mercoledì 27 febbraio 2013

ZERO DARK THIRTY (UN PO' TARDI, ARRIVA ANCHE LA MIA)

Kathryn Bigelow è una regista di film d'azione generalmente per nulla disprezzabili. La precedente definizione serve a sottolineare come, benché svolgendo vari temi e quindi ad un'analisi superficiale prestandosi all'idea di aver attraversato vari generi, ella ha sempre unicamente fatto ricorso alla regia da film d'azione. Montaggio, movimenti di macchina, inquadrature: tutto è sempre fedele alla stessa grammatica: ed anche se i risultati variano in qualità (alcune punte di gran divertimento, altri momenti più dimenticabili) senza dubbio si riscontrano coerenza e padronanza del mestiere. Quanto testé detto riassumeva la sua carriera fino ad un paio di anni fa, allorquando le capitò la disgrazia di dirigere un film più bello ed originale: The Hurt Locker. Tale produzione, premiata altresì dalla critica, si distingue dalle precedenti per l'uso del reale come elemento di sceneggiatura, per l'aver imperniato la trama sull'analisi psicologica dei personaggi (semplice, in quanto si tratta di esseri anomali e quasi costituiti da un solo tratto caratteriale: ma pur sempre di approfondimento e riflessione psicologica si tratta) e per la scelta di adattare lo stile (che rimane quello del film d'azione, ma per la prima volta in tutta la sua carriera esula dal confine del fantastico) alla storia e non viceversa, in una ricerca della spettacolarizzazione del realismo e dell'attualità che è risultata interessante e (almeno nel panorama del cinema occidentale contemporaneo) innovativa. In seguito a ciò, la poveretta si è (pare) convinta di potere o forse dovere segnare il proprio cinema in tal senso, e purtroppo univocamente in tal senso: si è magari persuasa di avere una nuova, efficace freccia al proprio arco e di saperne trarre risultati che fossero appaganti al botteghino ed al vaglio dei critici, completando così un canonico en plein nel suo cuore di regista. Il parto più recente di questo mostruoso processo è il film, inevitabilmente deforme (pluri-candidato agli Oscar e però, lietamente, pauci-premiato), intitolato Zero Dark Thirty.

