L'ha fatto anche
Gualtiero Marchesi. L'altr'anno, in un patto faustiano con
McDonald's, ha proposto per alcuni mesi due panini e un dolcetto di
sua creazione, in foggia di fast food. Come a dire: il commercio può
essere autoriale, basta volerlo. Beh, no: il commercio se ne sbatte
degli autori, cerca solo il profitto, e se azzecca la combinazione di
originalità e successo è solo un caso. Questo lo sa benissimo,
versante cinema, anche Steven Soderbergh, che pur avendo nel
curriculum vari titoli off (sin dai tempi di "Schizopolis") col
business ci si è sempre trovato bene, basti pensare alla serie degli
Ocean o, da ultimo, al pandemico "Contagion". Per questo, da parte sua,
ci si aspetterebbe un minimo di onestà intellettuale: non c'è nulla
di male nel passare dall'esperimento estremo al mainstream alimentare, basta non vergognarsene. Ma ecco, con l'ultima
impresa, "Knockout" – titolo assurdo affibbiato dalla distribuzione
italiana, evidentemente stanca di maltradurre l'originale (qui, "Haywire") – succede proprio l'opposto. Forse perché ispirato dal recente
maledettismo chic, che l'ha indotto a intonarsi il de profundis
registico per il prossimo anno, Soderbergh mette insieme un'opera
trita e ritrita, nella quale tuttavia infila pretenziosi giochi di
macchina al solo, cafonissimo, scopo di esibire i muscoli
intellettuali.
In realtà, ci si sarebbe
accontentati del plafond: un banale action spionistico infarcito di
sganassoni, inseguimenti e doppiezze, funzionale ai popcorn. Poiché
però l'autore (?) non resiste alla tentazione di risultare eclatante
(!), decide inopinatamente di affidare la parte di protagonista alla
fighter di professione Gina Carano, una sorta di incrocio popputo tra
Steven Seagal e Britney Spears. Mal, ovviamente, gliene incoglie, perché con qual certo sadismo le rovescia addosso insistiti primissimi piani,
durante i quali l'esordiente, che pensava bastasse il repertorio marziale, si
passa nervosa la lingua sulle labbra in attesa della fine della
tortura. Idem, com'è intuibile, nelle scene di raccordo. Eterni
campi lunghi di passeggiate che dovrebbero costituire parentesi
meditative nel plot adrenalinico: in realtà l'ennesimo, snobistico,
sfoggio di “guarda, senza mani!”.
La trama, se non altro, è
davvero intricata: quasi tutte le presenze maschili del cast non
hanno di meglio da fare che tentare di uccidere la forzuta, agente di
una compagnia di mercenari al soldo del governo USA, di cui il
relativo capoccia (nonché ex) vuole sbarazzarsi. Segue ogni genere
di vani trappoloni, ivi compreso un giro per l'Europa (altro
esotismo non richiesto dell'americanissimo regista) con canonico
balletto di finti incarichi e connivenze. Non siamo, sia chiaro,
nemmeno lontanamente dalle parti di Jason Bourne, anche perché
Soderbergh, più che alla cura dei personaggi, è interessato a dare
spazio al consueto attorume di fama, reclutato per l'occasione.
Nella ridda di evitabili
comparsate, menzione d'onore per Michael Fassbender, che privo del
mentore Steve Mcqueen limita l'esposizione delle nudità al torso
muscolare, venendo per tutta risposta gonfiato di calci e pugni
dall'eroina ed essendone infine - e sacrosantamente - eliminato. Non
va meglio, peraltro, ad Antonio Banderas, avvilito da barbaccia
incolta e abbigliamento hobo, oltre che spesso ripreso dal basso, con
effetto-pigmeo: pur fuoricampo, nell'unica scena in cui è riuscito
a radersi, sta per essere a propria volta malmenato. Quanto a Ewan
McGregor, mastermind del complotto, gli viene riservata una rissa in
riva al mare, naturalmente senza sottofondo musicale, per rendere
l'ovvietà maggiormente metafisica.
Sul fronte collaborazionista, troneggiano invece Michael Douglas versione funzionario navigato, buono al più come silhouette aeroportuale negli assolati meeting tipici del genere, e il redimorto Bill Paxton, nel ruolo di padre della forzuta, che regge un'intera sequenza da autistico, al solo scopo di non far sapere ai nemici che la figlia si è rintanata in casa sua. Il culmine dell'imbarazzo lo si raggiunge però con Channing Tatum, prima potenziale giustiziere, poi partner sentimentale della nostra, che recita in uno stato di catatonia permanente, e regala all'attonito spettatore l'indimenticabile scena d'apertura: interno giorno, tavolino di un bar a NY, Tatum che guarda Carano fissamente, Carano che guarda Tatum fissamente, entrambi fissamente a disagio fino a quando, per fortuna, qualcuno dal set impartisce l'istruzione salvifica: ok, picchiatevi. Spiace pure che lo ammazzino, alla fine. In tutto questo, una nota: o a Dublino hanno i corpi speciali più imbranati del mondo, o Soderbergh, nel farli disastrosamente colluttare con la protagonista, ha perso di vista la credibilità. Urge piano sequenza di almeno un quarto d'ora, per redimersi.
LA SCHEDA
Knockout - Resa dei conti
La frase: "Ma quanto dura 'sta scena?"
Sconsigliatissimo: a chi, pur conoscendo Soderbergh, pensa ci sia un limite alla sua vanità registica.
Giudizio: KKKk