domenica 10 marzo 2013

Recensioni d'antan - Greed (1924)

Capita di recente, nella bulimica perversione cinefila, che i vostri recensori si accostino, con esiti alterni, al cinema d'antan. Non lo si fa per intellettualismo occhiuto, né per sofferenza coatta, ma per bieca, torva, curiosità. Può infatti succedere di estrarre perle dall'oblio della celluloide (e.g. "L'uomo con la macchina da presa" del profetico Dziga Vertov), oppure monografarsi un attore più leggendario che reale (i.e. Lon Chaney, che, salva l'esilarante scena della maschera strappata nel "Fantasma dell'opera", è un mago di travestimenti e contrazioni drammatiche), o ancora entusiasmarsi per la modernità di certa produzione svedese di un secolo fa (per informazioni, rivolgersi al "Carretto fantasma").
Ma può pure accadere, lo si dice per onestà, di dormirsi interi brani di comiche, restare in balia di sequenze dagli attori tutti uguali (d'altronde, le immagini sfuocate), fissare con sguardi ebeti improbabili rimandi da una didascalia all'altra (il muto è cosparso di inesorabili ellissi). E, sempre, di restare stralunati ma consapevoli, ché ogni storia percorsa al contrario richiede un po' di tempo per sedimentarsi. Quanto accaduto l'ultima volta, tuttavia, merita un capitolo a parte. E una recensione a parte. 
"Greed", di Erich von Stroheim, classe 1924, è unanimemente ritenuto, dagli aedi della cinefilia, l'esempio epocale di come Hollywood, in omaggio agli altari del commercio, abbia crudelmente castrato gli ideali registici, sforbiciando un capolavoro assoluto della storia del cinema - originariamente lungo 7 o 9 ore, a seconda della pellicola in uso - fino a renderlo una pallida controfigura dell'arte che fu. Oggi, tuttavia, dopo un misterioso ritrovamento di una copia più lunga del film in un centro di igiene mentale, è possibile visionare, oltre alle 2 ore standard rimaste, una ridda di fotogrammi/didascalie della stessa durata con le scene tagliate e distrutte.
Immaginerete, quindi, la sfida. Non solo il muto, anche la paresi fotografica. Roba che neanche un Bazin dei tempi nostri. Ci si è dunque armati per la tenzone e in sole tre sessioni non consecutive, tutte parecchio ostiche, se ne è venuti a capo. Tacendo, naturalmente, dei dettagli (tardi svenimenti, malanimi, commenti rabbuiati quando finivano le sequenze filmate e riprendeva la solfa delle diapo), l'esperienza si è conclusa con un giudizio plebiscitario: "Greed" è un film ampolloso, trito, di sconcertante banalità e ottuso perbenismo, gravato, come non bastasse, da una regia totalmente priva di guizzi, e scandita, forse per risolvere dalla noia imperante, da un ricorso smaccato e protervo alla simbologia.
Vi è stato sempre raccontato, sin dalla traduzione italiana del titolo (Rapacità), che si tratta di un'opera sull'avidità umana, le grinfie, la bassezza a cui il nostro simile si abbandona quando perde la testa per il denaro, il luccichio della ricchezza, il potere. E così è, in effetti. Ma quello che non vi viene – colpevolmente – detto è che, di tutti i modi che Stroheim aveva di spiegarcelo, ha scelto quello immediatamente percettibile anche da uno spettatore di istruzione elementare, financo una scimmia, visti certi pavloviani automatismi registici.
Perché, sì, sorvoliamo pure sulle celebri colorazioni a mano dei lingotti d'oro, sulle scene di raccordo con le braccia scheletrite che agognano di affondare nel monetume, sul filtro giallo della sequenza finale nel deserto (che, forse per via del sole, ci ha ricordato "Seven" ed è l'unico momento passabile dell'indigeribile sbobba) e sul pittato rosso dei denari insanguinati, e blu delle dita in cancrena, morsicate in cerca dei dobloni che trattenevano, e via scarabocchiando. Sorvoliamo anche sulle scene improbabilmente a colori di una delle storie collaterali, saturate in modo osceno, come una sorta di imbellettamento postumo, per esprimere un apparente contrasto tematico con il bianco e nero del resto. Dopotutto, si tratta di folklore.
Ma non perdoniamo, no, mai, lo stile agit prop con cui è usata la profondità di campo (esempio per tutti la scena del matrimonio dei protagonisti, durante il quale, per esprimerne i tetri presagi di sventura, scorre dalla finestra del salone un lento corteo funebre), la deliberata tendenza alla sgradevolezza (banane masticate a bocca aperta, rutti tempestosi, fazzoletti quasi divorati dal nervosismo) e, su tutto, la terribile vocazione ad ammonire lo spettatore, spiattellando tra una sequenza e l'altra interi estratti del libro di partenza “McTeague”, a propria volta, si intuisce, di insopportabile pedanteria.
Questo, intendiamoci, non è realismo (semmai iper-, e in senso deteriore), ma pura fuffa barricadera, come ben si comprende dal celebre dentone pendulo che ballonzola sulla carrozza dell'odonto-ciarlatano mentore dell'antieroe eponimo (idea riproposta, nella consueta citazione terminale, dall'ultimo Tarantino), un rozzo minatore di buoni sentimenti e scarsità cerebrale, assurto agli onori borghesi tramite improbabili abilità nell'estrazione a mani nude dei molari, e di qui proiettato verso uno scandaloso successo.
Non vale nemmeno la pena dilungarsi sulla trama, sull'immotivatamente teutonica Trina Sieppe, originaria paziente del nostro, che lo innamorerà durante un bacio al cloroformio per poi sposarlo, vincere una lotteria e scegliere di vivere in miseria pur di non spartire con lui il gruzzolo con cui è usa titillarsi nei tempi morti. E stendiamo, del pari, un velo sul cugino della suddetta, infoiato di lei all'inverosimile, che per affossare il rivale denuncia urbi et orbi la sua carenza di odonto-titolo, lo precipita nella disoccupazione e ne esplode la nefasta violenza primigenia, inducendolo, al culmine del rapacissimo processo degenerativo, a far fuori l'avida moglie, fuggendo nel deserto con una taglia sulla testa e troppe ore di girato alle spalle.
Omettiamo pure, per compassione, di soffermarci sui vecchietti vicini di appartamento di McTeague, che si concupiscono divisi da una parete senza toccarsi mai, per poi approdare anch'essi alle nozze e alla vita insieme (questa è appunto la saturatissima storia collaterale cui si cennava sopra), terminando tuttavia i loro giorni, ci avverte nichilisticamente Stroehim, in un'esistenza piatta e insensata, unica alternativa alla vita prava censurata per tutto il resto del film. 
Rilanciamo piuttosto una domanda. In che cosa una simile brodaglia avrebbe, in qualunque modo immaginabile, influenzato i cineasti coevi e futuri, come la critica mainstream va da anni predicando? Nell'uso infantile della metafora? Nella prosa grossolana? Nell'avanspettacolo che tutto permea, dalle baracconate stile "The Elephant man" degli esordi di McTeague all'epopea del canarino in gabbia, prima assaltato dal gatto del rivale, poi stecchito nella scena finale, come ogni anima innocente travolta dal flusso della brama? Perché questi, sia ben chiaro, sono mezzucci circensi, non cinema. E l'arte se ne può far vanto allo stesso modo dell'espressività al cospetto di un bolo di cerone.

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