Mai avremmo voluto scrivere su
questo blog di Paolo Sorrentino. Mai avremmo voluto ammettere che uno dei nostri
registi più talentuosi e spregiudicati, l’unico della presente
era che sarà ricordato anche al di fuori degli italici confini, è sprofondato
nella propria maniera, specchiandosi nell’abilità visiva e tralasciando ogni
scrupolo narrativo. Ma già dal titolo “La Grande Bellezza”, sua ultima fatica,
evoca presagi minacciosi. Si parla di Roma, sì, scenograficamente (e ben venga,
comunque, un autore che ne sfrutti una volta tanto il suo maestoso impatto
visivo), ma più in generale della capacità, di ogni essere umano, di cogliere
uno sprazzo di immensità fra le strettoie della quotidiana miseria. Tema non nuovo,
già indagato programmaticamente in “American Beauty”, ma qui filtrato
attraverso una “Dolce vita” di mezzo secolo più tardi, dopo “Cafonal” e il
botox, le febbrili appariscenze televisive e il desiderio di dimenare a più non
posso il corpo, a riempire la desolazione dello spirito.
Ha 65 anni Jep Gambardella,
protagonista della pellicola (interpretato, more solito magistralmente, da Toni
Servillo), giornalista di costume noto per un romanzo di successo di 40 anni
prima, mai più replicato, e abbastanza ricco da potersi concedere una residenza
con sconfinata terrazza vista Colosseo, dove organizza feste notturne a base di
discobar e disperazione. Vive da dandy disincantato, senza ambizioni se non
quella di eludere la noia, e con la sola compagnia, a casa, di una colf.
Per buona parte delle sue
giornate, assai più meridiane che mattutine, non fa che girovagare per le
strade della Capitale, a volte per lavoro, più spesso per svago, sfoggiando una
combinazione sempre diversa di spezzato, pochette e sigaretta a mezz’asta.
Conquista donne, anche senza volerlo. E l’unica che potrebbe complicargli la
trama, Ramona (un’ottima Sabrina Ferilli, finalmente recuperata al cinema, col
solo rammarico degli zigomi a palle da tennis, eredità dell’epoca-calendario),
se ne va a metà dell’opera.
Non gli succede nient’altro,
salvo condividere le tristezze altrui: per esempio quella dell’amico Romano,
drammaturgo fallito, a cui Carlo Verdone presta faccia e cliché della sua
versione più adulta, cioè l’uomo sensibile, insicuro e sconfitto che alla fine
si rassegna alle asprezze del mondo; oppure di Viola, madre di un ragazzo
problematico che finirà per suicidarsi, impersonata da una credibile Pamela
Villoresi. L’unica che sembra salvarsi, nella girandola di ordinari frustrati e
infelici che frequenta, è Dadina, la direttrice della rivista per cui lavora
(interpretata, per motivi oscuri, da una nana).
In mezzo a questo stiracchiato
incedere, Sorrentino piazza le consuete sciabolate di istantanee, carrellate e
scherzi di montaggio, qui particolarmente invadenti, vere primattrici, forse
vera dissimulata “bellezza” del film. Sono puro estetismo, per dire, la gita di
Servillo e Ferilli in un antico palazzo romano, rischiarato dal candelabro di
un custode fuori orario (fa molto “Paziente inglese”) o l’insistita, interminabile,
sequenza iniziale del party in terrazza. Ed è esagerato il richiamo, in varie
forme, alle figure delle suore, un’autentica ossessione, sublimata nel
personaggio finale della Santa, una centenaria “sorella” in visita a Roma, che
della fede in qualcosa di diverso dall’ordinaria mondanità dovrebbe essere
simbolo e sacrificio.
Alla fine, non si tratta di
un’opera corale (la solitudine è da sempre una cifra stilistica del regista) ma
nemmeno di una biografia, per quanto dolente: piuttosto, ed è la cosa più
triste da constatare, di un insieme di luoghi comuni sulla fine del primo
amore, sul passaggio del tempo, sull’inesorabile scacco a qualsiasi pretesa di
speranza. Il tutto, con l’aggravante di futili riferimenti a certi padri
spirituali: passi la citazione dell’introduzione al “Viaggio al termine della
notte” di Celine (che tuttavia parlava di guerra, schiavi e pezzenti, non di
feste altoborghesi) o il gratuito riferimento a Dostoevskij, ma davvero non si
comprende a cosa serva la chiusura di stampo heideggeriano sul chiacchiericcio
quotidiano che seppellisce la vera realtà, coi suoi patimenti e spasimi.
A Sorrentino, si sa, basterebbe
qualche immagine per dire tutto – ne è esempio lo splendido cortometraggio “La
partita lenta” – senza bisogno di cercare ad ogni costo la frase o il
personaggio ad effetto, spesso slegati dal contesto. Per questo fa rabbia
vedere che, accanto a trovate geniali, come la scelta di far interpretare a
Serena Grandi una debordante, sfatta frequentatrice dei ritrovi serali di Jep
(una specie di Anita Ekberg al contrario, per restare in tema felliniano),
venga totalmente sprecata la risorsa di Roberto Herlitzka, costretto alla
macchietta di un inutile prelato che ammorba gli interlocutori con ricette
della più varia risma.
Certo ci sono, come sempre,
alcuni momenti in grado di ripagare il biglietto: per esempio la strepitosa
performance del padre di Ramona, che imperterrito sgrana come ghiaia parole
sulla propria, e altrui, decadenza, oppure il ritorno del protagonista a casa del
marito della sua prima fidanzata, morta da poco, in cui, fatta conoscenza con
la nuova compagna dell'uomo, e con le loro banalissime abitudini serali
(televisione e a letto), esclama partecipe: “che belle persone che siete”, in
puro stile “Amico di famiglia”. Ma non basta, se tutto il resto non va oltre un vago, benché reiterato, riferimento alla morte. E se non era richiesta la
profondità della “Notte” di Antonioni, controcanto lugubre alla “Dolce vita”,
quantomeno era lecito aspettarsi maggior coraggio e umanità. Ossia, più semplicemente,
il contenuto.
Giudizio: KK
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