sabato 14 agosto 2010

Tetrospettive - Where the wild things are

di Ray Stantz
C'era una volta un giovine cineasta di nome Spike Jonze. Costui, pare, era un gran inventore, un visionario – le sue storie e le sue immagini conquistavano e sorprendevano (e rilanciavano John Malkovich!). Successe un di' che il tal Spike decise di smettere di creare e stupire, e di vendersi invece ad una major, piegandosi a realizzare adattamenti da popolari (dice che ne abbia dato pubblica lettura pure l'ubiquo Obama) libri per ragazzi.

E che cazzo.

La fiaba in questione si dipana così: il protagonista è un malefico nanerottolo di circa dieci anni, maleducato e incontinente (in tutti i sensi, presumo, ma soprattutto dal punto di vista caratteriale).
Nota a margine: nome del ragazzetto, Max. Nome dell'attore-ragazzetto: Max. Nemmeno stessimo lavorando a basso budget, ragazzi! Ma sto divagando. Dicevamo: malefico nano impubere.
Costui, per dire, prima frigna perché la sorella maggiore ed i di lei amici non se lo cagano poi, quando gli zompano addosso facendo crollare il suo misero (e sozzo) igloo edificato in giardino, dà di matto, letteralmente. Evidentemente, è più stupido di almeno due dei tre porcellini (costruisci meglio, pirla!).
Indi egli proditoriamente impedisce alla madre single di farsi una piacevole dose d'amor carnale con un piacente giovane, arrivando a mordere la povera donna – e attirandosi i nostri sospetti di idrofobia galoppante.
Non contento di ciò, si dà alla macchia in piena notte, requisisce una barchetta e, novello Soldini, valica il mare per arrivare ad un'isola misteriosa. Popolazione: un ristretto branco di mostroni vagamente antropomorfi, sorta di divinità egizie dei poveri (teste e arti di orso, toro e gallinaceo si sprecano).
Costoro stanno attraversando una crisi. Pare infatti che una società basata su totale anarchia, scarsa dialettica (“spacco questo, magno quest'altro”) e sberloni mollati a casaccio non sia funzionale. Chi l'avrebbe mai detto.
Le selvagge creature in questione non realizzano, purtroppo, l'iniziale proposito di sgranocchiare il malefico pigmeo, anzi si bevono la sua storia di essere un potente mago e lo eleggono proprio re (se ne potrebbe trarre una metafora politica, suppongo).
Sotto la demente guida dell'imberbe i bestioni si godono qualche giornata di divertimento ed ingiustificata fiducia per il futuro – e l'analfabeta si crede pure un figo, nel mentre. Prevedibilmente, tutto va a finire malissimo – ed è solo grazie all'aiuto dell'apparato digerente di una delle bestie femmina (dentro la quale letteralmente si nasconde) che il nostro piscialletto si salva da una truce fine che ben avrebbe meritato.

Momenti clou:
• la “bestia buona” porta il protagonista a conoscere i suoi due nuovi migliori amici, al secolo una coppia di gufi storditi che lei “richiama” abbattendoli a colpi di sassi belli grossi e di traiettorie balisticamente impeccabili;
• la “bestia gallo” si vede strappare un braccio dal bullo del gruppo, si lamenta ma solo brevemente, infine sostituisce l'arto perduto con una protesi di fortuna: un ramo scelto a casaccio – e poi gli fanno pure fare il lavoro pesante, gli infami!

Se proprio si vuol trarre qualcosa di buono da questo pasticcio, eccovi la morale: educate i vostri figli, perdio!

