giovedì 19 marzo 2009

Film bello dell'anno - Gran Torino

di Ray Stantz

L'hanno detto tutti, lo facciamo anche noi. Sergio Leone, decenni fa, disse che Eastwood aveva due espressioni: con cappello e senza. Verissimo, all'epoca. Nel frattempo l'allora giovane (nemmeno poi tanto, per gli standard Hollywoodiani – soprattutto per quelli odierni) Clint è diventato un'icona a pieno titolo, la sua presenza riempie (“buca”, si dice) lo schermo senz'altro dover aggiungere, la sua non è più mono – o bi – espressività ma recitazione minimale, comunica a livello basilare (animale, nel senso che è prossimo alla parte più istintiva, irrazionale e vera di ogni essere umano) in un modo/mondo privato, fatto di sguardi sbiechi, gesti taglienti e tagliati, parole smozzicate. Quel che è più sorprendente è come l'attore, il divo, sia divenuto un cineasta sublime. Un film-maker, facitore di opere cinematografiche, con la compostezza, l'eleganza, la maestria dei classici. Eppure capace di toccare, trattare, affrontare di petto temi fondamentali ed attualissimi. Le sue ultime prove da regista ne sono costante ed inoppugnabile testimonianza. Stavolta tocca di nuovo i livelli massimi, ed è una gioia darne testimonianza.

Raccontare “la storia” pare quasi uno sgarbo all'autore e ai lettori. Che sono avvisati: se perdono questo film, non faranno altro che danneggiare se stessi. Ma la trama, dopotutto, è cosa minore. Storia di violenza, molto. Passata e presente, fuori scena o illustrata in modo secco (ma mai gratuito). Storia di persone, di esseri umani – diversi eppure tremendamente simili. Che parte dal melting pot americano e si (e ci) trasporta nel presente di tutti noi con efficacia vertiginosa ed inevitabilmente toccante. Storia di un uomo solo, alla fine della propria vita. Colmo di rabbia e soprattutto di dolore, di sfiducia e pregiudizi – tutto evidente, sbattuto in faccia. Ma anche “un brav'uomo”, come lo apostrofa una ragazza, una vicina di casa cinese (di etnia hmong, per l'esattezza), una delle persone che – per puro accidente del caso – si trova ad instaurare un rapporto con lui. Un rapporto che nessuno desiderava, che appariva impossibile principalmente per volontà delle parti in causa. E che pure nasce e cresce, in modo vero, vivo. E serve a mostrare un po' alla volta quest'uomo malato, stanco ed arrabbiato (inferocito, anzi, col mondo intero) eppure pieno di vita, di forza, di insegnamenti da offrire. Ed assieme a lui a mostrare il mondo che lo circonda, le persone così stranamente e repentinamente vicine seppur all'apparenza condannate in eterno ad essere distanti.

Un giovane entra per caso, e nel peggiore dei modi, nella vita di un uomo impossibile da avvicinare. Che ne diviene il mentore, la figura paterna (e grazie, mille volte grazie a chi lo dice apertamente, in dialogo, invece che autocompiacersi di sottintesi ridicoli e patetici ritenendosi profondo e sottile). Lo aiuta sulla strada della crescita, del divenire adulto (“devi imparare come parla un vero uomo”), e lotta per proteggerlo dalla violenza insensata e distruttiva che ne contamina la vita – sotto forma di una gang di strada che lo vorrebbe reclutare per la lotta tra “razze” nelle strade di quartiere. L'impossibile accade, ed in modo semplice e concreto. Il ragazzo si vuole redimere (per cosa in fondo da poco, il tentato furto – peraltro impostogli dalla gang come prova iniziatica – della preziosa auto di Clint, la Ford Gran Torino del titolo) e coglie l'occasione per fare molto molto di più: divenire adulto, superare i propri limiti, crescere e vivere. Il vecchio scopre di avere ancora tanto, tantissimo da dare agli altri e di poterne gioire. Ed infine, di poter redimere anche se stesso da una violenza infinita e per sempre bruciante nella sua anima, anche se lontana nel tempo (la guerra in Korea). In mezzo, i rapporti definitivamente guasti con i propri figli e la seconda chance rappresentata da un “muso giallo” senza padre. L'orrenda, sanguinaria stupidità delle lotte di quartiere che si fonda su razzismo, ignoranza, mancanza di valori. Un prete che fa (acuta osservazione di Egon) da contrappunto ai pensieri ed ai sentimenti del vecchio, quasi fosse un coro greco, comparendo solo ed esclusivamente quando opportuno. L'orgoglio e la forza d'animo di chi ha lottato per una vita ma non ha per questo voglia di smettere di farlo – e quelli di chi la chance di lottare non l'ha mai avuta ma, se ha l'opportunità di provare a guadagnarsi una vita migliore, non si tira indietro.

Eastwood carica al 110% il proprio personaggio più classico, che sia il pistolero senza nome degli spaghetti western o Dirty Harry Callahan – e lo fa con autoironia e forza, con cinismo solo in superficie ma con grande e profonda umanità. Domina la scena ma quasi in astratto da tanto è stilizzato. Ha il coraggio, lo stile ed il controllo per affrontare temi nuovi senza cadere nel banale. Parla di (e talvolta con) odio e violenza ma riempie lo schermo di ondate di speranza. Osa mettere in scena sacrificio e redenzione senza mai rischiare il ridicolo. Lascia un monito, una lezione, un messaggio di amore per quel che possiamo essere se non cediamo al nostro lato oscuro – soprattutto quando ci sentiremmo moralmente giustificati a farlo (e qui stupisce, e qui conclude in grandezza un affresco già potente).

