giovedì 20 gennaio 2011

Hereafter

Clint Eastwood è un grande regista. Lo è perché ha diretto film come "Mystic River", "Million Dollar Baby", "Gran Torino". Lo è perché si è interrogato sulla condizione umana con uno stile limpido, netto, spietato. E lo è, ancora, perché è riuscito a costruirsi una seconda carriera, dopo quella già celebrata di attore, senza che potesse più dirsi che disponeva solo di due espressioni: col cappello e senza.
Anche noi, su questo blog, ne abbiamo parlato in termini encomiastici (per "Gran Torino", appunto), tanto che avevamo avuto l’idea di creare un altro sito, speculare a “Prima ti guardo”, e dedicato solo a film belli, in cui al posto dei Kevin avremmo utilizzato come unità di misura i Clint (progetto poi naufragato perché, come noto, è molto più interessante scrivere recensioni cattive che buone).
È per questo che dispiace constatare che anche Eastwood, pur in un momento d’oro della propria carriera, inciampa. E mette insieme un film banale, vuoto, trito. "Hereafter", infatti, nonostante le lodi del solito criticume corrivo, è un’opera che non dice nulla, ma proprio nulla, del tema di cui dovrebbe parlare. Che non è, come si potrebbe pensare dal titolo, il tanto decantato Aldilà, la vita dopo la morte eccetera, ma semmai il rapporto degli esseri umani con questa possibilità. Tutto il film, infatti, ruota attorno al problema, ma non arriva mai all’auspicato nocciolo della questione, restando tristemente - e insolitamente - ancorato alla superficie del racconto.
Tre i personaggi implicati: un sensitivo (Matt Damon, piuttosto credibile) che detesta comunicare coi morti, una giornalista (Cecile De France) che esperisce l’hereafter durante il celebre tsunami del 2004, poi risvegliandosi sconvolta, e un bambino (Frankie McLaren) che perde il fratello gemello e cerca disperatamente di rimettersi in contatto con lui. Alla fine, tutti si incontreranno, con una mossa alla Kieslowsky (lo stampo dell’operazione è dichiaratamente europeo per ritmi e situazioni) che chiude la storia, e anche le speranze dello spettatore.
Perché, sia detto chiaramente, ricorderemo questo film solo per i primi dieci, impressionanti, minuti, in cui al computer è ricostruita la furia dell’onda anomala che squassò la Thailandia, quasi a svelare dall’interno, attraverso la finzione, quanto centinaia di telegiornali non erano riusciti a riprendere dal vivo: le case sventrate, la vegetazione distrutta, i corpi in balìa della corrente insieme ai pezzi della normalità perduta (mentre Cecile De France è in coma sott’acqua, i suoi occhi sbarrati fissano un orsacchiotto di peluche). Fu così anche per lo sbarco in Normandia di "Salvate il soldato Ryan" (venti minuti viscerali, mostruosi, prima di un onesto pistolotto antibellico) o, sempre in campo spielberghiano, l’attacco del Tripode nella "Guerra dei Mondi", un 11 settembre fantascientifico di una manciata di inquadrature, che si annacqua in seguito nell’ennesima disfida con gli alieni.
Promesse mancate, cinema a perdere. Qui non comprendiamo perché, per il sensitivo, percepire gli spiriti dei defunti sia una condanna, anziché un dono, tanto da spingerlo ad abbandonare la fama da medium per una semplice esistenza da operaio, o quale oscura fascinazione induca la reporter a scrivere un libro sull’Aldilà invece del saggio su Mitterrand pattuito con la sua casa editrice. Né siamo abbastanza partecipi della spinta ossessiva che muove il bimbo di cui sopra, orfano del fratello (e della madre tossica, finita in un centro di assistenza), a cercarlo disperatamente in ogni dove, indossandone il cappello, venendone addirittura salvato, in chiave deus ex machina, da un attentato in metrò (Londra, 2005: c’è una certa attenzione all’attualità). E ci risulta abbastanza indifferente, in definitiva, lo stesso happy end, col bimbo che finalmente si mette in contatto col caro estinto attraverso il medium, ricompensando quest'ultimo col recapito della giornalista, l'unica ad aver avuto esperienze analoghe alle sue e dunque, ci viene suggerito, in grado di innamorarsene.
È storia, a conti fatti, di solitudini, incomprensioni, disperati tentativi di esprimersi. Ma senza il necessario dolore che dovrebbe accompagnarla. E con tutta una serie di didascalismi evitabili: la ridda di ciarlatani conosciuta dal bambino nelle sue peregrinazioni medianiche, la dottoressa esperta di hereafter che fornisce alla giornalista il materiale per il libro, la lunga sequenza della scuola di cucina italiana frequentata da Damon per rimorchiare, con cuoco pingue e opera lirica in sottofondo. In più, col buco di sceneggiatura in cui scompare l’iniziale fidanzato della De France, con lei in albergo qualche minuto prima dello tsunami, e subito dopo salvo per qualche inspiegato miracolo.
Quanto all’Aldilà, è rappresentato in modo innocuo, con una sorta di sfondo cupo su cui si stagliano, diafane, le figure dei morti: non era l’argomento centrale, è sufficientemente stereotipato.