PS: sventuratamente, alla fine l'impubere torna a casa integro. E viene pure riaccolto dalla povera madre. Si spera in un po' di sano riformatorio, a seguire. Delle bestie, invece, non è data sapere la fine. Ci permettiamo dunque di suggerire a chi di dovere le due opzioni senz'altro più ragionevoli:
1. napalmate tutte, altro che terzomondismi a buon mercato;
2. intrappolate e poi date in pasto a dei biologi senza scrupoli per un po' di vivisezione dura – così poi vediamo se imparano le buone maniere con un elettrodo nel cranio (sono generoso).

sabato 7 agosto 2010

The box (Tony Darko e figli)


di Ray Stantz

L'essermi trasferito all'estero ha rallentato non poco la mia, già notoriamente sincopata, vena recensoria. Vengono meno, per dirla tutta, le motivazioni per vedersi & recensire film di pessima qualità. Ma, transitando qualche giorno in patria, ecco venirmi incontro l'occasione, la tentazione, la goduria: un filmaccio pretenzioso da suggere e sputare nella bieca calura estiva. Oh, gaudio!
Scorrazzato in auto dal fido collega mi sottraggo quindi all'aria condizionata ed alle partite di poker per andare ad affrontare l'ultima bravata del regista/sceneggiatore di Donnie Darko: The Box. Ne esco con recensione automatica, e qualche dubbio amletico. Via alle danze.

Richard Kelly, credendosi un fenomeno dopo aver prodotto il film sull'adolescente psicotico che prende ordini da un satanico coniglio oversize e viaggia su e giù per il tempo, si lancia in ancor più metafisiche idiozie in quest'ultima opera: sposta l'orologio una decade più indietro (siamo nei '70, come denuncia l'abbigliamento criminale del protagonista), si porta dietro un pezzo del cast originale (Holmes Osborne, quello che in Darko faceva il padre di Donnie e si ricorda soprattutto per la mitica battuta “io voto Dukakis”), pretende delle stars extra nel cast, collega la morale umana con le sonde su Marte e deformità assortite, si prende sul serio in modo francamente nauseante.

Motore della vicenda un tizio, impiegato della NASA (Frank Langella, cui stranamente dona un cratere sulla faccia: dico, proprio un buco nella guancia attraverso il quale si vedono i denti, ed è un peccato che rifiuti la bibita che gli viene offerta in apertura, sarebbe stato da ridere), che viene colpito da un fulmine. Muore (banale, lo so) ma, dopo un'oretta o giù di lì, torna alla vita (già più innovativo). E, dice, è ora “in contatto con coloro che controllano i fulmini”. Vabbè, per essere tornato dalla morte averci rimesso metà faccia e la sanità mentale non sarebbero danni poi eccessivi. Invece si scopre che è dotato di poteri paranormali, tra i quali il più impressionante pare essere la capacità di costruire un cubo di legno vuoto e piazzarci un pulsante rosso in cima, inscatolare il tutto, e consegnare la scatola (il pacco, diciamolo) ad orari antelucani a degli ignari cittadini. Insomma, invece di mettere i suoi superpoteri a frutto nel ramo immobiliare (che so, Tony Darko & figli, Traslochi, sarebbe stato mica male), decide di mettere delle persone a caso di fronte ad una scelta morale estrema, torturarle per sempre se falliscono il suo test, minacciare di estinguere la vita sulla terra se i suoi “datori di lavoro” non sono contenti, etc etc etc. La solita storia. Chiaramente, l'agenzia per la sicurezza nazionale decide di dargli manforte (e come ti sbagli?). La morale di questa moralistica storiella è sul trito andante, e casomai permanessero dei dubbi ci viene sbattuta in faccia dal succitato buco con un uomo intorno (Langella con la faccia forata dal fulmine, dico): “se non vi ammazzate tra di voi passate il test”. La vetta di profondità è servita.

Purtroppo il film è assai più lungo di questa mia recensione, tocca subirsi sane due orette tra salti di sceneggiatura (o montaggio, o entrambi), deformità variamente esibite, epistassi (sangue dal naso, per i meno inclini al gergo medico) abbondanti e frequenti, inquadrature e carrellate da manuale del piccolo regista fai da te.

