sabato 9 marzo 2013

GREED - UN GRANDISSIMO STROHEIM

La perversione, è un fatto noto, qualora sia autentica e sostanziata da passione e non già (solamente) da noia, non conosce limiti: se, come direbbero certi acchiappafantasmi, piovono liquami allora nella perversione (lungi dal cercare ombrelle o riparo) ci si trova irresistibilmente a fare Singing in the Rain. Nel nostro caso conclamato di masochismo cinematografico non proviamo più sufficienti brividi al recensire filmetti degli incapaci mediocri d'oggidì; né ci sollazza totalmente il meritato insulto ai presunti grandi autori di quest'era. Vogliamo, no, necessitiamo di più e di peggio, e perciò trascendiamo le barriere della decenza e del tempo, nel tentativo di ricavare da antica pellicola un'emozione nuova: lo svelamento impietoso e la denuncia crudele delle brutture nascoste più spesso di quanto si creda (oh, gaudio!) nelle liste dei Capolavori del Cinema. Per esordire (in)degnamente scegliamo dunque un film epico, presenza fissa nelle Storie del Cinema, partorito da un autore il cui nome è, parimenti, leggendario: Greed (Rapacità), di von Stroheim. E siccome, appunto, siamo dei pervertiti da competizione, non ci accontentiamo della versione smozzicata e da donnicciole, quelle 2 ore e 20 che chiunque sarebbe capace di scollinare: ci piazziamo piuttosto a muso duro di fronte alla versione restaurata di quasi 4 ore. Per chiarire, le parti perdute sono rimpiazzate da fermo immagine (foto dal set) e commenti scritti: un tour de force amplificato, un tormento che ci proietta nell'abisso della sofferenza per esserne poi sputati rinfrancati e pronti alla pugna. Purificati non osiamo dirci, stante la tremenda mattonata al basso ventre: ma non vi inganniate, lettori. Qui non si tratta di artificioso fallimento, di ineluttabilità storico-artistica, di fotogrammi e parole che invano tentano di prendere il posto del grande cinema che fu perduto, e nell'inevitabile insuccesso risultano noiosi: no, qui si parla di un grandiosamente brutto film.

Tratto da un libro che, per carità!, non vi venga mai in mente di leggere (sul serio, le frasi prese dal testo per riempire gli spazi “vuoti” sono tremendissime imbellettature baroccate, morali di assoluta banalità e talvolta esempi di pura stupidità), Greed sarebbe un impietoso ritratto della debolezza umana, della mostruosità che la nostra specie esibisce per Cupidigia, racconto potente e fuori dal tempo. Così dicono le critiche dei grandi esperti della Settima Arte. Quello che omettono, malvagi, è che trattasi di film spietato sì, ma con lo spettatore. Stroheim (il “von” se lo scorda, alla fine della quarta ora) ci propina tutto e tutti, sembra incapace di operare tagli o scelte narrative (e se vi bevete la frottola che questa sia grandeur, addirittura genialità, buon per voi – noi però vi abbiamo avvisati: è solo un modo pessimo di narrare), racconta per filo e segno le gesta di innumerevoli disgraziati. Passino le presenze caricaturali (anche se spingono ai limiti le nostre capacità di sopportazione) in qualche modo giustificate da una loro relazione con chi dovrebbe incarnare principalmente la storia, l'apologo. Ma chiunque venga anche in minimo contatto con McTeague (un bruto dotato di forza erculea e cuore d'oro: per dire, quando un collega minatore maltratta il suo canarino, non esita un secondo a scaraventare il maleducato giù per un dirupo onde proteggere il pennuto) e Trina (giovane rampolla di una famiglia asburgica inspiegabilmente trapiantata in piena California) viene presentato per nome e storia personale. Più inutili sono, meglio è. Lo stillicidio sembra infinito nella prima parte dell'opera, tanto da far sorgere dubbi sull'effettiva convenienza di una visione integrale, ma poi ad onor del vero rallenta nella seconda metà: anche perché parte dei personaggi si autoelimina cominciando a schiattare in malo modo. Il fil rouge di tanta protervia elencativa (ribadiamo: non di narrazione si tratta, piuttosto di pagine gialle senza censure) sarebbe, par di capire, nelle misere vite di americani del 19mo secolo, incapaci quasi per natura di evolvere da creature meschine ed animalesche ad esseri umani moderni e felici. I tentativi in tal senso non mancano, e sono puntualmente destinati al fallimento (quando non alla morte violenta, che pure viene dispensata con liberalità): lo stesso McTeague offre lo spunto di partenza, emancipandosi (su istigazione della madre, ignorante montanara sposata ad un alcolista irredimibile ma dotata di un certo buon senso) dalla triste esistenza di minatore per andare a caccia di un futuro migliore. Nella fattispecie, esegue senza volerlo (e d'altronde ha la costituzione e l'acume di una bestia da soma, quindi la volontà come atto puro di pensiero gli è verosimilmente per sempre preclusa) l'estrazione a mani nude del dente cariato di una donzella e ciò lo porta non già a recitare in un numero di magia o ad invecchiare in carcere (come ci aspetteremmo) bensì ad iniziare una carriera da dentista. Trasferitosi in città e liberatosi dall'ombra del suo mentore (rivelatosi, toh!, un ciarlatano) egli parrebbe destinato alla felicità: incontra invece innumerevoli esemplari di umanità dolente e fisicamente ripugnante, e volentieri si adegua all'andazzo. L'elenco è lungo e tediosissimo (grazie di cuore, Stroheim!), si stagliano a nostro avviso la donna delle pulizie latina sposata con un tizio sicura testa di serie al prossimo campionato Uomo più Brutto del Mondo (per inciso lei è una mitomane che a giorni alterni racconta di chili d'oro sepolti da qualche parte in Messico per poi ritrattare, rendendo folle – di Cupidigia, ovvio – oltreché orrendo il marito) e la coppia non consumata di vegliardi che abitano in stanze attigue nell'affittacamere dove ha anche sede McTeague (si vede che all'epoca i dentisti prendevano meno), i quali si origliano vicendevolmente attraverso pareti di cartone per decenni piuttosto che dirsi “ciao” in pubblico (pudicizia d'antan).