Ecco, se i film fossero tutti così non servirebbe questo blog. Ce ne staremmo beati un paio d'ore al giorno a vedere l'arte che si mescola alla vita e ci stimola ed ispira in una sala cinematografica. Purtroppo così non è. Le recensioni, e le distinzioni, servono. Eccome. Perciò, consigliamo: non vi perdete questo film. Se anche fosse l'ultimo di Clint (e preghiamo che così non sia!), dimostrerebbe che a volte un testamento può essere bello, prezioso, luminoso come una vita intera.

sabato 7 marzo 2009

Watchmen

L’alibi è sempre lo stesso: “è identico al fumetto”. Come se la fedeltà all’originale (ammesso che possa realmente esistere) fosse di per sé un pregio, e assolvesse un film tratto da una graphic novel, cult o meno che sia, da ogni critica. Perché, parliamoci chiaro: non amiamo le vignette (salvo quelle di "Topolino", da piccoli) e non conosciamo la serie. Però andiamo al cinema, e ci aspettiamo di vedere un’opera che non si rivolga soltanto agli addetti ai lavori.
Sbagliamo, senz'altro. E nutriamo false speranze. Anche sul regista, Zack Snyder, che in “300” non ci era dispiaciuto, benché l’operazione fosse apparentemente analoga a questa. Ma ve lo diciamo subito: “Watchmen” si merita le nostre ire, per tutta una serie di ragioni.

Anzitutto, è troppo lungo. 2 ore e 43 minuti di immagini sono buone per un kolossal, non certo per un gioco a base di pupazzi. Poi, è sbilanciato. Preoccupato di illustrare le biografie di alcuni dei protagonisti (un manipolo di supereroi americani in piena era Nixon, prolungata al 1985 e spalancata su un conflitto nucleare con l’Unione Sovietica), perde spesso di vista la trama. Inoltre, è volgare: nella psicologia dei personaggi, tagliata con l’accetta, e nell’esposizione della violenza, efferata e gratuita.

Non bastasse, c’è pure un uso barbaro delle musiche: una compilation di capolavori sparsa come il peggior mangime per il pubblico. Passi per “The times they are a-changin’” della sigla iniziale (peraltro straniante, per un neofita della vicenda) o per l’inserto di “All along the watchtower”, ma ridurre “Hallelujah”, per di più nella versione di Cohen, a sfondo porno-soft la dice lunga sulla pochezza culturale dell’insieme.

A conti fatti, l’unico che s’interroga davvero sul male è Rorschach, antieroe che va in giro in trench, cappello e sudario maculato, che spogliato di costume si rivela un conservatore di ferro, dal ghigno irlandese poco rassicurante, ma una qual certa coerenza. E che non a caso, alla fine, si fa disintegrare, più per disperazione che per spirito sacrificale. Gli altri idoli, invece, sono una desolante sequela di banalità: su tutti il superuomo blu privo di iridi (Dottor Manhattan) risultato del solito, terribile, incidente in un centro di ricerche, che divenuto semidio si stanca delle umane sorti ritirandosi su Marte, con tanto di insopportabili solipsismi filosofici. Poi, sulla stessa linea, il Comico, una sorta di deriva vivente del sogno americano, che stupra e uccide con lo smile appuntato al petto (memorabile la scena in cui spara alla donna incinta di lui, rimproverando poi Manhattan di non averlo fermato), oltre a generare la nuova eroina Spettro di seta, concupita prima dal superuomo poi da Gufo Notturno, un Batman dei poveri con l’indole da contabile.

La storia non serve dettagliarla: i Watchmen, custodi mascherati dell’ordine americano e quindi mondiale (avevamo bisogno di un altro sfondo imperialista, grazie), vengono esautorati, perché scomodi, da un decreto di Nixon e ridotti all’anonimato. Uno di loro (Ozymandias), però, cova progetti di dominio universale, e comincia a liberarsi di nascosto degli ex colleghi prima di dare corso alla sua nuova, originalissima, idea: scatenare l’Apocalisse su New York, e incolpare il Manhattan di cui sopra, onde creare una concordia nel mondo tra le potenze nemiche contro di lui. Il progetto, almeno inizialmente, riesce, col beneplacito del capro espiatorio, che abbandona per sempre la Terra, e l’uccisione di Rorschach, che preferisce la propria morte alla rivelazione della verità. Sarà un suo diario postumo, finito nella redazione di un giornale, ad occuparsene.

Annotiamo a margine alcuni episodi che, benché forse importati dal fumetto, troviamo inesorabilmente ridicoli, tipo:

- Il Dottor Manhattan che atomizza tranquillamente dei Vietcong girando in sospensorio (nella vita privata, invece, la regia ci propina la versione “nature”. Come a dire: sterminare sì, ma discreti);
- Il Comico che fredda Kennedy dalla prospettiva Zapruder;
- Kissinger che confida terreo a Nixon (fra l’altro, identico alla relativa maschera di "Point Break"), poco dopo l’attacco di Ozymandias, “non sono stati i russi”.

Concludendo. Se andate a vederlo, non aspettatevi l’universo alternativo alla Gotham city, nè la saga fantapolitica di "V for Vendetta". "Watchmen" è tutte queste cose e niente. Ma con una distinta preferenza per niente.

LA SCHEDAWatchmen

In una frase:
“mi hanno detto che eri su Marte”
Sconsigliatissimo: a chiunque pensi che gli eroi in costume non siano necessariamente sinonimo di carnevale.
Giudizio: KKKK