Restano i dubbi, alcuni dei quali meritano d'essere esplicitati:
• perché questo regista è ossessionato da forme acquatiche, tipo i vermoni in Darko ed i “portali” qui?
• perché a Langella, dotato di superpoteri e di “rigenerazione 10 volte più veloce del normale” non gli si è tappato il buco in faccia?
• chi ha ucciso Laura Palmer? (che non c'entra un cazzo ma Lynch aveva molta più idea di che cosa stesse dicendo, garantito)
• più importante: perché il volto di Cameron Diaz è diventato una maschera gommosa ed inespressiva? Si è siringata troppo botulino? Ha tirato troppo su dal naso? Si domandava ancora quale inspiegabile motivo l'avesse condotta sul set?
Misteri, appunto, insolvibili.

sabato 8 maggio 2010

Matrimoni e altri disastri

Possiamo anche accettare che Fabio Volo racconti compiaciuto che non è né scrittore né attore né conduttore e che fa sempre quel cazzo che vuole. Ci è pure simpatico, proprio perché consapevole della sua veste di personaggio medio, adattabile, folle come il prezzemolo, scontato come i posti alle tavolate nuziali. Gradiremmo però, quantomeno in un film mainstream, che ha inopinatamente ricevuto il contributo del Ministero (Bondi, anziché scrivere poesie a Elio Vito, potrebbe aggiornarsi sul cinema), cercasse di metterci un filo di partecipazione, se non di recitazione. Ma la colpa è anche di chi l’ha scelto, (non) l’ha diretto artisticamente e gli ha lasciato libertà assoluta di essere inutile, nel ruolo dell’unico protagonista incolto di un’operina zeppa di intellettualismi d’ogni sorta, a cominciare dal manifesto con pile di libri in bella evidenza.

Allora, lo diciamo subito: non ne possiamo più di registi che, non si sa se per estrazione culturale, vissuto privo di sussulti, opzione piaciona o semplice noia, straparlano di masse di fancazzisti più o meno eruditi, che dall’alto (o dal basso) di cattedre universitarie, frustrazioni amorose, versi sciatti, fascinazioni per il mondo letterario, passano la loro trascurabile esistenza blaterando con sussiego di libri, capolavori che non hanno mai saputo scrivere, eroi che non sono mai riusciti ad essere. La vita, cari miei, non è questa. Si provi, la Margherita Buy di turno, ad appassionarsi al dolore, alla stanchezza, alla fatica, perfino al tempo e alla fame, invece di annotare sullo screen saver quanti giorni passano tra una scopata e l’altra, o di precipitare in un cassonetto delle immondizie per riprendersi i suoi pensieri di carta, e sciorinarli all’ennesimo vate dei reading infrasettimanali. Ed esca con persone diverse, non Luciana Littizzetto sua collega di libreria, coreografica come uno scaffale, mitigata dal ruolo ma evidentemente non dal cachet, né col topo di biblioteca dai denti storti che si professa il nuovo Von Trier.

In mancanza, rivolga la sua interpretazione altrove, perché se il background è questo ci si deve aspettare il peggio, compresi gli insopportabili dettagli da canovaccio progressista, come rappresentare un corso pre-matrimoniale con due coppie di extracomunitari su tre, o il prete con turbe sessuali che ci riprova con la ex: i moralismi, per cortesia, teneteli per i salotti del Parioli, mentre discettate di Vinterberg a colpi di Chablis, qui si dovrebbe raccontare una storia, non sprecare pellicola coi luoghi comuni. Ma tant’è, questo è il clichè di “Matrimoni e altri disastri” – ecco, ora possiamo parlarne – ultima fatica di Nina Di Majo, ricca dei già indicati soliti noti e povera, poverissima, di verve. Storia incerta, priva di direzione: la suddetta Buy, sorella di una nubenda (Francesca Inaudi, senz’altro la meno pagata del cast), gestisce una libreria in centro a Firenze, spasima per un poeta che tiene corsi pomeridiani, ospita un saccopelista con velleità registiche e sopporta a malapena il futuro cognato (Volo), grezzo e sopra le righe quanto dev’essere il workaholic moderno, ma ovviamente affabile. Nel frattempo, dà ripetizioni al figlio della collega Littizzetto (l’unico con l’inflessione toscana, nonostante la location, e l’unico che si innamori di lei, nonostante il film) e presenzia a cene combinate con potenziali futuri partner, uno dei quali, docenza a parte, ha un’invadenza inferiore soltanto alla propria alitosi.

