domenica 10 febbraio 2013

Zero Dark Thirty

Amiamo Katryn Bigelow dai tempi di "Blue steel" e "Point Break" e ci dispiace parlarne male, ma la sua ultima fatica, "Zero Dark Thirty", è, almeno per due terzi (salviamo la mezz'ora conclusiva), di una noia mortale. Certo, il tema della cattura e uccisione di Osama bin Laden è roba da maneggiare con cura (non a caso non lo si vede mai in faccia, nemmeno dopo la morte: se ne colgono solo i tratti essenziali, come la barba lunga), ma la scelta di farci un film implica comunque delle responsabilità cinematografiche: per esempio girare un documentario, o invece una fiction tout court, ma non, ecco, l'amorfa messa in scena, pencolante tra action e reportage, servitaci qui.
Si ha la continua sensazione, assistendo all'inesorabile sgranarsi di torture, agguati e intercettazioni, che, non potendo affrontare di petto la questione – tuttora sostanzialmente top secret, twittate dei vicini di casa a parte – del raid di Abbottabad, Bigelow se ne sia tenuta in disparte, preferendo approfondire, piuttosto, il funzionamento dei servizi segreti. E tuttavia, non disponendo degli scenari metropolitani che fecero grande Pakula (le location sono mediorientali e polverosissime), né di particolari possibilità registiche (il montaggio deve fare i conti con l'ingombrante proliferare dei dialoghi), si sia limitata a svolgere un compito diligente e privo di rischi (esemplare, in tal senso, un banalissimo dialogo tra addetti ai lavori sull'incidenza della religione nel conflitto tra i popoli, fuoriuscito direttamente dal più frusto immaginario collettivo).
Il risultato è, prevedibilmente, un insieme disorganico e indeciso, che affligge la stessa trama: per buona parte della vicenda, pare che l'unica ossessione della protagonista, la diafana funzionaria Maya (un'estenuata Jessica Chastain), inviata dalla CIA in Pakistan, sia la cattura di tale Abu Ahmed, uno dei principali accoliti della rete di bin Laden, poi però, non appena la faticosissima ricostruzione di facce, sospetti e indizi porta la nostra a scovare il nascondiglio del re del terrore, ecco che la storia vira decisa sul contrasto tra lei e l'apparato centrale, restio ad organizzare la retata definitiva, visto il decennio di inseguimenti falliti alle spalle.
In compenso, lo spettatore è già da tempo caduto sul campo, costretto com'è stato a sorbirsi per due ore buone l'ostensione integrale di tutta l'attività giornaliera di spionaggio: la detective, e non solo lei, istupidisce a guardarsi quintali di vhs, matura un paio di occhiaie da competizione, assiste atterrita, e a volte partecipa, agli umilianti interrogatori dei sospettati, si sciroppa un'interminabile serie (ci sono ellissi, ma si intuisce l'andazzo) di false piste, “errori umani” e scetticismi dei superiori, non demordendo mai.
Si è quasi grati anzi che, più o meno a cavallo dei due tempi, Bigelow si ricordi di essere una regista e movimenti lo scenario, e la nostra catalessi, con un paio di esplosioni: la prima, molto riuscita, è l'attentato al Marriott di Islamabad, che sorprende Maya e la collega Jessica (Jennifer Ehle, caratterizzata da un perenne, incomprensibile entusiasmo) nell'unica conversazione sull'inesistente vita privata della protagonista di tutto lo script. La seconda è l'autobomba scoppiata alla base americana in Afghanistan, che se non altro toglie di mezzo la sovreccitata di cui sopra, a tal punto felice di torchiare il terrorista di turno da chiedere improvvidamente alle vedette di non disarmarlo.
Non va meglio, peraltro, con l'ulteriore collega di Maya, Dan (un divertito Jason Clarke), che esordisce scamiciato e barbuto maltrattando un arabo riluttante alla confessione e tiene banco con sevizie assortite per un tempo intero, salvo poi, di punto in bianco (più o meno quando gli ammazzano le scimmie con cui era solito condividere il gelato), tornare alla base elegante e rasato. Sparirà sostanzialmente dal film, tranne una puntata a Kuwait City, nuovamente scamiciato e barbuto, per convincere uno sceicco a scambiare una Lamborghini con preziose informazioni.
Nel mentre, Jessica Chastain ha sperimentato ogni sorta di disagi en travesti - parrucche, pashmine, chador - ed è pure sfuggita rocambolescamente a un attentato, ma nonostante tutto è ancora costretta a pugnare col corpulento, e stolido, direttore CIA (un James Gandolfini parecchio idiota) per convincerlo ad organizzare l'attacco al bunker di bin Laden. Memorabile, in questo senso, l'astuto suggerimento del capoccia per monitorare la presenza del fuggitivo: posizionare una telecamera su uno degli alberi di fronte al compound, talmente brillante che financo l'ultimo dei sottoposti glielo cassa senza pietà.
Alla fine, dopo che Maya ha quotidianamente scarabocchiato i vetri dell'ufficio del suo superiore col numero dei giorni di attesa per il fatidico raid, questi si decide a muovere il culo delle forze speciali e ci fa respirare, se non altro, una mezz'ora di cinema a visore notturno degna dell'autrice. Ma non basta a giustificare un'operazione che, per certi versi, sembra una lastra al negativo del suo bellissimo predecessore The hurt locker. Lì, non c'erano troppe paturnie geopolitiche e del contesto, anziché un trito resoconto, si faceva vero e proprio campo di battaglia, con tanto di tensione e montaggio serratissimi. Per bin Laden meglio ripassare, magari convocando Michael Moore.

Giudizio: KKk

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