Trattasi, purtroppo non per caso, della spettacolarizzazione della caccia ed infine la cattura (meglio: l'uccisione) di Osama bin Laden ad opera di una task force della CIA (con al centro una roscia dal carattere di ferro ed una vita privata di tipo cimiteriale) coadiuvata da alcuni muscolari dotati di ogni sorta di diavoleria elettronica onde performare l'assalto al buio. L'opera è spezzata, composta com'è da una lunga prolusione fatta di tutte le pallosissime fasi di indagine, ricerca, frustrazione, lotta coi superiori ottusi (condire con l'occasionale attentato dinamitardo, mescolare male, servire tiepido) a cui viene poi appiccicata una mezz'ora finale di sequenze di azione in stile documentaristico-spettacolare - evoluzione dello stesso Hurt Locker e rialzo sulla puntata di allora dato che non si tratta più “solo” della guerra ma della missione che elimina il capo dei cattivi in persona. Ci sarebbe di che criticare diversi aspetti della pellicola, e da ammorbare con un racconto di epica lungaggine sullo svolgimento della ricerca (lo fa la Bigelow, non lo posso fare io?) ma ci accontentiamo in questa sede (generosità, nostro grande vizio) di tratteggiare i greatest hits:
  • la complessità del carattere dei vari personaggi è totalmente e disperatamente assente: nessuno ha una personalità, nessuno evolve, tutti sono prevedibili e squadrati dal primo all'ultimo istante, esseri immutabili e noiosissimi (un Pantheon del rimbambimento, tipo);
  • la rossa cacciatrice, in particolare, non ha altro nella vita a parte il lavoro: che non presenta esattamente molte occasioni di socializzare, ma insomma dandosi un po' da fare, magari con lo speed-dating o altro...
  • piange, però, quando han fatto fuori il Male impersonificato (un vecchio barbudo e mal vestito che vive rinchiuso in una villa bunker ma assai poco lussuosa in mezzo a dei contadini in Pakistan, per la cronaca) e le chiedono dove voglia esser trasportata ora: realizza, sospettiamo, di non avere mai dato da mangiare al gatto in un decennio;
  • le scene coi corpi speciali che vanno a tanare bin Laden saranno anche belle e realistiche e fatte con dispendio di mezzi ma (a parte che fa venire un po' il mal di mare il continuo passare dalla visione verdina degli occhiali hi-tech al semibuio delle riprese “oggettive”) presentano alcuni momenti di sommo ridicolo involontario: ne scegliamo due
  1. dopo esser giunti nel bel mezzo di un paese straniero con un intero gruppo d'assalto su due elicotteri (stealth, però, quindi anche se volano a 20 metri dal suolo in una città nessuno li nota) i nostri eroi pensano bene di schiantarne uno nel giardino della villa del Signore del Male: non si sveglia nessuno, salvo una capra;
  2. una volta penetrati nel villone-bunker, i buoni in mimetica debbono trovare i residenti e ridurli al silenzio: nel dubbio, sparano e poi chiedono chi-va-là (cowboys, tipico) ma poi, per stanare i più coriacei, si inventano uno stratagemma diabolico: li chiamano per nome nel cuore della notte dopo aver ammazzato a fucilate 5 o 6 dei loro cari. Eccezionale la scena in cui l'esecutore materiale della Giustizia Americana cerca di ingannare il diabolico bin rintanatosi all'ultimo piano della torretta del Male (mini-Mordor, per capirsi) chiamando il suo nome al buio “Osama! Osama!” - il malvagissimo sovrumanamente resiste all'impulso di presentarsi al carnefice gridando “son qua, cazzo!” ma, ahilui, mentre tenta di deambulare rapidamente al buio viene scoperto ed impallinato. Game over, iniziate il prossimo livello.

Nel complesso, un film con grandi debolezze, pochi aspetti convincenti (prettamente di natura tecnica), sventurate cadute nel buffo e, soprattutto, poco o nulla da dire. Avessero dato un oscar di quelli grossi a questo, c'era speranza per tutti.