A tanto giunti, gli sceneggiatori (?) si rendono contro della mala parata, e a fine primo tempo fanno scattare il guizzo: mettiamo che tutti tradiscono tutti, che la vita non è solo piatta e senza qualità, ma pure peggiore di quanto si sperava. E quindi, in ordine di corna:
1- La sorella della Buy le confessa di non essere tale, essendo stata concepita dallo zio;
2- Il padre, richiesto di delucidazioni sul punto, le conferma tutto, compreso che la moglie tiene ancora in piedi lo sconveniente menage;
3- Il poeta-vate le racconta di avere a sua volta una relazione con la sorella, infrangendole in un amen tutti i sogni letterari e non solo;
4- Lei, per rifarsi della vita grama, si scopa il nubendo in pieno addio al celibato.
Morale? La traccia, in modo esemplare, la madre Marisa Berenson, che grazie a un poderoso lifting è più giovane della figlia: “La vita è un casino”. E in effetti, non le si può dare torto: recitare in "Barry Lindon" e ritrovarsi, 35 anni dopo, a interpretare la suocera di Fabio Volo non è esattamente uno scherzo.

LA SCHEDA

Matrimoni e altri disastri
In una frase: “apri la birra, dai”
Sconsigliatissimo: a chi pensa che il cinema italiano disimpegnato possa essere pure peggio di quello impegnato.
Giudizio: KKKK

domenica 28 febbraio 2010

Amabili (?) resti

Peter Jackson non è un gentilhobbit. Perché nessun gentilhobbit si permetterebbe di disporre di risorse finanziarie illimitate, creare una Light and Magic personale, e poi uscire con una copia smaccata di un film famoso, appena dissimulata dagli effetti speciali. Gli amabili (?) resti (cioè "The lovely bones", titolo retrò talmente brutto che per una volta non andava tradotto, come invece puntualmente è avvenuto) del regista degli Anelli sono infatti né più né meno che un remake ciccione di "Ghost". Basta sostituire una quattordicenne a Patrick Swayze, la sua famiglia a Demi Moore, e una ragazza dark a Whoopi Goldberg, e il gioco è fatto. Peccato soltanto che nella farsa sia finito Stanley Tucci, ormai un caratterista da urlo, usato per impersonare il serial killer al posto dell’amico malvagio dell'originale. Perché identico è il limbo del fantasma che vede da lontano lo scorrere della vita cui apparteneva, identici gli ingrati destini che vorrebbe cambiare, identico, perfino, il bacio che darà al proprio innamorato mancato, incarnandosi nella medium prima di avventurarsi in paradiso.
Di suo, Jackson ci mette solo la grottesca comparsata di Susan Sarandon, nel ruolo di una nonna battona che consola i parenti dell’uccisa a colpi di fumo e whisky, e ovviamente il carrozzone computerizzato del limbo: un cangiante scenario di foreste, scogliere e gazebo, che muta con gli umori dello spirito, attraendovi dettagli a scopo di lucro, come navi in bottiglia (il padre della morta, il non intenso Mark Wahlberg, è appassionato di modellismo) e palloni gonfiabili (ninnolo di altra vittima del killer, simile a quello della celebre sequenza di "M, il mostro di Dusseldorf", ma senza la regia intorno).
Da applausi, infine, l’insensata chiusura della trama: il villain riesce tranquillamente a fuggire dopo la scoperta delle tracce del suo assassinio, trasferendosi da qualche altra parte dell’America ad ammazzare innocenti. E muore, ormai anziano, per uno scherzo del caso: un pezzo di ghiaccio che si stacca da un ramo e gli cade sulla testa, facendolo precipitare sullo strapiombo sottostante. Che anche il cattivo di "Ghost" finisse in modo simile, squarciato dai pezzi di vetro di una finestra, poco importa. Quantomeno, Zucker ci metteva l’innocenza, Jackson invece il calcolo, e parecchia noia. Con l’appesantimento di una voce fuori campo che giustifica l’origine letteraria ma rende ancora meno sopportabile l’operazione. Se questo capita a un talento dell’horror, un tempo anche fantasioso, fa perfino più rabbia. Si spera solo, a questo punto, che si dedichi definitivamente ai blockbuster, e lasci gli esperimenti a chi non cerca necessariamente tesssori al botteghino.