La storia, per così dire, si incentrerebbe su McTeague e la sua ricerca di una vita migliore, ed i personaggi che incontra nel cammino – a partire dall'oggetto del suo amore, tale Trina Sieppe (sventurata ipertricotica cui viene scheggiato un dente per foga altalenistica dal cugino che tenta di sedurla e la porta, errore fatale!, a farsi curare dal suo amico Mac – tutto vero, giuro) di chiara e sfortunatamente esplicitata discendenza teutonica. Invariabilmente, tutti cadono vittima del desiderio di oggetti luccicanti, bruciano di passione per l'accumulo fine a se stesso di (assai relative) ricchezze e finiscono malissimo. Di epico vi sono le lungaggini, di innovativo praticamente nulla, di involontariamente buffo parecchio, di noioso quasi tutto. La rappresentazione è grandemente banale, i personaggi sono o divengono quasi tutti brutti & cattivi (non è chiaro se siano cattivi e quindi brutti o viceversa) e la gran trovata (a parte “mostrare la deformità di corpo e spirito”, abbiamo capito) sta nell'aver fatto colorare a mano parte dei milioni di fotogrammi (sicuramente manodopera minorile sottopagata) per far risaltare lo sbrilluccicante ORO (in sé o metaforico) che tutti bramano, ed in alcuni intermezzi con braccia e mani scarne che arraffano montagne di monete, monili e quant'altro, stile Gollum in casa de' Paperoni: non malaccio, ma decisamente troppo poco. Anche perché è a fronte di una regia piattissima – Stroheim non muove la cinepresa nemmeno sotto tortura, conosce solo due inquadrature (ne osa una terza, nei momenti clou) e insomma detto francamente sono più dinamici alcuni fermo immagine della maggior parte delle sequenze – e di una recitazione bambinesca. Trina, soprattutto, vittima di uno sfacelo psicosomatico progressivo, inarrestabile e fastidioso, si porta un dito alla bocca e mette lo sguardo a fuoco sull'infinito ogni volta che si ingrifa pensando ai soldi (e meno male che vince una lotteria, strada facendo!). Per chiudere in gloria: la sceneggiatura in quanto atto di sceneggiare, di adattare il libro al mezzo cinematografico, era evidentemente pratica sconosciuta o invisa all'autore. Stroheim pretendeva di non tagliare nulla (qualche benemerito ha amputato a più riprese le 9 ore originariamente messe insieme dal folle), di girare solo nei luoghi reali, di essere maniacalmente fedele ad un romanzo già “naturalistico”. Ma mettere in scena sciocchezze e sconcezze acriticamente (sul serio mi devo sorbire il fatto che Mac, per far scucire dei soldi alla tignosissima moglie, le morda le dita con espressione ebete? E, ad aggravare, che lei in seguito si veda amputare per questo mezza mano – non prima di averla colorata fugacemente di blu con variante sulla tecnica di cui sopra? Sul serio è un dramma imprevedibile, architettato da un malvagio antagonista il fatto che un analfabeta instauratosi in uno studio cittadino senza autorizzazioni o licenze e spacciantesi per odontoiatra faccia prima o poi incazzare la locale associazione dentisti?) e ancora filmare tutto senza filtri ma del pari senza invenzioni (di tecnica o di idee) non è, piaccia o meno ai santoni, fare grande cinema. E' a malapena fare cinema, a parer nostro. Una chiosa sulla morale proposta: gli unici immuni al desiderio irrefrenabile di possesso materiale sono i due vegliardi vicini di stanza di Mac. Essi, concludendo un corteggiamento silente durato decadi, infine cedono le poche proprietà di qualche valore e, dopo aver parlato una volta una ed abbondantemente pianto sulle rispettive spalle, convolano. Gioia, riscatto, speranza? Direste di sì, dato che son loro dedicati alcuni fotogrammi a colori. Ma la didascalia, impietosa, specifica che finiranno così insieme i giorni delle loro vite vuote, senza accadimenti di rilievo. Insomma, in un modo o nell'altro siamo tutti perduti. Speriamo almeno che, all'inferno che ci attende, la programmazione cinematografica sia migliore.

PS: l'unica soddisfazione è che, al vedersi i primi 10 minuti o giù di lì, scoprirete cosa stava citando Tarantino all'inizio di Django, ovvero da dove venga il carretto col dentone d'oro. Poi, spegnete.

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