Kathryn
Bigelow è una regista di film d'azione generalmente per nulla
disprezzabili. La precedente definizione serve a sottolineare come,
benché svolgendo vari temi e quindi ad un'analisi superficiale
prestandosi all'idea di aver attraversato vari generi, ella ha sempre
unicamente fatto ricorso alla regia da film d'azione. Montaggio,
movimenti di macchina, inquadrature: tutto è sempre fedele alla
stessa grammatica: ed anche se i risultati variano in qualità
(alcune punte di gran divertimento, altri momenti più dimenticabili)
senza dubbio si riscontrano coerenza e padronanza del mestiere.
Quanto testé detto riassumeva la sua carriera fino ad un paio di
anni fa, allorquando le capitò la disgrazia di dirigere un film più
bello ed originale: The Hurt Locker. Tale produzione, premiata
altresì dalla critica, si distingue dalle precedenti per l'uso del
reale come elemento di sceneggiatura, per l'aver imperniato la trama
sull'analisi psicologica dei personaggi (semplice, in quanto si
tratta di esseri anomali e quasi costituiti da un solo tratto
caratteriale: ma pur sempre di approfondimento e riflessione
psicologica si tratta) e per la scelta di adattare lo stile (che
rimane quello del film d'azione, ma per la prima volta in tutta la
sua carriera esula dal confine del fantastico) alla storia e non
viceversa, in una ricerca della spettacolarizzazione del realismo e
dell'attualità che è risultata interessante e (almeno nel panorama
del cinema occidentale contemporaneo) innovativa. In seguito a ciò,
la poveretta si è (pare) convinta di potere o forse dovere segnare
il proprio cinema in tal senso, e purtroppo univocamente in tal
senso: si è magari persuasa di avere una nuova, efficace freccia al
proprio arco e di saperne trarre risultati che fossero appaganti al
botteghino ed al vaglio dei critici, completando così un canonico en
plein nel suo cuore di regista. Il parto più recente di questo
mostruoso processo è il film, inevitabilmente deforme
(pluri-candidato agli Oscar e però, lietamente, pauci-premiato),
intitolato Zero Dark Thirty.
Trattasi,
purtroppo non per caso, della spettacolarizzazione della caccia ed
infine la cattura (meglio: l'uccisione) di Osama bin Laden ad opera
di una task force della CIA (con al centro una roscia dal carattere
di ferro ed una vita privata di tipo cimiteriale) coadiuvata da
alcuni muscolari dotati di ogni sorta di diavoleria elettronica onde
performare l'assalto al buio. L'opera è spezzata, composta com'è da
una lunga prolusione fatta di tutte le pallosissime fasi di indagine,
ricerca, frustrazione, lotta coi superiori ottusi (condire con
l'occasionale attentato dinamitardo, mescolare male, servire tiepido)
a cui viene poi appiccicata una mezz'ora finale di sequenze di azione
in stile documentaristico-spettacolare - evoluzione dello stesso Hurt
Locker e rialzo sulla puntata di allora dato che non si tratta più
“solo” della guerra ma della missione che elimina il capo dei
cattivi in persona. Ci sarebbe di che criticare diversi aspetti della
pellicola, e da ammorbare con un racconto di epica lungaggine sullo
svolgimento della ricerca (lo fa la Bigelow, non lo posso fare io?)
ma ci accontentiamo in questa sede (generosità, nostro grande vizio)
di tratteggiare i greatest hits:
- la complessità del carattere dei vari personaggi è totalmente e disperatamente assente: nessuno ha una personalità, nessuno evolve, tutti sono prevedibili e squadrati dal primo all'ultimo istante, esseri immutabili e noiosissimi (un Pantheon del rimbambimento, tipo);
- la rossa cacciatrice, in particolare, non ha altro nella vita a parte il lavoro: che non presenta esattamente molte occasioni di socializzare, ma insomma dandosi un po' da fare, magari con lo speed-dating o altro...
- piange, però, quando han fatto fuori il Male impersonificato (un vecchio barbudo e mal vestito che vive rinchiuso in una villa bunker ma assai poco lussuosa in mezzo a dei contadini in Pakistan, per la cronaca) e le chiedono dove voglia esser trasportata ora: realizza, sospettiamo, di non avere mai dato da mangiare al gatto in un decennio;
- le scene coi corpi speciali che vanno a tanare bin Laden saranno anche belle e realistiche e fatte con dispendio di mezzi ma (a parte che fa venire un po' il mal di mare il continuo passare dalla visione verdina degli occhiali hi-tech al semibuio delle riprese “oggettive”) presentano alcuni momenti di sommo ridicolo involontario: ne scegliamo due
- dopo esser giunti nel bel mezzo di un paese straniero con un intero gruppo d'assalto su due elicotteri (stealth, però, quindi anche se volano a 20 metri dal suolo in una città nessuno li nota) i nostri eroi pensano bene di schiantarne uno nel giardino della villa del Signore del Male: non si sveglia nessuno, salvo una capra;
- una volta penetrati nel villone-bunker, i buoni in mimetica debbono trovare i residenti e ridurli al silenzio: nel dubbio, sparano e poi chiedono chi-va-là (cowboys, tipico) ma poi, per stanare i più coriacei, si inventano uno stratagemma diabolico: li chiamano per nome nel cuore della notte dopo aver ammazzato a fucilate 5 o 6 dei loro cari. Eccezionale la scena in cui l'esecutore materiale della Giustizia Americana cerca di ingannare il diabolico bin rintanatosi all'ultimo piano della torretta del Male (mini-Mordor, per capirsi) chiamando il suo nome al buio “Osama! Osama!” - il malvagissimo sovrumanamente resiste all'impulso di presentarsi al carnefice gridando “son qua, cazzo!” ma, ahilui, mentre tenta di deambulare rapidamente al buio viene scoperto ed impallinato. Game over, iniziate il prossimo livello.
Nel
complesso, un film con grandi debolezze, pochi aspetti convincenti
(prettamente di natura tecnica), sventurate cadute nel buffo e,
soprattutto, poco o nulla da dire. Avessero dato un oscar di quelli
grossi a questo, c'era speranza per tutti.