La
perversione, è un fatto noto, qualora sia autentica e sostanziata da
passione e non già (solamente) da noia, non conosce limiti: se, come
direbbero certi acchiappafantasmi, piovono liquami allora nella
perversione (lungi dal cercare ombrelle o riparo) ci si trova
irresistibilmente a fare Singing
in the Rain. Nel nostro caso conclamato di masochismo cinematografico
non proviamo più sufficienti brividi al recensire filmetti degli
incapaci mediocri d'oggidì; né ci sollazza totalmente il meritato
insulto ai presunti grandi autori di quest'era. Vogliamo, no,
necessitiamo di più e di peggio, e perciò trascendiamo le barriere
della decenza e del tempo, nel tentativo di ricavare da antica
pellicola un'emozione nuova: lo svelamento impietoso e la denuncia
crudele delle brutture nascoste più spesso di quanto si creda (oh,
gaudio!) nelle liste dei Capolavori del Cinema. Per esordire
(in)degnamente scegliamo dunque un film epico, presenza fissa nelle
Storie del Cinema, partorito da un autore il cui nome è, parimenti,
leggendario: Greed (Rapacità), di von Stroheim. E siccome, appunto,
siamo dei pervertiti da competizione, non ci accontentiamo della
versione smozzicata e da donnicciole, quelle 2 ore e 20 che chiunque
sarebbe capace di scollinare: ci piazziamo piuttosto a muso duro di
fronte alla versione restaurata di quasi 4 ore. Per chiarire, le
parti perdute sono rimpiazzate da fermo immagine (foto dal set) e
commenti scritti: un tour de force amplificato, un tormento che ci
proietta nell'abisso della sofferenza per esserne poi sputati
rinfrancati e pronti alla pugna. Purificati non osiamo dirci, stante
la tremenda mattonata al basso ventre: ma non vi inganniate, lettori.
Qui non si tratta di artificioso fallimento, di ineluttabilità
storico-artistica, di fotogrammi e parole che invano tentano di
prendere il posto del grande cinema che fu perduto, e
nell'inevitabile insuccesso risultano noiosi: no, qui si parla di un
grandiosamente brutto film.
Tratto da un libro che, per carità!, non vi venga mai in mente di
leggere (sul serio, le frasi prese dal testo per riempire gli spazi
“vuoti” sono tremendissime imbellettature baroccate, morali di
assoluta banalità e talvolta esempi di pura stupidità), Greed
sarebbe un impietoso ritratto della debolezza umana, della
mostruosità che la nostra specie esibisce per Cupidigia, racconto
potente e fuori dal tempo. Così dicono le critiche dei grandi
esperti della Settima Arte. Quello che omettono, malvagi, è che
trattasi di film spietato sì, ma con lo spettatore. Stroheim (il
“von” se lo scorda, alla fine della quarta ora) ci propina tutto
e tutti, sembra incapace di operare tagli o scelte narrative (e se vi
bevete la frottola che questa sia grandeur, addirittura genialità,
buon per voi – noi però vi abbiamo avvisati: è solo un modo
pessimo di narrare), racconta per filo e segno le gesta di
innumerevoli disgraziati. Passino le presenze caricaturali (anche se
spingono ai limiti le nostre capacità di sopportazione) in qualche
modo giustificate da una loro relazione con chi dovrebbe incarnare
principalmente la storia, l'apologo. Ma chiunque venga anche in
minimo contatto con McTeague (un bruto dotato di forza erculea e
cuore d'oro: per dire, quando un collega minatore maltratta il suo
canarino, non esita un secondo a scaraventare il maleducato giù per
un dirupo onde proteggere il pennuto) e Trina (giovane rampolla di
una famiglia asburgica inspiegabilmente trapiantata in piena
California) viene presentato per nome e storia personale. Più
inutili sono, meglio è. Lo stillicidio sembra infinito nella prima
parte dell'opera, tanto da far sorgere dubbi sull'effettiva
convenienza di una visione integrale, ma poi ad onor del vero
rallenta nella seconda metà: anche perché parte dei personaggi si
autoelimina cominciando a schiattare in malo modo. Il fil rouge di
tanta protervia elencativa (ribadiamo: non di narrazione si tratta,
piuttosto di pagine gialle senza censure) sarebbe, par di capire,
nelle misere vite di americani del 19mo secolo, incapaci quasi per
natura di evolvere da creature meschine ed animalesche ad esseri
umani moderni e felici. I tentativi in tal senso non mancano, e sono
puntualmente destinati al fallimento (quando non alla morte violenta,
che pure viene dispensata con liberalità): lo stesso McTeague offre
lo spunto di partenza, emancipandosi (su istigazione della madre,
ignorante montanara sposata ad un alcolista irredimibile ma dotata
di un certo buon senso) dalla triste esistenza di minatore per andare
a caccia di un futuro migliore. Nella fattispecie, esegue senza
volerlo (e d'altronde ha la costituzione e l'acume di una bestia da
soma, quindi la volontà come atto puro di pensiero gli è
verosimilmente per sempre preclusa) l'estrazione a mani nude del
dente cariato di una donzella e ciò lo porta non già a recitare in
un numero di magia o ad invecchiare in carcere (come ci aspetteremmo)
bensì ad iniziare una carriera da dentista. Trasferitosi in città e
liberatosi dall'ombra del suo mentore (rivelatosi, toh!, un
ciarlatano) egli parrebbe destinato alla felicità: incontra invece
innumerevoli esemplari di umanità dolente e fisicamente ripugnante,
e volentieri si adegua all'andazzo. L'elenco è lungo e tediosissimo
(grazie di cuore, Stroheim!), si stagliano a nostro avviso la donna
delle pulizie latina sposata con un tizio sicura testa di
serie al prossimo campionato Uomo più Brutto del Mondo (per inciso
lei è una mitomane che a giorni alterni racconta di chili d'oro
sepolti da qualche parte in Messico per poi ritrattare, rendendo
folle – di Cupidigia, ovvio – oltreché orrendo il marito) e la
coppia non consumata di vegliardi che abitano in stanze attigue
nell'affittacamere dove ha anche sede McTeague (si vede che all'epoca
i dentisti prendevano meno), i quali si origliano vicendevolmente
attraverso pareti di cartone per decenni piuttosto che dirsi “ciao”
in pubblico (pudicizia d'antan).