domenica 10 febbraio 2013

Zero Dark Thirty

Amiamo Katryn Bigelow dai tempi di "Blue steel" e "Point Break" e ci dispiace parlarne male, ma la sua ultima fatica, "Zero Dark Thirty", è, almeno per due terzi (salviamo la mezz'ora conclusiva), di una noia mortale. Certo, il tema della cattura e uccisione di Osama bin Laden è roba da maneggiare con cura (non a caso non lo si vede mai in faccia, nemmeno dopo la morte: se ne colgono solo i tratti essenziali, come la barba lunga), ma la scelta di farci un film implica comunque delle responsabilità cinematografiche: per esempio girare un documentario, o invece una fiction tout court, ma non, ecco, l'amorfa messa in scena, pencolante tra action e reportage, servitaci qui.
Si ha la continua sensazione, assistendo all'inesorabile sgranarsi di torture, agguati e intercettazioni, che, non potendo affrontare di petto la questione – tuttora sostanzialmente top secret, twittate dei vicini di casa a parte – del raid di Abbottabad, Bigelow se ne sia tenuta in disparte, preferendo approfondire, piuttosto, il funzionamento dei servizi segreti. E tuttavia, non disponendo degli scenari metropolitani che fecero grande Pakula (le location sono mediorientali e polverosissime), né di particolari possibilità registiche (il montaggio deve fare i conti con l'ingombrante proliferare dei dialoghi), si sia limitata a svolgere un compito diligente e privo di rischi (esemplare, in tal senso, un banalissimo dialogo tra addetti ai lavori sull'incidenza della religione nel conflitto tra i popoli, fuoriuscito direttamente dal più frusto immaginario collettivo).
Il risultato è, prevedibilmente, un insieme disorganico e indeciso, che affligge la stessa trama: per buona parte della vicenda, pare che l'unica ossessione della protagonista, la diafana funzionaria Maya (un'estenuata Jessica Chastain), inviata dalla CIA in Pakistan, sia la cattura di tale Abu Ahmed, uno dei principali accoliti della rete di bin Laden, poi però, non appena la faticosissima ricostruzione di facce, sospetti e indizi porta la nostra a scovare il nascondiglio del re del terrore, ecco che la storia vira decisa sul contrasto tra lei e l'apparato centrale, restio ad organizzare la retata definitiva, visto il decennio di inseguimenti falliti alle spalle.
In compenso, lo spettatore è già da tempo caduto sul campo, costretto com'è stato a sorbirsi per due ore buone l'ostensione integrale di tutta l'attività giornaliera di spionaggio: la detective, e non solo lei, istupidisce a guardarsi quintali di vhs, matura un paio di occhiaie da competizione, assiste atterrita, e a volte partecipa, agli umilianti interrogatori dei sospettati, si sciroppa un'interminabile serie (ci sono ellissi, ma si intuisce l'andazzo) di false piste, “errori umani” e scetticismi dei superiori, non demordendo mai.
Si è quasi grati anzi che, più o meno a cavallo dei due tempi, Bigelow si ricordi di essere una regista e movimenti lo scenario, e la nostra catalessi, con un paio di esplosioni: la prima, molto riuscita, è l'attentato al Marriott di Islamabad, che sorprende Maya e la collega Jessica (Jennifer Ehle, caratterizzata da un perenne, incomprensibile entusiasmo) nell'unica conversazione sull'inesistente vita privata della protagonista di tutto lo script. La seconda è l'autobomba scoppiata alla base americana in Afghanistan, che se non altro toglie di mezzo la sovreccitata di cui sopra, a tal punto felice di torchiare il terrorista di turno da chiedere improvvidamente alle vedette di non disarmarlo.
Non va meglio, peraltro, con l'ulteriore collega di Maya, Dan (un divertito Jason Clarke), che esordisce scamiciato e barbuto maltrattando un arabo riluttante alla confessione e tiene banco con sevizie assortite per un tempo intero, salvo poi, di punto in bianco (più o meno quando gli ammazzano le scimmie con cui era solito condividere il gelato), tornare alla base elegante e rasato. Sparirà sostanzialmente dal film, tranne una puntata a Kuwait City, nuovamente scamiciato e barbuto, per convincere uno sceicco a scambiare una Lamborghini con preziose informazioni.
Nel mentre, Jessica Chastain ha sperimentato ogni sorta di disagi en travesti - parrucche, pashmine, chador - ed è pure sfuggita rocambolescamente a un attentato, ma nonostante tutto è ancora costretta a pugnare col corpulento, e stolido, direttore CIA (un James Gandolfini parecchio idiota) per convincerlo ad organizzare l'attacco al bunker di bin Laden. Memorabile, in questo senso, l'astuto suggerimento del capoccia per monitorare la presenza del fuggitivo: posizionare una telecamera su uno degli alberi di fronte al compound, talmente brillante che financo l'ultimo dei sottoposti glielo cassa senza pietà.
Alla fine, dopo che Maya ha quotidianamente scarabocchiato i vetri dell'ufficio del suo superiore col numero dei giorni di attesa per il fatidico raid, questi si decide a muovere il culo delle forze speciali e ci fa respirare, se non altro, una mezz'ora di cinema a visore notturno degna dell'autrice. Ma non basta a giustificare un'operazione che, per certi versi, sembra una lastra al negativo del suo bellissimo predecessore The hurt locker. Lì, non c'erano troppe paturnie geopolitiche e del contesto, anziché un trito resoconto, si faceva vero e proprio campo di battaglia, con tanto di tensione e montaggio serratissimi. Per bin Laden meglio ripassare, magari convocando Michael Moore.

Giudizio: KKk