LA SCHEDA

Amabili resti

In una frase:
“ma non l’hanno ancora preso, ‘sto vecchio? È vecchio”
Sconsigliatissimo: a chiunque si aspetti un ritorno alle origini di un regista ormai compromesso col sistema.
Giudizio: KKKk

sabato 2 gennaio 2010

2012

Ve lo diciamo subito: se la presunta profezia dei Maya sulla fine del mondo prossima ventura – 21 dicembre 2012 – è vera, abbiamo solo una richiesta, da bravi condannati a morte: dateci una sceneggiatura migliore. Perché quella del film che dovrebbe rappresentarla, l’omonimo "2012", è a tal punto costellata di banalità e faciloneria da far pensare che l’apocalisse sia l’inevitabile castigo per la stupidità dei dialoghi. L’opera in questione, come noto, è il terzo (e si spera ultimo) disastro firmato Roland Emmerich, dopo gli alieni presi a pugni da Will Smith in "Independence day" e i ghiacci a profusione de "L’alba del giorno dopo". Qui il pretesto è più semplice: niente mostri o sconquassi climatici, ma un vecchio e sano terremoto, avveramento della predizione originaria (cui il regista, molto interessato, dedica sì e no i titoli di testa), con annessa disquisizione scientifica sulle modalità del tutto: i neutrini impazziti che, veicolati da un capriccio del sole, squagliano la crosta terrestre, inghiottendo continenti, città e civiltà senza distinzione.
In verità, ci saremmo accontentati di un normale Big One, magari con epicentro a Hollywood. Sarebbe stato più coerente, dato il consueto canovaccio di fuoco, paurosi sommovimenti tellurici e successive onde anomale, in cui naufraga pure la potenziale credibilità (?) della trama. I governi del mondo, infatti, sono avvertiti già da qualche anno della catastrofe, tant’è che in gran segreto preparano enormi arche (Noè non c’entra, non sa usare il computer) in cui salvare quel che resterà dell’umanità. Per salirci, ed è qui la novità, bisogna disporre di specifiche attitudini: potere politico, soldi a palate, relazioni importanti. Qualità, come si intuisce, che renderanno eletta la nuova specie. Trattandosi di produzione americana, peraltro, il rigurgito idealista è dietro l’angolo: il protagonista, un provvido scienziato tenuto all’oscuro dell’inghippo dalle alte sfere, riuscirà sul più brutto a far ospitare a bordo anche l’ultimo drappello superstite di squattrinati, commuovendo i capi di stato con un pistolotto sulla fratellanza universale.
Nell'impresa, come non bastasse, ci si gioca pure l'unico personaggio valido: un ambientalista con turbe millenariste, interpretato con preoccupante partecipazione da Woody Harrelson, che trasmette in diretta da un’improvvisata stazione-radio di Yellowstone i suoi eccitanti racconti sulla fine del mondo (compresa la diretta della propria). Sarà lui a svegliare la mente dell’eroe per caso di turno, un imbolsito John Cusack nel ruolo di uno scrittore di fantascienza fallito, divorziato e inviso ai figli (tutti presi dal nuovo compagno della madre), che fa l’autista per tirare a campare. Parte perfetta, fra l'altro, per Brendan Fraser, ci fossero stati i pupazzetti, o Nicholas Cage, ci fossero stati i soldi.
Il nostro salverà la famiglia guidando l’auto in mezzo alle strade squassate dai crateri, ricevendo un aiuto decisivo proprio dal successore nel letto coniugale, provetto pilota di aerei da diporto. Quasi un peccato, quindi, che quest'ultimo debba soccombere, come gli altri personaggi positivi di contorno: il bonario padre del protagonista, cantante su una nave, il suo collega ricercatore, che per primo scopre le alterazioni solari, e persino il presidente degli Stati Uniti, un Danny Glover particolarmente valoroso, credente e propositivo, che preferisce restare con i connazionali anziché imbarcarsi per la sopravvivenza. Molto somigliante a Obama, o all’idea che si ha di lui, non fosse che la stessa parte era stata assegnata a Morgan Freeman qualche anno prima nell’unico disaster-movie che si ponga qualche interrogativo, ossia "Deep Impact".
Palesemente inutile, poi, la melassa finale: il ricercatore che conquista l’amore della figlia di Glover, Cusack che si riprende la famiglia, sfruttando la tragica scomparsa del rivale in amore. Lo scenario, in omaggio all’atmosfera da Legoland che domina l’insieme, è un mondo capovolto, dove i continenti sono stati sommersi, squarciati o spostati, e si ricomincia a contare gli anni da zero. Solo che al posto della croce c’è un sacchetto di popcorn.