LA SCHEDA
Hereafter
La frase: “E’ perfino peggio di 'Invictus', mammamia”
Sconsigliatissimo: a chiunque cerchi un film sulla morte, a chiunque cerchi un film sulla vita, a chiunque cerchi un film di Clint Eastwood.
Giudizio: KKK

martedì 18 gennaio 2011

A grande richiesta: The tourist


Non era quello che volevamo scrivere, sembrava troppo banale e scontato. Soprattutto, non ci era dispiaciuto così tanto. Ma non c’è amico, conoscente o sconosciuto che non ci fermi per la strada e dica: “'The tourist' fa schifo”. Allora, appare pressoché inevitabile parlarne. Male, ovviamente. Perché, intendiamoci: così brutto forse no, ma bello nemmeno. E con un sacco di spunti che sarebbe un peccato trascurare.
Patti chiari, però: non di recensione si tratta, ma di semplice commento. Perché qui non si scrive a richiesta ma per missione. Se no che rubrica di servizio è?
Dunque, dicevamo: "The tourist". Anzitutto, è una spy-story, gusto retrò, protagonisti glamour. Perfetta per gli anni ’50, non eccessivamente modernizzata dal cast. Funziona nei limiti in cui, come tutti i film di questo tipo. E, botteghino a parte, dispiace sicuramente di più agli spettatori italiani (veneziani in particolare) perché, as usual, sfrutta a man bassa la location, senza preoccuparsi troppo della verosimiglianza, come del resto sarebbe avvenuto, mezzo secolo fa, con qualsiasi scenografia cartonata.
Ecco, il cartone. Ce n’è parecchio in questo film, a cominciare dai ristoranti: chi ha mai rivenduto come specialità tipica di Venezia il risotto scampi e champagne? E se si può convenire sul fatto che far masticare ad Angelina Jolie risi e bisi non sia il massimo dello chic, tuttavia nessuno ha chiesto al regista Florian Henckel von Donnersmarck (che, sembra incredibile, ha diretto un capolavoro come "Le vite degli altri") di ambientare le sue sparatorie in laguna. E ancora: i treni. Un incubo ricorrente di tutta la parte iniziale dell’operazione. Prima si ode una voce minacciosa che, in una stazione deserta, farnetica all’altoparlante di un improbabile locale in arrivo da Domodossola, poi si spaccia la panzana che, guardando dal finestrino poco prima di arrivare a Venezia, si può scorgere la sfolgorante campagna toscana (a occhio e croce, un espediente cinematografico per evitare di riprendere Dolo e Mirano).
In compenso, soccorrono gli attori. Johnny Depp, che ha stranamente accumulato due palle da tennis al posto degli zigomi (ma non è botox, solo grasso), e la già ricordata signora Pitt, qui a proprio agio nella parte di chi non deve chiedere, non deve eccedere, non deve interpretare. Ah, magari troppo magra (ma probabilmente per renderla complementare all’imbolsito protagonista).
C’è anche, benché non valga la pena eccitarsene, una masnada di attori italici, adeguatamente cartonati per l’occasione. Neri Marcorè nel ruolo di concierge-cliché, Christian De Sica in quello di ispettore corrotto (un sorta di neorealismo al contrario) e naturalmente Nino Frassica in abiti poliziotteschi, che almeno nel doppiaggio si esibisce in una chicca assoluta: con Depp su un cornicione in fuga dai cattivi, lo esorta con piglio da “Quelli della Notte”: “No butt!”. E Hollywood è servita.
Il resto: senz’altro qualche attore italiano a noi non noto e qualche buco di sceneggiatura segnalatoci a posteriori: una barca crivellata di colpi che prodigiosamente si ripara nella scena successiva, Angelina che scende in coperta col buio ed esce, subito dopo, nella luminosa alba veneziana, nonché il clou, che invece ricordavamo anche noi, cioè il supersonico viaggio Giudecca-aeroporto by boat in trenta secondi scarsi. Roba da teletrasporto.
Direte: e la storia? Beh, il film l’avete visto, non serve rovinarvi la trama svelandovi che l’uomo misterioso che dirige le mosse della Jolie è in realtà Johnny Depp, che è quindi la stessa persona che lei incontra apparentemente per caso in treno e accompagna a Venezia, di cui si innamora, eccetera eccetera. Il trucco si capisce con almeno mezz’ora d’anticipo sui titoli di coda, e fa meravigliosamente parte dell’inutile insieme.
Quanto ai Kevin, invece, dovete ripassare tra qualche giorno. C'è Clint Eastwood nelle sale.