bin Laden, poi però, non appena la faticosissima ricostruzione di
facce, sospetti e indizi porta la nostra a scovare il nascondiglio del re del
terrore, ecco che la storia vira decisa sul contrasto tra lei e l'apparato
centrale, restio ad organizzare la retata definitiva, visto il decennio di
inseguimenti falliti alle spalle.
In compenso, lo spettatore è già
da tempo caduto sul campo, costretto com'è stato a sorbirsi per due ore buone
l'ostensione integrale di tutta l'attività giornaliera di spionaggio: la
detective, e non solo lei, istupidisce a guardarsi quintali di vhs, matura un
paio di occhiaie da competizione, assiste atterrita, e a volte partecipa, agli
umilianti interrogatori dei sospettati, si sciroppa un'interminabile serie (ci
sono ellissi, ma si intuisce l'andazzo) di false piste, “errori umani” e
scetticismi dei superiori, non demordendo mai.
Si è quasi grati anzi che, più o
meno a cavallo dei due tempi, Bigelow si ricordi di essere una regista e
movimenti lo scenario, e la nostra catalessi, con un paio di esplosioni: la
prima, molto riuscita, è l'attentato al Marriott di Islamabad, che sorprende
Maya e la collega Jessica (Jennifer Ehle, caratterizzata da un perenne,
incomprensibile entusiasmo) nell'unica conversazione sull'inesistente vita
privata della protagonista di tutto lo script. La seconda è l'autobomba
scoppiata alla base americana in Afghanistan, che se non altro toglie di mezzo
la sovreccitata di cui sopra, a tal punto felice di torchiare il terrorista di
turno da chiedere improvvidamente alle vedette di non disarmarlo.
Non va meglio, peraltro, con
l'ulteriore collega di Maya, Dan (un divertito Jason Clarke), che esordisce
scamiciato e barbuto maltrattando un arabo riluttante alla confessione e tiene
banco con sevizie assortite per un tempo intero, salvo poi, di punto in bianco
(più o meno quando gli ammazzano le scimmie con cui era solito condividere il
gelato), tornare alla base elegante e rasato. Sparirà sostanzialmente dal film,
tranne una puntata a Kuwait City, nuovamente scamiciato e barbuto, per
convincere uno sceicco a scambiare una Lamborghini con preziose informazioni.
Nel mentre, Jessica Chastain ha
sperimentato ogni sorta di disagi en travesti - parrucche, pashmine, chador -
ed è pure sfuggita rocambolescamente a un attentato, ma nonostante tutto è
ancora costretta a pugnare col corpulento, e stolido, direttore CIA (un James
Gandolfini parecchio idiota) per convincerlo ad organizzare l'attacco al bunker
di bin Laden. Memorabile, in questo senso, l'astuto suggerimento del capoccia
per monitorare la presenza del fuggitivo: posizionare una telecamera su uno
degli alberi di fronte al compound, talmente brillante che financo l'ultimo
dei sottoposti glielo cassa senza pietà.
Alla fine, dopo che Maya ha
quotidianamente scarabocchiato i vetri dell'ufficio del suo superiore col
numero dei giorni di attesa per il fatidico raid, questi si decide a muovere il
culo delle forze speciali e ci fa respirare, se non altro, una mezz'ora di
cinema a visore notturno degna dell'autrice. Ma non basta a giustificare
un'operazione che, per certi versi, sembra una lastra al negativo del suo
bellissimo predecessore The hurt locker. Lì, non c'erano troppe paturnie
geopolitiche e del contesto, anziché un trito resoconto, si faceva vero e
proprio campo di battaglia, con tanto di tensione e montaggio serratissimi. Per
bin Laden meglio ripassare, magari convocando Michael Moore.
Giudizio: KKk
Giudizio: KKk
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