La storia, per così dire, si incentrerebbe su McTeague e la sua
ricerca di una vita migliore, ed i personaggi che incontra nel
cammino – a partire dall'oggetto del suo amore, tale Trina Sieppe
(sventurata ipertricotica cui viene scheggiato un dente per foga
altalenistica dal cugino che tenta di sedurla e la porta, errore
fatale!, a farsi curare dal suo amico Mac – tutto vero, giuro) di
chiara e sfortunatamente esplicitata discendenza teutonica.
Invariabilmente, tutti cadono vittima del desiderio di oggetti
luccicanti, bruciano di passione per l'accumulo fine a se stesso di
(assai relative) ricchezze e finiscono malissimo. Di epico vi sono le
lungaggini, di innovativo praticamente nulla, di involontariamente
buffo parecchio, di noioso quasi tutto. La rappresentazione è
grandemente banale, i personaggi sono o divengono quasi tutti brutti
& cattivi (non è chiaro se siano cattivi e quindi brutti o
viceversa) e la gran trovata (a parte “mostrare la deformità di
corpo e spirito”, abbiamo capito) sta nell'aver fatto colorare a
mano parte dei milioni di fotogrammi (sicuramente manodopera minorile
sottopagata) per far risaltare lo sbrilluccicante ORO (in sé o
metaforico) che tutti bramano, ed in alcuni intermezzi con braccia e
mani scarne che arraffano montagne di monete, monili e quant'altro,
stile Gollum in casa de' Paperoni: non malaccio, ma decisamente
troppo poco. Anche perché è a fronte di una regia piattissima –
Stroheim non muove la cinepresa nemmeno sotto tortura, conosce solo
due inquadrature (ne osa una terza, nei momenti clou) e insomma detto
francamente sono più dinamici alcuni fermo immagine della maggior
parte delle sequenze – e di una recitazione bambinesca. Trina,
soprattutto, vittima di uno sfacelo psicosomatico progressivo,
inarrestabile e fastidioso, si porta un dito alla bocca e mette lo
sguardo a fuoco sull'infinito ogni volta che si ingrifa pensando ai
soldi (e meno male che vince una lotteria, strada facendo!). Per
chiudere in gloria: la sceneggiatura in quanto atto di sceneggiare,
di adattare il libro al mezzo cinematografico, era evidentemente
pratica sconosciuta o invisa all'autore. Stroheim pretendeva di non
tagliare nulla (qualche benemerito ha amputato a più riprese le 9
ore originariamente messe insieme dal folle), di girare solo nei
luoghi reali, di essere maniacalmente fedele ad un romanzo già
“naturalistico”. Ma mettere in scena sciocchezze e sconcezze
acriticamente (sul serio mi devo sorbire il fatto che Mac, per far
scucire dei soldi alla tignosissima moglie, le morda le dita con
espressione ebete? E, ad aggravare, che lei in seguito si veda
amputare per questo mezza mano – non prima di averla colorata
fugacemente di blu con variante sulla tecnica di cui sopra? Sul serio
è un dramma imprevedibile, architettato da un malvagio antagonista
il fatto che un analfabeta instauratosi in uno studio cittadino senza
autorizzazioni o licenze e spacciantesi per odontoiatra faccia prima
o poi incazzare la locale associazione dentisti?) e ancora filmare
tutto senza filtri ma del pari senza invenzioni (di tecnica o di
idee) non è, piaccia o meno ai santoni, fare grande cinema. E' a
malapena fare cinema, a parer nostro. Una chiosa sulla morale
proposta: gli unici immuni al desiderio irrefrenabile di possesso
materiale sono i due vegliardi vicini di stanza di Mac. Essi,
concludendo un corteggiamento silente durato decadi, infine cedono le
poche proprietà di qualche valore e, dopo aver parlato una volta una
ed abbondantemente pianto sulle rispettive spalle, convolano. Gioia,
riscatto, speranza? Direste di sì, dato che son loro dedicati alcuni
fotogrammi a colori. Ma la didascalia, impietosa, specifica che
finiranno così insieme i giorni delle loro vite vuote, senza
accadimenti di rilievo. Insomma, in un modo o nell'altro siamo tutti
perduti. Speriamo almeno che, all'inferno che ci attende, la
programmazione cinematografica sia migliore.
PS: l'unica soddisfazione è che, al vedersi i primi 10 minuti o giù di lì, scoprirete cosa stava citando Tarantino all'inizio di Django, ovvero da dove venga il carretto col dentone d'oro. Poi, spegnete.
PS: l'unica soddisfazione è che, al vedersi i primi 10 minuti o giù di lì, scoprirete cosa stava citando Tarantino all'inizio di Django, ovvero da dove venga il carretto col dentone d'oro. Poi, spegnete.
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