Note a margine:

- Emblematica la sequenza d’apertura, ambientata in un torrido laboratorio nel sottosuolo indiano. Un attempato scienziato, stremato dalla calura, si compiace a tutto schermo di un pediluvio di acqua gelida. Un po’ di pornografia non guasta mai;
- Ottima la figura del datore di lavoro di Cusack, un imprenditore (e/o mafioso) russo con due grassi e intollerabili marmocchi al seguito, che coglionano il povero autista perché, a differenza sua, abbastanza ricchi da salvarsi. In realtà alla fine rischieranno di rimanere a piedi, issati a bordo dal solo sacrificio del padre. Fortuna immeritata;
- Imponderabili le doti nell'apnea dello scrittore. Dopo aver incagliato l'arca per propria dabbenaggine, sblocca l'imbarcazione (e le sorti del mondo) restando sott'acqua per circa mezz'ora. Roba da far impallidire Pellizzari;
- Encomiabile il trattamento riservato al capo di stato italiano, che sceglie, come l’omologo americano, di restare in patria a pregare. Finirà schiacciato, con pontefice e fedeli, dalla frana della cupola di S. Pietro, come dire che alla religione deve sempre darsi il giusto peso;
- Inaccettabile, invece, il pessimo gusto di crepare la Creazione di Adamo della Cappella Sistina, proprio dove il dito di Dio sta per toccare quello dell’uomo. Più che iconoclastia, è oscenità dozzinale;
- Geniale, se non altro, il delirante filmino complottista di Harrelson: un bric-a-brac molto pop in cui Einstein fa la linguaccia e la storia dell'umanità è ridotta a qualche scarabocchio allegorico. A ben vedere, l'unico momento di animazione del film.

LA SCHEDA

2012

In una frase: “sento che qualcosa ci sta separando”. Segue cratere.
Sconsigliatissimo: a chi pensa che dietro agli effetti (più o meno speciali) debba pur sempre esserci una causa. Cioè una sceneggiatura.
Giudizio: KKKK